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Capitolo IV

Il nostro mondo è sempre stato violento, già da bambino riuscivo a capire questa verità. Alla vita segue inesorabile la morte, e  aggiungerei che quasi mai questa era serena in quei tempi caotici. Quello che vidi oltre il posto di blocco, però, vuoi per la sorpresa, per l'entità o anche perché al tempo ero piuttosto piccolo, rimase profondamente inciso nella mia mente. Davanti a noi, come in un incubo ad occhi aperti, si estendeva una distesa di vecchie ossa bianche. Alcuni scheletri interi conservavano ancora addosso degli abiti riconoscibili, ad altri mancava qualche pezzo, ma tutti erano rivolti nella nostra direzione con due, tre o addirittura quattro occhi che ci osservavano ciecamente, le estremità tese verso di noi in un disperata richiesta di aiuto che, purtroppo, noi non potevamo cogliere.

Dopo qualche attimo di incertezza, comprensibile pure per un uomo così abituato all'orrore come mio zio, questi continuò la sua avanzata, costringendoci a seguirlo in quel cimitero. Io e mio fratello cercammo in tutti i modi di non toccare quelle ossa, quasi con il timore che facendolo avremmo corso gravi pericoli, ma semplicemente la morte tappezzava completamente il terreno, e noi vivi, per poter continuare, fummo costretti a camminare sui resti di quegli antichi disgraziati. Zio Baldwin, incurante di simili congetture, continuò a camminare verso la via principale, ignorando gli scricchiolii provenienti dai suoi piedi.

Dopo un po' le ossa cominciarono a diradarsi e io ritrovai, prima di Ryan, abbastanza calma da potermi guardare attorno con più attenzione. A ridosso della strada erano posizionate delle specie di strutture metalliche, ormai inesorabilmente corrose, le cui sbarre superiori erano percorse lungo tutto il perimetro da degli anelli poco più larghi delle stesse. Osservando meglio potei notare che attaccati a questi c'erano dei brandelli di quello che sembrava una sorta di telo. 

Alla fine, non so bene come, trovai il coraggio di staccarmi da mio zio e mi avvicinai a una di quelle strutture. Vedendo emergere dalla sabbia un angolo di essa iniziai a spazzarla via con una mano, curioso di vedere cosa c'era sotto. Dopo poco colpii qualcosa di solido e leggero e, dopo un paio di spazzate date col dorso della mano, rivelai una sorta di tenda. La tastai, sentendo la tipica consistenza dei teli di plastica, cosa che spiegava la sua sopravvivenza alle intemperie, e poi continuai a pulirla finché non emerse una croce rossa, quasi completamente cancellata ma ancora riconoscibile. Quel simbolo lo avevo già visto una volta, quando mi ammalai e mio padre mi portò alcune medicine che era riuscito a procurarsi da un mercante di Crossroad. Ognuna di quelle portava lo stesso identico simbolo, con appena qualche piccola differenza. Quando chiesi della cosa a mia madre questa mi disse che quel simbolo indicava tutto quello che aveva a che fare con la cura, specie all'epoca dei nostri antenati. Forse quella struttura aveva uno scopo medico di qualche tipo, o ne era legato in qualche modo. Nonostante ciò le cose dovevano essere andate molto male, viste le condizioni in cui versava l'entrata della città. Avendo già sentito al tatto cosa c'era sotto, lasciai quel sudario così com'era e ritornai da mio zio, che si era fermato ad aspettarmi, poi continuammo in direzione del centro.

...

Dopo diversi minuti, passati per lo più tra la carcassa arrugginita di una macchina e l'altra per cercare qualcosa di utile, arrivammo nella piazza principale della città. Come ebbi modo di notare, ogni insediamento umano, piccolo o grande che fosse, ha sempre un luogo aperto dove la gente si può incontrare e parlare. Possono mancare tutori della legge, servizi sanitari o un qualsivoglia tipo di organizzazione, ma il bisogno di socialità sembra dover essere sempre rispettato. Nonostante la piazza sia il luogo dove si concentra la vita, però, quella che visitai quel giorno era un'altra distesa di morte, non dissimile da quella trovata all'entrata della città. Sembra contraddittorio, ma ha completamente senso che in una città fantasma questi cimiteri formino le loro piazze. 

 Io e Ryan eravamo abbastanza intimiditi, ma questa volta la vista non ci giunse inaspettata e rimanemmo vicini a nostro zio con più convinzione, mentre ci addentravamo in quell'ossario a cielo aperto.

Alcuni alberi secchi e anneriti dal sole si alzavano dalla sabbia, gettando ombre scure che parevano provare a ghermirci, e sopra di essi uno stormo di avvoltoi ci fissava con placida indifferenza, attendendo il prossimo pasto. Al centro esatto della piazza si ergeva un piedistallo vuoto e la statua che vi doveva essere posta sopra giaceva lì di fianco, con le fattezze rese irriconoscibili dall'azione incessante della sabbia. Non che rimanesse più qualcuno a ricordarlo, a questo punto. 

