Capitolo I
Al centro del nostro accampamento, nello spiazzo davanti alla casa del capo, si trovava un legnetto con uno straccio legato all'estremità, che fungeva da "bandiera" per il nostro gioco. Me ne stavo in alto, appiattito sul tetto di lamiera del bar, a controllare tutto quello che succedeva attorno.
Dalla sommità dell'edificio dove viveva il nostro capo si propagò il suono basso e profondo di un corno e i due portatori corsero a perdifiato verso la bandiera. Sebbene fossero abbastanza lontani l'uno dall'altro potei notare che il portatore avversario, un ragazzino dalla pelle scura poco più grande di me, stesse guadagnando un leggero vantaggio sul nostro. Questo, tuttavia, me lo aspettavo ed ero più che pronto ad agire.
Dopo essermi accertato che tutti fossero nelle posizioni concordate mi preparai per lo scatto e, nel momento in cui prese la bandiera, schizzai in direzione dell'avversario.
Corsi sopra i tetti della via, infastidendo coloro che erano al di sotto, e saltai su una pila di stracci sporchi posta in un vicolo che dava sulla strada principale, precedendo di alcuni metri l'avversario. Mi liberai del mucchio di panni e, nel momento in cui il ragazzo passò davanti a me, lo placcai, facendolo cadere e perdere la presa sulla bandiera. Approfittando del suo momento di stupore, afferrai la bandiera con un balzo, mi rialzai di scatto e corsi in direzione della mia base, infilandomi in uno dei tanti vicoli che si aprivano tra le baracche. Da là sopra avevo visto che alla fine della strada due suoi compagni, tra cui anche mio fratello, lo stavano aspettando per fermare gli eventuali inseguitori. Loro, nel momento in cui mi videro placcarlo, si lanciarono al mio inseguimento. Corsi a perdifiato: ad ogni passo sollevavo sbuffi di polvere, ma non feci in tempo a percorrere un centinaio di metri che all'improvviso mi ritrovai la strada tagliata da uno della loro squadra che si era portato avanti. Ero circondato, tutti e quattro i componenti della squadra avversaria erano puntati contro di me. Si trovavano esattamente dove volevo.
«Ci sei, Ab?» urlai in direzione di una bassa costruzione alla mia sinistra.
«Sì, sono qui!» rispose il mio amico.
Sotto gli occhi sbigottiti dei miei avversari lanciai la bandiera oltre la rimessa degli attrezzi, verso il compagno che si era appostato sulla strada parallela. Subito questi andarono in confusione e cercarono di raggiungerlo ma, a causa della disposizione degli edifici dell'accampamento, furono obbligati a fare un lungo giro, lasciando ad Abdon tutto il tempo per arrivare alla nostra base.
Corsi anche io verso la porta e, da dietro il vicolo, vidi sbucare un ragazzetto con i capelli rossi arruffati e vestito di una mantella logora, che superò il compagno che avevo messo di guardia e si diresse con tutto il fiato che aveva in corpo verso il cancello dell'accampamento. Dopo aver schivato carretti pieni di armi, donne che tornavano dalla piazza con il cibo per la cena e guardie stanche che esclamavano frasi piuttosto colorite al suo passaggio, raggiunse la nostra base con un ultimo balzo, decretando la nostra vittoria.
Io e i mie compagni ci riunimmo attorno ad Abdon, scambiandoci pacche sulle spalle, quando d'un tratto comparvero i membri della squadra avversaria. Mio fratello, che si trovava in testa al gruppo, mi puntò con aria minacciosa: teneva le braccia strette lungo i fianchi, le mani chiuse a pugno e lo sguardo dritto su di me.
«Hai barato, Donnie! Non puoi lanciare la bandiera al tuo compagno.»
«Nessuna regola vietava di farlo. L'unica cosa era di non colpirci a vicenda con calci e pugni.»
«Cos...»
«Ti ha fregato, Ryan» lo interruppe mio padre. Era apparso all'improvviso, senza che ce ne accorgessimo, e si avvicinò con fare rilassato, facendo ondeggiare a ogni passo l'ampia mantella di lino grezzo e guardandoci divertito.
«Sarà, ma non mi sembra giusto» borbottò mio fratello, incrociando le braccia e guardando dall'altra parte.
Il sorriso di mio padre si aprì in una risata e, senza smettere di sorridere, disse: «Dai, ragazzi, ora dovete andare ad allenarvi.»
Io e mio fratello salutammo i nostri amici e attraversammo il cancello che portava fuori dall'accampamento, una sorta di portone a due ante, con un architrave formato da un unico tronco sgrezzato. Sopra di esso il teschio di un toro, con le corna lunghe più della metà dell'architrave stessa, pareva osservarci con aria sinistra mentre ci allontanavamo lungo il perimetro. Il recinto che accostavamo era un muro di pannelli in lamiere o compensato, addossati a un terrapieno che fungeva da camminamento. Alla sua base, dove avevano scavato per prendere la terra, c'era una sorta di piccolo fossato che era stato riempito con una selva di spuntoni di legno tenuti assieme da del filo spinato, così alto e folto da uscire dalla buca e scoraggiare chiunque tentasse di avvicinarsi.
