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Capitolo V


Mio fratello e mio zio si alzarono poco dopo, puntando timidamente lo sguardo verso quello altero di mio padre. Gli sconosciuti che stavano con lui si guardarono perplessi, non riuscendo a capire cosa stesse succedendo.

«Fratello mio!» provò a rabbonirlo mio zio. «So quello che stai pensando, ma...» non fece in tempo a finire la frase che mio padre si avventò su di lui. Non erano molto diversi l'uno dall'altro: stesso naso adunco, stessa pelle cotta dal sole, stessa barba nera. Mio zio era qualche centimetro più alto, e a differenza di mio padre portava i capelli neri pettinati all'indietro, che invece li lasciava sciolti. Un'altra differenza tra loro due era che gli occhi di mio padre erano azzurri, e in quel preciso momento stavano fissando rabbiosamente quelli verdi del fratello.

«Stronzo! Come ti sei permesso di portare i miei figli in mezzo al nulla?»

«Dai, calmati. Avevo bisogno di aiuto per cercare qualcosa di utile, e visto che non c'eri e loro non avevano niente da fare ho pensato che potessero aiutarmi.»

«Chiudi quella tua fottuta bocca!» sbraitò contro di lui mio padre, per poi tirargli un pugno che lo stese a terra.

«Ti prego, fer...» ma al posto delle ultime lettere uscì tutta l'aria dei suoi polmoni quando il fratello gli diede un calcio nello stomaco. 

Mio padre allora continuò, prendendo mio zio per la collottola e colpendolo più volte in faccia. Quando si sentì soddisfatto lo lasciò cadere per terra e si rivolse al gruppo che lo stava accompagnando.

«Forza, andiamo.»

Questi, rimasti sconcertati e confusi dalla scena, lo seguirono per inerzia. Erano tipi particolari, diversi da tutti quelli che avevo visto, compresi i mercanti che venivano da Crossroad. Nonostante portassero abiti adatti al deserto, probabilmente comprati dai mercanti della città vista l'assenza di rattoppi o segni di logoramento, apparivano goffi e a disagio. Moltissimi erano sudati e sofferenti, e anche quelli che non soffrivano allo stesso modo il caldo erano terribilmente disidratati. Alcuni di loro, ingenuamente, si erano tolti la parte superiore dei vestiti rimanendo a torso nudo, e iniziavano già a mostrare i primi accenni di scottature. Da qualunque angolazione si potesse guardare, non erano di queste parti, ma non avevo la più pallida idea da dove venissero. Incuriosito mi avvicinai a quello che sembrava più importante, un vecchio con una lunga barba grigia e i capelli radi.

«Scusate, chi siete voi?» gli chiesi, facendolo uscire dal suo stato di torpore.

«Oh, ciao bambino. Sai, quando si fa una domanda a uno sconosciuto prima bisognerebbe salutare e presentarsi.»

«Nah, così è più veloce» dissi, facendolo ridere di gusto.

«Non hai tutti i torti. Dai, mi dici il tuo nome?»

«Mi chiamo Donald, anche se mi chiamano tutti Donnie. E tu invece? Qual'è il tuo nome?»

«Mi chiamo Gabriel.»

«Chi siete, e cosa ci fate qui?»

«Fuggitivi, andati via da terre i cui signori ci vedevano come una minaccia. Vorremmo venire a colonizzare questo posto. Consultando delle vecchie mappe e alcuni documenti abbiamo scoperto che proprio oltre le montagne c'era una città che ora dovrebbe essere rimasta abbandonata. Così, invece di costruire tutto da zero, potremmo rimettere a posto le strutture e aggiustare i vecchi sistemi. Siamo venuti apposta per controllare la situazione e decidere sul da farsi.»

«Io non vi consiglierei di andare là.»

«Perché?»

«Quando ci siamo stati abbiamo trovato le strade piene di scheletri. È stato terrificante.»

«Cosa, davvero?» mi chiese lui, con voce carica di sconcerto

«Già.»

«Oh, cielo. Sapevo che la città era stata colpita dalla pestilenza, ma... oh cielo.»

«Aspetta, tu sai cosa è successo?» gli chiedo.

«Non proprio. All'incirca un secolo e mezzo fa, a ovest, era scoppiata una terribile malattia. Non c'era scritto molto su quello che era successo in quegli anni nei documenti che abbiamo consultato, si fa solo qualche cenno sul fatto che furono prese misure drastiche per evitare che la malattia si propagasse anche nella costa est.»

«Credo che queste "misure" comportassero un uso massiccio di piombo» dissi con cinismo, cercando di nascondere il disagio che provavo.

