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Mattia

Una sigaretta è il prototipo perfetto di un perfetto piacere. È squisita e lascia insoddisfatti. Che cosa si può volere di più?

(Oscar Wilde)

C'aveva diciotto anni, mia madre, quando mi ha partorito, era una ragazzina con la frangetta da gabberina e gli occhi sognanti, la bandana rossa ad avvolgerle i capelli scuri, e una canna tra le labbra, era una di quelle che delle regole se ne sbatteva le palle. Era una ragazzina che sognava un futuro diverso, una hippie in piena regola, con lo zaino pieno di fronzoli in spalla, pronta a far danni. Aveva assillato così tanto mio nonno, che alla fine gliel'aveva comprata quella Lambretta 125 verde pisello da cui lei non si separava mai e con quella ci girava il mondo. Qualche volta mi mostrava le foto in bianco e nero che si faceva fare durante i suoi viaggi, sempre col culo su quel vecchio scooter anni '50. Una me la sono anche tenuta per quanto mi piaceva, la tenevo nel quaderno di Fisica, aveva i lati ingialliti dal tempo qualche piega che attraversava la foto in verticale che le conferiva un aspetto più antico e malconcio. Era bella davvero, coi suoi capelli lunghi e i pantaloncini strappati. Me la immaginavo un po' così, sempre strafatta a scoparsi un uomo diverso ogni sera in qualche bagno di qualche pub dimenticato da Dio. Poi un giorno incontrò mio padre, uno di quei tipi che lei aveva sempre odiato da cui si guardava bene di stare alla larga, uno di quelli in giacca e cravatta vecchio stampo di cui mai si sarebbe innamorata, o almeno così pensava, ma quel bastardo le aveva rubato il cuore. Addirittura lei aveva inciso le loro iniziali sul telaio del suo motorino.

E poi le successe quel qualcosa che non rientrava nei piani, rimase incinta di me; avrebbe voluto sbarazzarsi di quel bambino, ma mio padre la pregò affinché lo tenesse e da quel giorno cambiò tutto. All'inizio lei non voleva l'aiuto economico di mio padre e vendette il motorino per comprarmi lo stretto necessario, ma poi i genitori di mio padre la presero sotto la loro ala protettiva e le diedero tutto ciò di cui lei aveva bisogno, forse anche di più. Mia madre si trasformò ben presto nel prototipo di donna che voleva lui, non che avesse altra scelta dato che viveva sotto lo stesso tetto della sua famiglia. Diventò troppo apprensiva, troppo tranquilla, si fece togliere tutti i tatuaggi che aveva fatto, era troppo normale forse, una che non sarebbe mai uscita dagli schemi, rispettosa delle regole e dello Stato, così da un giorno all'altro entrò a far parte del coro della chiesa e diventò rappresentante del mio istituto. Dal momento in cui nacqui, mi misero sotto una campana di vetro, convinti che non sarei uscito un giorno o l'altro dal mondo perfetto che avevano idealizzato e costruito per me. Peccato che avessi preso il peggio da entrambi: l'indomabilità di mia madre, quella che la caratterizzava un tempo e la durezza di mio padre; il lato malato di lei e la testardaggine di lui, ma di sano non avevo niente, mi sentivo stretto con le regole cucite addosso come bottoni a chiudere una camicia stirata che mai mi sarebbe entrata. Mi ero preso anche le regole, e le sgridate, fino ad arrivare ad indossarla per non sentirli più. Beh, papà, adesso la camicia ce l'ho, sbottonata per far vedere i tatuaggi, ma ce l'ho.

«Matti, mangia qualcosa, dai.» Mia madre cercava di farmi diventare obeso come quel dannato roditore a cui dava da mangiare dieci volte al giorno, non capiva che facendo pallanuoto dovevo mantenere una linea e che conseguentemente avevo una determinata dieta da rispettare, non che volessi, anzi odiavo farla, odiavo stare attento, mi sarei scofanato l'intera credenza se avessi potuto, e se ci si metteva anche lei, diventava una cosa insostenibile.

«A 'ma e che palle! Ho diciannove anni, non sono più un ragazzino a cui devi stare appresso con l'aeroplanino di omogeneizzato. Se non ho fame, non ho fame. Non insistere, punto!»

«La colazione è il pasto più importante della giornata, non puoi mangiare solo un uovo sodo. Tra l'altro a cui hai tolto il tuorlo» continuò lei, imperterrita.

