1
Alice
Tu guardi fuori dalla finestra e guardi il mondo. Cerchi di capire il mondo. Cerchi di capire perché non ha un ordine come i tuoi libri.
(Disturbia)
Ero nata negli anni '90, gli anni del Furby che mio padre si dimenticò sotto al cuscino, uccidendolo, gli anni del Tamagotchi, dei diari segreti che poi tanto segreti non erano, delle rondelle di liquirizia che ci portavamo in tasca come se fossero il nostro tesoro. Gli anni in cui speravamo che Joey Potter si mettesse definitivamente con Dawson Leery, ma che poi alla fine, eravamo un po' tutte innamorate di quel fallito di Pacey, con quel suo fare goffo e tremendamente imbranato, io e Giorgia durante l'estate ci chiudevamo in casa a vedere le puntate di Dawson's Creek, la serie tv che parlava dei primi anni del college, di sesso e di triangoli amorosi, ma per la verità ci piaceva anche Beverly Hills, andavamo pazze per Dylan, interpretato da Luke Perry, che forse è stato il primo vero rubacuori della storia che ha fatto girare la testa a tutte le adolescenti. Gli anni dei poster giganti attaccati alle pareti, quegli anni in cui andavamo in giro col walkman e delle cuffie enormi per spegnere il mondo (e ci sentivamo anche fighi con quella specie di ufo tra le mani). Gli anni in cui non esisteva ancora Instagram e diventare una fashion blogger non era una delle carriere a cui aspiravamo. Però io ero fissata con gli anni '80, e menomale che c'era Stranger Things a rendergli giustizia.
«Oh mio dio, oh mio dio, non posso guardare» esclamò Giorgia, coprendosi gli occhi con entrambe le mani.
«Dai guarda! Ti perdi sempre le parti più belle!»
«No, non posso. Sto troppo in ansia.» Aprì le dita a spiraglio e strizzò le palpebre per mettere a fuoco.
«No, no, no. Perché sta uscendo?» grugnii. Giorgia stava lentamente abbassando la guardia, tanto era curiosa della scena.
Incrociai le dita. «Secondo me è una trappola, insomma perché quel democane non si avvicina? Gli hanno lasciato tutto quel manzo a disposizione!» Steve uscì dal pullman con la mazza chiodata in mano.
«E' una trappola!» urlai io, ma lui niente, non mi diede ascolto. «Ma sei scemo?», inveii contro di lui, poi guardai la mia migliore amica. «Perché è così stupido?» Steve era uno dei miei personaggi preferiti, all'inizio l'avevo odiato, ma poi avevo imparato a conoscerlo. Non solo non era niente male fisicamente, ma faceva morire dal ridere. Se fosse morto, avrei smesso di guardare la serie. O forse no, probabilmente non avrei smesso, ma sarei andata ai piedi degli studi di registrazione a legarmi a un albero in segno di protesta finché non l'avessero fatto resuscitare in qualche modo.
Lei si mise a ridere. «Non ti può sentire. E' inutile che urli e strilli a ogni serie. Nessuno seguirà mai i tuoi consigli.» Poi mise una mano nella scatola dei pop corn al burro e se li portò alla bocca, mentre io cercavo di sbottonarmi i pantaloni troppo stretti in vita. Lo facevo sempre, ogni volta che mangiavo e di solito questa mia azione era accompagnata da un sospiro di sollievo, del tipo 'aaaah così và meglio'. Giorgia era presa del tutto dalla scena sullo schermo, ma ancora con gli occhi ridotti a due fessure, come se così fosse meno esposta ai colpi di scena, mentre qualche pop corn cadeva fra i villi di cotone rosa del tappeto. Stranger Things era diventata la nostra rovina da un po' di tempo ormai. Declinavamo tutti gli inviti fuori perché dovevamo vedere e rivedere le puntate fin quando non spuntavano le nuove e c'eravamo anche promesse che se un demogorgone avesse attaccato una di noi, l'altra avrebbe dovuto assolutamente salvarla.
«Mi salveresti se uno di quei cosi cercasse di mangiarmi, vero?» mi aveva chiesto quando avevamo iniziato a vedere la serie mentre guardava uno di quei mostriciattoli mangiare carne umana. Erano dei cani demoniaci, con la pelle tirata come se gli fosse stato strappato via il pelo, delle zampe con unghie affilate e un muso che era un misto tra una pianta carnivora e un fiore con i denti aguzzi, con la bava sempre a colargli dalle fauci.