Così come l'entrata, anche il centro cittadino presentava i resti metallici di quelle strutture mediche improvvisate, che distanziavano di qualche metro i muri fatiscenti degli edifici che li circondavano. Dovemmo scavalcare tre file di muretti militari, diversi dei quali, a provarne la necessita, presentavano svariati fori di proiettili, ma alla fine arrivammo davanti al grosso edificio dall'altro lato della piazza. Nonostante un paio di colonne fossero crollate e quasi tutte le finestre fossero andate in frantumi, la struttura nel suo complesso sembrava reggere e decidemmo di ispezionarla.

Una delle ante del portone principale si era sganciata da uno dei cardini e bastò uno strattone deciso di mio zio per staccarla completamente, permettendoci di entrare. Arrancammo ancora per qualche passo in mezzo alla sabbia fine prima di raggiungere la solida pietra delle scale, il tutto rischiarato solo dalle sottili lame di luce che penetravano dalle finestre, ma una volta arrivati là nostro zio ci fermò per parlarci.

«Ok, ragazzi, qua sopra dovrebbe esserci l'ufficio del sindaco, quindi è più probabile che là troveremo qualcosa di prezioso. Prendete ogni oggetto di valore che potete e mettetelo in una di queste due sacche. Dentro questa mettete oggetti d'oro e altre chincaglierie, i mercanti di Crossroad adorano queste stupidaggini, mentre in questa mettete ogni arma che riuscite a trovare, anche se dubito fortemente che ce ne siano.» 

«Perché pensi che non ne troveremo?» chiese Ryan.

«Sembra ci sia stata una battaglia feroce fuori, ma non abbiamo trovato alcuna arma tra i corpi. Probabilmente le avranno portate via quando si sono ritirati.» spiegò.

Detto questo iniziammo a risalire la scalinata di pietra. L'eco dei nostri passi sui gradini riecheggiava in tutto l'edificio, rendendo l'atmosfera ancora più desolata di quanto non fosse già di suo. Arrivati in cima si apriva un lungo corridoio, che terminava in un grosso portone sul fondo. Sulle pareti intonacate di questo si intervallavano una serie di ritratti che, nonostante l'età, erano ancora perfettamente riconoscibili. Le persone ritratte indossavano tutte degli abiti piuttosto strani, poco pratici ed evidentemente troppo caldi per questa regione. Alcuni erano giovani, altri piuttosto vecchi, chi con la barba e chi senza, alcune erano delle donne, ma per lo più si trattava di uomini. Gli ultimi due indossavano dei vestiti diversi rispetto agli altri, più rigidi e completamente neri, ed erano stati vandalizzati con delle scritte che non capivo. 

Dopo aver superato un lampadario che si era staccato dal soffitto arrivammo di fronte al portone, ma quando provammo ad aprirlo scoprimmo che era chiuso. Mio zio provò a dargli una spallata, però non riuscì a smuoverlo di un dito.

«Merda! Ci deve essere un passaggio.»

Ci guardammo intorno, cercando un modo per entrare. Il mio sguardo ben presto si posò su una strana cornice metallica che prima non avevo notato, sepolta com'era tra i detriti del tetto che erano venuti giù insieme al lampadario. Li tolsi e sotto di essi trovai una specie di grata.

«Grande, Donnie» si complimentò mio zio. «Devi aver trovato il sistema di ventilazione dell'edificio. Da qua puoi entrare nell'ufficio del sindaco e vedere se riesci ad aprire la porta dall'interno.»

«O-ok.»

Dopo qualche calcio questa cedette, rivelando un lungo tunnel piuttosto stretto. Mi infilai là dentro e iniziai a strisciare in mezzo alla ruggine e alla sporcizia, di cui non volevo e non voglio ancora conoscere la natura. Svoltai un paio di volte alla mia sinistra, cercando di orientarmi in direzione del nostro obbiettivo, e mi ritrovai ben presto davanti a una grata molto simile a quella che mio zio aveva sfondato per farmi entrare. Ci guardai attraverso e, sebbene non potessi vedere molto bene, riuscii a capire che quella era un'altra stanza e non più il corridoio. Mi girai, mettendomi con i piedi rivolti verso la stanza, e iniziai a tirare calci. Non ero certo forte come mio zio o mio fratello, ma dopo poco le viti consumate saltarono via e io potei entrare.

La stanza era arredata con una grossa scrivania di legno, ormai asciutto e scheggiato ma ancora abbastanza solido, due sedie poste davanti e un'altra dietro a essa e delle bandiere ormai lacere posizionate ai lati. Dietro la scrivania le finestre rotte gettavano raggi luminosi all'interno della stanza, dandole un tono maestoso e, al contempo, piuttosto inquietante e desolato, avendo fatto entrare parecchia sabbia che ricopriva il pavimento. Sulla parete, mezza nascosta da una libreria coperta da polvere e ragnatele, si trovava una sorta di sportello di metallo.

«Ehi, Donnie, sei riuscito a passare dall'altra parte?» mi chiese mio zio dal lato opposto della porta.

«Sì, ora sono nella stanza» gli risposi.

«Ok, dovresti cercare la chiave che apre questa porta. Dovrebbe esserci una specie di strano tavolo pieno là dentro. Potresti iniziare da lì.»