Mi misi le mani in faccia e me le lasciai cadere a penzoloni. Poi mi misi a brontolare tra me e me, e pensai che forse se avessi mangiato qualcos'altro me la sarei tolta di torno almeno per tutta la mattinata.

«Dai ok, mi mangio il latte coi biscotti, va bene?» chiesi scocciato, mentre mi avvicinavo alla credenza per aprirla e prendere la scatola di Gocciole. Presi il latte d'avena dal frigo e posai entrambe le cose sul tavolo di mogano. Non appena appoggiai il sedere sulla sedia, lei mise le mani sui fianchi in segno di protesta. «Va meglio!»

«Mi vuoi anche imboccare, ma'? Tieni» chiesi mentre addentavo un biscotto e gliene porgevo un altro in segno di sfida.

«Non fare lo scemo, semplicemente credo che mangi troppo poco.»

Niente oh! Non ce la fa a capire.

Fortunatamente quel giorno avevo la gita a Pompei, quindi sarei andato via poco dopo.

«Ti ricordi che oggi devi accompagnare tua sorella a scuola?» mi fece lei, appena girata sui fornelli per accenderli, pronta a cucinare per un esercito.

«Che coglioni!»

Da quando avevo preso la patente, prendevo la mia macchina per andare a scuola (anche se ci aveva sempre portati mia madre prima di entrare in chiesa) così non dovevo subirmi le canzoni di Ultimo di mia sorella e potevo svegliarmi anche un po' dopo, dato che ci mettevo un secondo a vestirmi e lavarmi.

«Mattia Ferrari!» tuonò lei, girandosi a guardarmi. Quanto le volevo bene a mia madre, dio se le volevo bene! Con quei suoi vestitini sbarazzini ma eleganti che le regalava ogni Natale mio padre, gli chignon che le raccoglievano in modo impeccabile i capelli ora biondi come il grano, e i piedi sempre scalzi, quello non era cambiato mai, si rifiutava di mettersi le scarpe, almeno a casa, anche quando era inverno lei girava scalza. La indossava bene la maschera, mia madre, usciva di casa e si infilava la più bella delle maschere per piacere a tutti: al maestro d'orchestra della chiesa, al comitato scolastico, alla preside e anche ai miei amici, che la adoravano ma non la conoscevano di fatti e questa maschera era stata costruita su misura proprio dall'uomo che aveva sposato, quello con cui dormiva tutte le notti e che io chiamavo papà, ma che della figura paterna non aveva niente o quasi niente.

«Eh che c'è? Che palle, ma non la puoi accompagnare tu?»

Mi folgorò con gli occhi e io li alzai al cielo perché ormai aveva indetto la mia condanna: Mattia Ferrari condannato a portare sua sorella Giorgia, in macchina con lui, cosicché lei possa rompergli le palle con la musica, mettere i piedi puzzolenti sul cruscotto e rompere i coglioni per il fumo di sigaretta; anche l'impiccagione sarebbe stata meno fastidiosa e meno dolorosa.

«Ma che hai contro tua sorella?»

«Che ho? Mamma, mi rompe le palle per tutto, non posso mettere le canzoni che voglio perché puntualmente si inventa un mal di testa e non posso nemmeno fumare perché alla principessa da fastidio il fumo.»

Intinsi un biscotto nel latte e poi lo addentai, poi per dispetto le feci un bel sorriso.

Lei si mise la mano davanti come per pararsi gli occhi. «Oh che schifo Mattia, sei un animale, chiudi quella bocca! Parli tanto di dieta e poi fumi, proprio tu che fai pallanuoto, prima o poi li dovrai buttare quei polmoni se continui così.»

Ecco la solita ramanzina sul fumo, come se non lo sapessi.

«E comunque lo sai che oggi devo cucinare e portare lo strudel di carne a don Michele. La accompagni tu, non fare il ragazzino!»

"Non fare il ragazzino" era la frase di casa Ferrari, avremmo dovuto appendere un bel cartello alla porta d'ingresso: invece di "Benvenuto", "Entra, ma non fare il ragazzino".

«Ho capito, non c'è scampo. La fai preparare, per favore? - urlai scocciato - che altrimenti quella ci mette le ore in bagno: e il trucco, e la piastra, e il bidet, e il cambio, e quello, e quell'altro. Dato che già mi sono beccato due note per il ritardo, non vorrei la terza.»