«E tu mi salveresti?» chiesi io.
«Non puoi rispondere a una domanda con un'altra domanda.»
«Sì che ti salverei. A patto che mi regali quella maglietta dei Blink 182 che ti sei comprata cinque anni fa!» Allora mi aveva dato una spinta e ci eravamo messe a ridere entrambe, quella era stata la nostra promessa.
Sapevamo che al mondo esistevano milioni di fan di quella strana serie tv, ma noi eravamo le numero uno in assoluto. Mi ero anche comprata il portachiavi con la bocca dei democani e il ketchup con il tappo a forma di faccia di Undici, detta Undi, la bambina con i super poteri. Era una goduria metterne un po' sulle patatine fritte e vedere la salsa rossa uscirle dal naso.
Poi mi venne un lampo di genio. «Sai cosa stavo pensando?»
«Cosa?» mi chiese lei che fissava ancora la tv.
«Potrei dipingere la parete della casa con le lettere dell'alfabeto e poi addobbare i muri di lucette di Natale» dissi orgogliosa, come se fosse l'idea dell'anno.
«Non stai un po' esagerando?»
«Esagerando? Rinunciare alla vita sociale per una serie tv è esagerare, ma noi quello l'abbiamo già fatto. Dobbiamo alzare l'asticella.»
***
La mattina seguente, dopo aver dormito insieme, andammo a scuola, eravamo stremate però avevamo finito di vedere anche la seconda stagione di Stranger Things, non aspettavamo che la terza. Io ero seduta accanto a Giorgia dalla parte della finestra, perché amavo guardare fuori quando ero in classe anche se venivo sempre ripresa dai professori per questo motivo: "Alice, sta' attenta", "Alice, non distrarti", "Ci sei, Alice?" ma non c'ero mai, ero fuori da lì, lontana a volare con le foglie, a cavalcare il vento, ero una pozzanghera che aspettava la pioggia, oppure ero a esplorare il Sottosopra, ma non ero mai in classe quando guardavo fuori, se ci avessero tolto le finestre non so come avrei resistito per sei ore. Quella mattina aveva iniziato a piovere forte ed era il penultimo anno di liceo. Era una pioggia sporca, una di quelle che porta solo terra e cenere, e sbatteva sulle tapparelle come se volesse entrare.
Giorgia Ferrari era la sorella che non avevo mai avuto, ci conoscevamo da quando eravamo nate praticamente, ma prima non ci stavamo poi tanto simpatiche, almeno fino agli otto anni, quando Roberto - un bulletto delle elementari - le disse che era grassa davanti a tutta la classe, allora io gli diedi un pugno in faccia. Certo mi beccai una punizione esemplare: non mi distribuirono le caramelle gommose per ben due settimane e convocarono subito mia madre, che mi mise in punizione a sua volta, togliendomi il game boy per qualche giorno, però in compenso diventammo amiche per la pelle.
«Te lo ricordi?»
«Cosa?» mi chiese lei che ovviamente non stava nella mia testa e non poteva sapere cosa stessi pensando.
«Il pugno che ho dato a Roberto quando eravamo alle elementari.»
Si mise a ridere. «Oh sì che me lo ricordo, è stato davvero un gran bel pugno sul naso. La maestra Tina ti ha proibito di mangiare le caramelle per una settimana.»
«Non erano due?»
«Mmh», mugolò per un po' mentre alzava gli occhi al cielo per pensare, «no, sono sicura che fosse una.»
Mi ricordavo due, ma forse proprio perché per me era stata una tortura mi sembrava che fosse passata una vita in assenza di glucosio.
«Ragà, ascoltatemi per piacere, è importante!» ci riprese Giovanni, il rappresentante di classe, che aveva preteso il collettivo dai professori per parlarci di una "cosa importante", almeno così diceva lui, noi non avevamo la minima idea di cosa fosse. Era stato eletto dal popolo non perché fosse responsabile, anzi, semplicemente perché si era accaparrato tutti i voti ed era anche stato facile: erano bastati un po' di muffin al cioccolato e una torta al limone fatta da sua nonna, una signora anziana con le guance sempre rossicce che si era aperta la pasticceria a poco più di qualche metro di distanza dalla scuola, si chiamava Nonna Meca's Cake, un nome mezzo all'italiana e mezzo all'inglese, ma a nessuno disturbava più di tanto. Ci andavamo tutti prima di entrare a scuola per comprare le pizzette - sì, perché cucinavano anche le pizzette - e qualche biscotto sfornato appena prima da lei, i più buoni erano quelli alla cannella o al cocco, infatti io optavo sempre per quelli. La conoscevano tutti e le volevamo tutti bene.