«Che cosa orribile da dire, ma mi sa che hai ragione. Quando ci insedieremo daremo una degna sepoltura a quelle povere anime.»

A parte Stingy, un mercante di Crossroad che solo in quel momento notai, tutti i presenti abbassarono il capo in segno di preghiera per qualche secondo. Dopo che lo rialzarono, continuai a fargli domande.

«C'è una cosa che non ho ancora capito. Perché avete chiesto a mio padre di aiutarvi?»

«Vostro padre è l'unica persona che conosco in questo posto, mi serviva qualcuno per aiutarmi a trattare con i mercanti di Crossroad.»

«Aspetta un secondo, hai detto che conosci mio padre? Ma com'è possibile?»

«Ecco vedi...»

«Non dire un'altra parola» lo interruppe mio padre, infastidito. «Si tratta di cose successe parecchio tempo fa, non voglio che i miei figli siano coinvolti in questa storia.»

«D'accordo.» 

«Ma io lo voglio sapere!»

Mio padre mi guardò con uno sguardo torvo, che non gli avevo mai visto in faccia, poi mi disse solo «No», chiudendo la questione.

Rimasi per un po' in silenzio, finché il mio sguardo si posò sullo strano medaglione che Gabriel portava al collo, fatto di metallo così lucido da riflettere il sole.

«Scusa, ma cos'è quello?» gli chiesi. Lui, per nulla infastidito dalla domanda, si fermò e iniziò a parlarmi.

«Questo è il simbolo sacro della nostra religione» mi disse, riempendosi gli occhi di un'adorazione che non avevo mai visto a nessuno.

«Cosa significa?»

«Vedi...» 

«Ehi, non statevene lì impalati. Se volete parlare allora fatelo camminando.»

«Va bene, d'accordo.»

Io e Gabriel continuammo a parlare mentre camminavamo verso la città fantasma. Ci trovavamo quasi in testa al gruppo, e mio padre ci stava vicino, assicurandosi che non dicesse niente. Mio fratello e mio zio rimasero indietro, cercando di mettere distanza tra loro e mio padre.

«Dov'ero rimasto... Ah sì. Noi crediamo che il mondo e dio siano la stessa cosa, e questo medaglione è una rappresentazione della sua essenza» proseguì a spiegare. «Questi tre cerchi sovrapposti rappresentano ognuno uno dei cosiddetti Assoluti. Il Tempo, il costante divenire, l'Essenza, tutto ciò che esiste, e la Coscienza, l'intelligenza che governa il creato.» 

Mentre parlava, il suo dito si posava su ogni singolo rilievo del medaglione, come a specificarne ogni aspetto e significato. 

«Tutti e tre intrecciati, sono racchiusi all'interno di questo cerchio più grande, che rappresenta lo Spirito del Mondo, il tutto, ma sovrapponendosi formano anche questo cerchio più piccolo, che rappresenta l'umanità. Ogni cosa al mondo contiene un pezzo di divino, e noi, in quanto creature dotate di coscienza, siamo le creature più vicine allo Spirito del Mondo. Devi sapere che...»

Non riuscì a finire la frase. Avevamo appena superato il posto di blocco e ci trovammo all'interno della città dei morti. I presenti ammutolirono davanti a quella scena, e molti si rigiravano convulsamente quel medaglione che Gabriel mi aveva fatto vedere, pregando per non so bene quale protezione divina.

«Io vi avevo avvertito di quello che avremmo trovato» gli dissi. Lui non poté fare altro che un cenno d'assenso.

...

Nonostante l'immagine spaventosa che si erano trovati davanti, quei tizi decisero di continuare la loro esplorazione, non ancora dissuasi all'idea di insediarsi lì. Mio padre comunque decise di rimandarci all'accampamento, costringendoci a lasciare lì tutte le cose che avevamo raccolto, a parte un fucile che lasciò a nostro zio per difenderci. Questi, con la faccia rossa e gonfia per i colpi subiti da parte di mio padre, si trovava nuovamente davanti a me con le redini in mano, lasciando mio fratello a seguirci a breve distanza.

Dovemmo ripercorre tutta la strada a ritroso e quando arrivammo all'accampamento il sole stava iniziando a tramontare. Trovammo ad aspettarci al cancello Bill in persona, accompagnato dalla sua inseparabile scorta di energumeni. Ci fece cenno di venire e fermammo i cavalli proprio di fronte a lui, lasciandoli allo stesso stalliere che ce li aveva preparati. Mentre questi li portava via, Bill si avvicinò a noi e indicò il fucile che mio zio portava a tracolla.