Misi alzai dal tavolo, misi la tazza nel lavandino e la scatola di biscotti nella credenza. Quando mi girai fui sorpreso di vedere quel pidocchio di mia sorella sulla porta, già pronta ad uscire e con le cuffiette all'orecchio. «No, non ci credo! Non mi dire che sei pronta! È Natale, o quale santo del paradiso mi ha fatto 'sto favore?»

Lei mi sorrise con una smorfia di disprezzo. «Simpatico! Non vorrei che mi scaraventassi dalla macchina in corsa durante qualche raptus di rabbia, tutto qua.»

«Dai pidocchio, andiamo.» Presi le chiavi della macchina, poi ci pensai un attimo e agguantai anche la mia chitarra che avevo chiamato Lola, magari mi sarei annoiato meno di quanto mi aspettavo. «Ciao ma'.» Le diedi un bacio in fronte, come ogni volta che uscivo da quella porta e lei mi ripeteva sempre che il bacio sulla fronte si da ai morti.

«Ciao ragazzi. Divertitevi ma troppo.»

«Ma', stiamo andando a scuola! Che vuoi che facciamo? Cercheremo di non ubriacarci troppo, dai. Dirò al prof di non versarmi troppo vino nella bottiglietta dell'acqua.»

Chiusi la porta di casa e misi in moto la macchina, non appena Giorgia si avvicinò allo sportello io accelerai e feci qualche metro. «Mattia!» urlò lei, con la mano sui fianchi.

«Ah, scusami, non ti ho proprio vista, dai sali che facciamo tardi.»

Aprì lo sportello, ma non aspettai che si sedette e feci qualche altro metro avanti.

«Ti odio, Mattia!»

Mi misi a ridere come un pazzo mentre vedevo dallo specchietto retrovisore che era incazzata nera. «Dai, pidocchio, basta scherzi.» Stavolta la feci salire sul serio. Lei sbattè lo sportello forte per chiuderlo.

«Oh ma sei scema? Che cazzo ti dirà la testa! Così me lo rompi lo sportello!»

«Allora smettila di fare il deficiente e parti, che altrimenti te la becchi davvero la terza nota.»

Arrivammo a destinazione in tempo e senza altri intoppi. Rimasi in macchina a fumarmi la sigaretta di cui mi ero privato per non dare a mia sorella altri motivi per lamentarsi e mi soffermai a osservare, per la prima volta, il volto di Alice all'entrata di scuola: un volto pulito, con gli zigomi alti e una pioggia di lentiggini a ricoprirle il naso e le guance. Era una tipa strana, sembrava uscita da un'altra epoca, mi era sempre sembrata una con le rotelle fuori posto. Quel giorno indossava una camicetta color vermiglio con due tasche sul davanti, era un po' larga sulle braccia, ma finiva stretta sui polsi, l'aveva infilata nei jeans sbiaditi a vita alta tenuti su da una cinta nera enorme, le stavano larghi anche quelli, ma non sembrava importarle. E le sue fedeli All Star giallo ocra.

«Buongiorno, pisellone, scendi e mi offri una sigaretta o rimani là a fissare tua sorella come se fossi uno stalker?» Non mi ero reso conto che Gabriele era di fronte alla mia macchina già da un po'. Tirai fuori il pacchetto e gliene porsi una.

«Che palle», sbuffò lui mentre sfilava la cicca dalla mie mani, «oggi rimani per il peer tutoring

«Per forza. Mio padre si è raccomandato di uscire dall'esame di maturità con cento e lode, così potrò prendere la borsa di studio e con i crediti che ho accumulato dal terzo posso aspirare a un 98 al massimo. Spero che quella rimanga.»

«Quella chi?»

«Alice.»

«Alice Bianchi?» chiese lui che sembrava più informato di me.

«Eh, sì. Alice Bianchi. Ieri abbiamo avuto una piccola discussione.»

«Di che tipo?»

«Ma che ti frega? Niente, non è successo niente. È che le donne se la prendono per tutto. Probabilmente aveva il ciclo.» Sbuffai fuori il fumo e lui fece un risolino.

Quando finì l'ultima ora di Filosofia, misi le mie cose dentro lo zaino, comprai una bottiglietta d'acqua alle macchinette ed entrai nella sua classe. Non c'era.

Che stronza!

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