L'unica cosa positiva di avere eletto uno come Giovanni, era che non aveva paura di parlare con i professori, che poi alla fine era metà delle responsabilità considerando che quelli che avevamo avuto prima, avevano timore anche di chiedere di andare in bagno. Durante il primo anno di liceo mi ero candidata anche io, ma poi alla conta dei voti avevo scoperto che ero stata votata solo da due persone e una di queste era Giorgia, l'altra ero io; Giorgia aveva falsificato il mio voto e l'aveva inserito nella magica scatola bianca, me l'aveva confessato poco dopo.
«Cioè io mi sarei votata da sola? Ma si può fare?»
«Sì, certo», mi aveva detto mentre piegava il foglio sorniona e lo inseriva nella scatola, «tanto nessuno lo verrà a sapere.»
In effetti nessuno lo venne a sapere, ma non mi candidai mai più data l'umiliazione personale.
«Ho richiesto il collettivo perché sabato prossimo ci sarà la mia festa, siete tutti invitati. Tutti a parte quel coglione di Lorenzo.» Lorenzo Lizzi era uno dei suoi migliori amici, stavano sempre insieme, anche durante le interrogazioni. Giovanni prese una penna e gliela tirò sulla testa, di tutta risposta Lorenzo prese l'astuccio e fece lo stesso colpendo però la lavagna.
«Hai preso il collettivo per parlare della tua festa? Ma perché non cresci un po'?» Aveva urlato Rebecca Biso, dall'ultimo banco, una tipa un po' dark sempre vestita di nero a cui non fregava niente di niente, nemmeno dei voti, l'avrebbero bocciata se avesse continuato così, lo sapevamo tutti, e lo sapeva anche lei.
«E invece te perché non ti stai un po' zitta e non ti decidi a comprare qualcosa diverso dai vestiti che indossi al funerale?»
A quel punto lei si era alzata con fare di sfida e Lorenzo si mise in mezzo. «Dai su, smettetela di darvi addosso voi due. State sempre a litigare. Se facciamo casino ci tolgono il collettivo e sinceramente a me non dispiace aver perso un'ora di religione, e a te?» chiese rivolto a Rebecca, che lo fulminò con lo sguardo e poi tornò a sedersi e scrivere sul diario.
«Ad ogni modo avete una settimana di tempo per comunicarmi chi viene, Francesco farà il gruppo whatsapp in cui inserirà tutti, tranne me, così vi potete sbizzarrire con le idee per il regalo, se non siete sicuri che mi piaccia, mi potete sempre regalare i soldi, poi ci penso io.» Poi tirò un evidenziatore addosso a un altro suo amico che invece era seduto all'ultimo banco e stava ridendo con Sara Livorno, la ragazza di fronte a lui.
«Francè, mi devi stare a sentire» tuonò Giovanni.
«Ti sto ascoltando.»
«Che ho detto?»
«Che ti devo stare a sentire!»
«Vabbè lasciamo perdere», fece rivolto a lui, poi guardò di nuovo tutta la classe, «cercate di venire tutti, perché ho affittato un posto da urlo.»
«Ah quasi dimenticavo, la scuola ha organizzato 'sta cosa che si chiama Peer tutoring se ho capito bene. In pratica chiunque abbia qualche carenza in una qualche materia e vuole ripetizioni, viene da me e si iscrive, gli verrà assegnato un tutor alla pari, una ragazza o un ragazzo dell'ultimo anno. I professori pensano che in questo modo abbatteremo il muro che c'è tra alunno e adulto che insegna, è una specie di esperimento da quello che ho capito, se va bene lo estenderanno ai prossimi anni. Io personalmente mi iscrivo, non si sa mai che non mi capiti quella figa di Carolina.»
Lo guardammo tutti come per dire 'Ma fai davvero?'
«Ao ragà non mi guardate così, ognuno poi fa quello che vuole, lascio il foglio nella scrivania, quando volete vi inserite.»
«Ma loro che ci guadagnano?» chiese Lorenzo, mentre Giovanni piegava il foglio e lo metteva nel cassetto.
«Gli danno i crediti.»
«E quando? E poi come li scelgono questi tutor?» chiese Giorgia a fianco a me.