«Questo dove l'hai preso? Non ricordo che tu mi abbia chiesto di portare un'arma da fuoco quando mi avevi avvertito della tua uscita.»

«Questa non è una delle nostre armi. L'ho trovata nella città che siamo andati a controllare.»

«Oh, quindi hai trovato un'arma, e mi pare pure in buone condizioni se consideriamo il tempo che dev'essere passato. Ne hai trovate altre per caso?»

«In realtà... sì, ma le ho dovute lasciare a mio fratello quando ci ha raggiunti.»

«Scusa, perché Robert vi ha raggiunto? Non stava lavorando per qualcuno di Crossroad?»

«Lo stava facendo, ma non era gente della città ad aver chiesto di lui. Alcuni stranieri chiedevano di lui per fare da intermediario. Volevano insediarsi in quelle rovine.»

«Va bene, vai a darti una ripulita» gli disse alla fine il nostro capo. Mio zio, dopo queste parole, si voltò verso l'accampamento.

«Aspetta» lo fermò nuovamente Bill, mettendogli una grossa mano callosa sulla spalla. «Prima mi devi dare quel fucile.»

Senza esitazione, mio zio si sfilò l'arma e la diede a lui, poi andò verso l'accampamento, seguito da me e mio fratello. Dopo essere entrati camminammo ancora un po' per le vie polverose, stretti tra le baracche fatiscenti. Arrivati vicino a casa nostra, zio Baldwin ci fermò.

«Va bene, ragazzi, è meglio che io vada» ci disse nostro zio, cercando di andarsene.

«Tu non te ne vai da nessuna parte» le urlò contro nostra madre, che pareva spuntata fuori dal nulla.

«Ehi, c-ciao Mary» disse, imbarazzato come se fosse stato scoperto a rubare.

«Come hai osato portare via i miei figli senza dirmi niente?»

«Perché probabilmente mi avresti impedito di farlo.»

«Mi stai prendendo in giro!?»

«Dai, ti ho lasciato pure un biglietto per avvisarti» disse mio zio. 

Mia madre all'improvviso ebbe un sussulto. Si guardò a destra e a sinistra, sincerandosi che nessuno l'avesse sentito, poi si avvicinò a mio zio con le mani che tremavano.

«Sta' attento a quello che dici, idiota. Se qualcuno ti avesse sentito ci saremmo trovati in un mare di guai.»

«Scusa.»

«Non ho bisogno delle tue scuse» disse lei, per poi afferrare me e mio fratello per i polsi e portarci a casa.

«Mamma, di che cosa stava parlando? Perché vi avrebbe messo in un mare di guai?» le chiesi, incuriosito.

«Non sono affari vostri» mi disse soltanto, lasciandomi di nuovo con domande senza risposta. Era la terza volta in quel giorno che evitavano di rispondermi. Non era stata certo l'unica, ma mai hanno bloccato la mia curiosità con simile forza, specialmente i miei genitori, ed ebbi il sospetto che tutte e tre le domande riguardassero la stessa cosa, anche se non sapevo ancora dire cosa.

...

«Ehi, Donnie, perché ti porti in casa quell'orrenda mantella?» Mi chiese mia sorella, che se ne stava sdraiata sul suo letto.

Purtroppo, quando arrivai, non ebbi un momento per stare da solo. La pistola che ero riuscito a prendere nell'ufficio del sindaco si trovava ancora nelle tasche dei miei pantaloni, e l'unica cosa che la copriva era la mantella che indossavo. Quello che avevo fatto, mi resi conto solo allora, era stato parecchio stupido. Per le leggi del nostro accampamento avrei dovuto consegnare quella pistola a Bill appena arrivato, e rischiavo una dura punizione. Vista la mia età al tempo potevo chiedere clemenza, ma conoscendo Bill probabilmente non me l'avrebbe concessa. Dovevo aspettare il momento giusto per nascondere l'arma e nel frattempo tenerla con me.

«Ho freddo adesso, non ho voglia di togliermela» le risposi, sperando che abboccasse. Durante la notte la temperatura calava sempre parecchio, quindi poteva risultare una scusa convincente, ma mia sorella continuò a incalzarmi.

«Ma qui dentro fa caldo, e anche se fosse hai altri abiti caldi e, sopratutto, puliti. Quel coso è pieno di sabbia e altro schifo che sta spargendo ovunque.» Purtroppo aveva ragione, dovetti ammettere. Quella mantella, che teneva caldo di notte e fresco di giorno, era ricoperta di sabbia e sporcizia che mi ero portato dietro dalla città. Era sempre stato difficile nascondere le cose a mia sorella, che come intelligenza non era mai stata inferiore a me.