Non molto lontano dalle mura si trovava il campo d'addestramento, nient'altro che una zona delimitata da una lunga corda con qualche bersaglio. Al tempo nessun accampamento della zona era in grado di produrre munizioni per le armi da fuoco e non potevamo sprecarle per far esercitare i bambini. Per questo noi, come tutti gli altri ragazzini, ci addestravamo con arco e frecce, mazze, lance e altre armi rudimentali. In quell'occasione nostro padre ci fece addestrare con le armi da tiro e quindi aveva disposto un bersaglio a testa a quindici, trenta e cinquanta metri.
Io e mio fratello afferrammo i nostri archi e ci mettemmo in posizione dietro una linea tracciata sul terreno. I bersagli di paglia si trovavano in mezzo a una distesa di polvere. Tesi la corda dell'arco, sentendo ogni singolo muscolo delle braccia, delle spalle e del torso contrarsi con forza. Visto che il vento soffiava verso est puntai leggermente nella direzione opposta, in modo da compensarlo. La freccia fendette l'aria con un leggero sibilo, poi si conficcò nel centro del bersaglio, vibrando per qualche secondo. Sentii anche la freccia di mio fratello abbattersi sulla paglia e mi voltai verso di lui, scoprendo che era finita appena fuori dal cerchio centrale, probabilmente perché aveva compensato troppo il vento.
Scagliammo altre due frecce e riuscii a centrare di nuovo i bersagli, così come mio fratello dopo quel primo momento di incertezza.
«Siete stati bravi, ma ricordati, Ryan, che non ci sono altre possibilità quando ti vengono addosso.»
Ripetemmo la stessa operazione con i bersagli successivi, con un risultato simile al precedente, poi toccò a quelli dopo ancora, molto più distanti. Fu difficile tendere così tanto l'arco e per due volte colpii il cerchio interno. Mi preparai a colpire quando, con la coda dell'occhio, scorsi mio fratello che sbagliava anche l'ultimo tiro. Ryan scagliò a terra il suo arco e borbottò furiosamente qualcosa che si perse nel sibilo del vento, diventato più forte, poi si voltò nella mia direzione. Sia lui che mio padre ora mi stavano osservando, uno con cupa rabbia, l'altro con attesa. I loro sguardi mi attraversarono da da parte a parte, come se tentassero di forarmi il cranio per vedere cosa stessi pensando, e rabbrividii. Mi voltai nuovamente verso il bersaglio davanti a me, cercando di escludere ogni altra cosa oltre a me e a quello che avevo di fronte. Presi un lungo respiro e puntai leggermente più in alto, tendendo così tanto la corda da toccarmi la guancia con essa. Scoccai la freccia, che percorse il tragitto formando una leggera parabola, conficcandosi infine al centro del bersaglio.
...
Mancavano parecchie ore al tramonto, ma mentre ci dirigevamo al cancello il cielo iniziò a scurirsi e l'aria divenne più secca e polverosa. Sulla punta della lingua iniziai a sentire il sapore della polvere che, impastandosi con la saliva, diveniva fango che io e mio fratello iniziammo a sputare per terra. Mio padre era un uomo che aveva vissuto gran parte della sua vita nel deserto, quindi riusciva a decifrare molto bene i messaggi che esso gli mandava. Si guardò intorno con aria circospetta, come per cercare qualcosa, poi si rivolse direttamente a noi.
«Probabilmente sta per scatenarsi una tempesta di sabbia. Non credo sia grossa, ma è meglio tornare in fretta a casa.»
Accelerammo il passo coprendo il naso e la bocca con l'orlo delle mantelle. Di secondo in secondo il vento sempre più forte sollevava la sabbia, rendendo difficile vedere dove stavamo andando. Quando arrivammo al cancello trovammo ad aspettarci uno strano figuro avvolto da un lungo mantello sbiadito, che non riuscii a identificare a causa del vento e della sabbia. Questo si avvicinò a mio padre e lo fermò, mettendogli una mano sulla spalla.
«Robert, ti stavo aspettando. So che non è il momento migliore, ma ho un messaggio da parte di Bill. Vorrebbe parlarti di una cosa.»
«Non vedi che sta per iniziare una tempesta di sabbia? Non posso andare adesso.»
«Tutti quanti sanno quanto possa essere pericoloso, ma non mi sembra una tempesta grossa, forse finirà prima del tramonto. Appena si placa vai subito da lui, va bene?»
«D'accordo.»
Una volta consegnato il messaggio andò subito a cercarsi un riparo e noi continuammo a camminare verso casa. Mio padre proseguì imperterrito davanti a noi per coprirci dal vento, portandosi le braccia davanti alla faccia. Per qualche secondo si voltò indietro, come per cercare l'uomo che gli aveva dato il messaggio. Il suo sguardo era contratto, gli occhi stretti in due fessure sottili come lame. Non so il perché di questo, ma, in qualche modo, capii che la sua espressione non era dovuta soltanto alla sabbia.
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