«Come fai a saperlo?»

«Ecco... è una lunga storia, te la racconterò un'altra volta. Adesso, in quella scrivania dovrebbero esserci diversi cassetti, e forse in uno di essi si trova la chiave.»

Feci come mi disse mio zio. Aggirai la scrivania e trovai due file di cassetti ai lati dello spazio dove probabilmente stavano le gambe. Controllai uno ad uno tutti quelli del lato destro, trovando solo fogli illeggibili e qualche ninnolo che poteva essere venduto a un buon prezzo e che poggiai sopra la scrivania. Appena aprii il primo cassetto del lato sinistro, però, mi ritrovai davanti a qualcosa che non mi sarei mai sognato. Là dentro era custodita una vera pistola, con tre scatoline piene di munizioni. Presi l'arma e la rigirai tra le mani, sentendo al tatto lo strato oleoso di non so bene cosa che l' aveva protetta dalla ruggine per tutto questo tempo. Stavo per urlarlo a mio zio quando mi bloccai.  In quel momento non ero controllato da nessuno, quindi non sarebbe stato così difficile nascondere la pistola in mezzo a quegli ampi abiti. Questo era proprio uno dei motivi per cui li usavamo in effetti. Tuttavia, per la nostra legge, tutte le armi da fuoco, le cose più importanti in un mondo in cui uccidere è spesso l'unica strada, dovevano essere lasciate nelle mani del capo dell'accampamento, che le dava in uso per determinate circostanze. Nonostante ciò, prima ancora che me ne fossi reso conto, avevo già nascosto quell'arma tra le pieghe del mio mantello.

Alla fine trovai la chiave dentro l'ultimo cassetto della scrivania, insieme ad altre che probabilmente permettevano l'accesso alle altre stanze dell'edificio. Aprii quindi la porta dell'ufficio e feci entrare mio fratello e mio zio. Quest'ultimo arraffò prontamente tutti gli oggetti che avevo tolto dai cassetti e poi si voltò verso quella specie di sportello metallico. Dopo aver spostato la libreria provò ad aprirlo, senza ottenere alcun risultato. Lo esaminò con attenzione, cercando di cogliere ogni piccolo particolare, ma poi si allontanò scuotendo la testa.

«Non posso aprire questo coso da solo. Sono costretto a lasciarlo chiuso e tornare in seguito con qualche esplosivo.»

«Possiamo venire anche noi?» chiese mio fratello.

«Assolutamente no!» rispose fermamente lui.

«E ora che facciamo?» chiesi.

«Ora che abbiamo queste chiavi possiamo controllare il resto della struttura. In seguito vorrei provare ad entrare in alcuni edifici che hanno attirato la mia attenzione. Se siamo veloci potremmo anche tornare all'accampamento prima del tramonto.»

...

E così avevamo fatto. Controllammo abbastanza rapidamente sia quello che gli altri edifici che ci aveva indicato nostro zio. Alla fine riempimmo entrambe le sacche. Una l'avevamo fatta in una specie di negozio che vendeva bigiotteria femminile, o almeno l'ho supposto dalle forme che avevano i manichini, mentre l'altra in un negozio completamente sprangato che doveva vendere armi. Dopo essere riusciti a sfondare la porta e a entrare trovammo i resti di un tizio che probabilmente era rimasto per parecchio tempo nascosto lì dentro, a giudicare dalla quantità di lattine e scatolette vuote sul pavimento, ma che alla fine aveva lasciato solo una bella riserva per noi e uno scheletro con il cranio sfondato.

Quando finimmo in quell'edificio decidemmo di andarcene, ma per farlo dovevamo ripassare in quel mare di ossa, anche perché difficilmente avremmo trovato una strada in condizioni migliori e quella era la via più diretta. Ma, mentre ripassavamo di lì, qualcosa attirò la mia attenzione. Uno scheletro portava una divisa, ma la cosa che notai di più era il simbolo sulla sua giacca, le cui ali aperte mi ricordarono qualcosa. Alla fine dovetti distogliere lo sguardo per seguire i miei parenti, che nel frattempo si stavano allontanando, nonostante ciò continuai a rimuginarci a lungo dopo, cercando di ricordare dove lo avevo già visto.

...

Eravamo sulla via del ritorno, baldanzosi grazie al grosso bottino che eravamo riusciti a procurarci, quando ci ritrovammo davanti a un nutrito gruppo di persone che stava venendo nella nostra direzione. Ci riparammo tutti e tre dietro il traliccio crollato e mio zio si preparò a combattere, caricando il fucile con meno ruggine che avevamo trovato. Provai a sbirciare per capire chi fossero, ma erano troppo lontani e avevano il sole dietro. 

Una volta che mio zio mise alcune cartucce nel fucile sparò un colpo in aria come avvertimento e poi lo puntò verso di loro..

«Andatevene via, altrimenti diventerete cibo per avvoltoi.»

«Bal, brutto stronzo! Abbassa subito quel dannato fucile.»

Nel riconoscere la voce mi alzai di scatto oltre il traliccio, voltandomi immediatamente nella direzione della risposta.

«Papà?»

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