Arrancai nel cercare di trovare una risposta convincente, quando sentimmo qualcuno bussare alla porta. Ringraziando non so quale dio, andai ad aprire la porta e mi ritrovai davanti Abdon, che pareva aver corso a tutta velocità da noi. 

«Ab, cosa succede?»

«È ritornato tuo padre, insieme a due carri» mi disse d'un fiato. Nostra madre, che stava cucinando la nostra cena, mise da parte il cibo e si avvicinò.

«Davvero? Dov'è adesso?»

«Sta andando al centro dell'accampamento.»

«Meglio andare allora.»

Mia madre e mia sorella si misero una mantella, poi tutti e tre uscimmo di corsa. Ormai si era fatto tardi, il cielo si era riempito di stelle e la luna, arrivata quasi a metà, rischiarava la notte. Le uniche altre fonti di luce arrivavano dal muro, che doveva essere sempre illuminato per avvistare i nemici, e dalla piazza.

 Arrivati al centro dell'accampamento ci ritrovammo circondati da una folla di curiosi che voleva assistere alla scena. Dopo un po', non so nemmeno io come, riuscimmo a districarci tra la ressa ed arrivammo davanti, dove potevamo vedere mio padre, seguito da due carri guidati da alcuni degli uomini che aveva accompagnato, e stava mostrando quello che aveva trovato in città. Di fronte a lui, Bill lo sovrastava di parecchi centimetri, con la pancia convessa coperta a stento dai suoi abiti e i neri occhi a palla che passavano continuamente tra mio padre, i carri e la folla.

«Fammi rapporto, soldato» ordinò Bill, stupendo tutti. Ogni maschio adulto del nostro accampamento, e di tutti gli altri del deserto, era formalmente definito soldato, ma quasi nessuno usava più quell'appellativo, che stava cadendo in disuso. Il vociare della folla iniziò a diffondersi, riempendo l'aria della notte di sussurri.

«Tenente» rispose mio padre, usando il termine ufficiale che designava il capo dell'accampamento «nella mia spedizione sono riuscito a recuperare diverse armi e  oggetti preziosi...» e da lì iniziò a fare l'elenco di quello che aveva preso, che era davvero molto lungo. A quanto pare erano riusciti a trovare molte più cose di quanto avevamo fatto noi, meravigliando la folla per il ricchissimo bottino. Tuttavia, nonostante il momento di orgoglio, la situazione mi stava mettendo a disagio. Bill aveva dato l'ordine formale di fare rapporto, cosa che aveva costretto mio padre a rispondere sottolineando la sua carica davanti a tutti. C'erano parecchi riti che avevamo ereditato dai nostri antenati, molti dei quali avevano perso il loro significato, ma che secondo le nostre leggi dovevano essere rispettati, pena pesanti punizioni. In genere si tendeva ad aggirarli, ma se era il capo a richiederli non si poteva fare altro che obbedirgli.

Dopo che mio padre ebbe finito, Bill indicò il carro delle armi con un gesto del suo possente braccio e ordinò alla sua scorta di portarlo nell'armeria, poi si rivolse nuovamente a mio padre e gli disse «Riposo», congedandolo. Una volta portato via il carro con le armi l'altro, pieno di chincaglieria che ci aveva reso in un colpo parecchio più ricchi, si diresse verso la nostra casa. 

Ad un certo punto, mentre osservavo Bill tornare nella sua residenza, notai qualcosa sul muro laterale di quell'edificio. Mi allontanai quindi da mia madre e mia sorella e feci il giro della piazza, spintonando chi mi si parava davanti. Inciampai una volta anche sul piede di un omone alto tre volte me, ma non feci caso alle sue proteste e continuai. 

Alla fine riuscii a vederlo bene, il simbolo del nostro e di tutti gli altri campi del deserto, con le sue ali spiegate, la pace e la guerra strette tra gli artigli. La testa, in maniera meno ipocrita di quanto non fosse sul giubbotto di quel soldato, era rivolta verso la guerra, rivelando tutta l'intenzione di lasciare cadere dalla sua stretta la pace, come qualcosa che non lo riguardasse.

Quando mia madre alla fine arrivò a prendermi, io non potei che continuare a osservare quel graffito fatto tanto tempo fa, che si stava sempre più sbiadendo man mano che la sabbia ne grattava la superficie. Per quando andai a letto, lo stemma della barbarie era ormai inciso nella mia mente, insieme alla consapevolezza di essere sempre vissuto sotto la sua egida.



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