«Due ore dopo scuola, vi portate il pranzo e invece che uscire alle due, uscite alle quattro, avete un quarto d'ora di pausa ovviamente. E poi a seconda della materia in cui abbiamo carenze viene scelto il più bravo del quinto anno in quella materia.»
Giorgia si girò verso di me. «Ci iscriviamo? Siamo delle pippe in matematica. Vediamo come va. E poi c'è quel figo del migliore amico di mio fratello in quinto.»
Gabriele Orrini, il tipico bamboccio scemo: occhi chiari, alto uno e novanta con i capelli castani e la barbetta incolta. Mi chiesi perché si doveva andare a incastrare in tutte quelle cotte impossibili e improbabili.
Giorgia non era mai cambiata da quando andavamo alle elementari. Era un essere umano come tanti con un cuore fatto di pastafrolla e fragole ricoperte di cioccolato. Se avessi dovuto darle un aggettivo, sarebbe stato "piena": la pancia sempre piena di ottimi dolci che si divertiva a infornare, la mente piena di pregiudizi e leggende metropolitane, la libreria stracolma di romanzi rosa a cui credeva fermamente, e il cuore pieno di sogni irrealizzabili. Agli occhi degli altri appariva troppo sorridente, troppo scherzosa o chiassosa, ma io lo sapevo che era ricoperta da un mantello di tristezza e timidezza che nessuno avrebbe mai notato. Era permalosa a volte, soprattutto quando si trattava del suo peso, ma sarebbe sempre rimasta il mio essere umano preferito; non ricordavo nemmeno quante erano le volte che ci eravamo scambiate i compiti per rispondere alle domande che non sapeva l'altra, eravamo andate avanti così, spalla a spalla, voto dopo voto. Purtroppo però era vero: l'unica materia in cui facevamo veramente schifo era matematica. Peccato fossimo allo scientifico.
«Fammici pensare ok? Anche a me servirebbero lezioni di matematica effettivamente.»
***
Quando tornammo da scuola, provò in tutti i modi a convincermi. «Per favore, Alice! Se lo fai tu lo faccio anche io.»
L'occhio mi cadde sulla nostra foto appesa al muro. Era la recita delle elementari, quando mi ero sentita male e avevo vomitato sul palco tutte le caramelle gelatinose che avevo rubato nella dispensa segreta della classe, eh sì perché poi, quando mi misero in punizione, io e Giorgia andammo alla ricerca del doppione delle chiavi della dispensa, dove tenevano tutti i dolci e riuscimmo anche a trovarle. Sarebbe stata davvero una bella recita se non avessero dovuto chiamare i bidelli per pulire i miei orsetti colorati rigurgitati sui vestiti da fate ed elfi dei miei compagni. E comunque continuo a credere che la colpa sia delle insegnanti perché se solo avessero nascosto meglio quelle chiavi, non sarebbe successo tutto quel macello.
Qualcuno bussò forte alla porta e senza aspettare una risposta, la aprì di getto. «Dove hai messo le mie cuffiette?»
Era Mattia, Mattia Ferrari, il fratello della mia migliore amica, aveva diciannove anni a quel tempo, ma faceva ancora il quinto liceo, lo bocciarono in terzo, non perché non studiasse, anzi, aveva i voti più alti della classe, ma perché era mancato a metà delle lezioni senza motivo apparente.
Irruppe in camera come un tornado, aveva un asciugamano tra le mani con cui si tamponava i capelli completamente bagnati e un altro in vita, il petto era nudo e il costato era ricoperto di tatuaggi bianchi e neri, il primo che aveva fatto era una spada che trafiggeva un cuore umano, non li ha mai colorati, diceva che i colori avrebbero rovinato tutto. Mattia era così: senza sfumature, senza colore. O bianco o nero, così sulla pelle, così nella vita, tendeva all'estremo di tutto, non sapeva cosa significasse essere grigio. E quando mi si avvicinava, sentivo uno strano torpore alle dita delle mani. Mi sono sempre chiesta come fosse avere diciannove anni e essersi dimenticati delle sfumature o peggio ancora, non averle mai viste.
Chissà come lo vede il tramonto, uno come Mattia. Chissà come lo vede l'amore uno come lui, mai disposto a un compromesso, mai disposto a scendere a patti, sempre diffidente, sempre schivo. Sempre troppo occupato a nascondere le proprie debolezze.
«Che palle! Ancora? Non le ho io!» La voce della mia amica fu come una scossa dai miei pensieri.
«Quindi sono scomparse così nel nulla, Giò?» chiese lui mentre varcava l'uscio.
«Non ti azzardare a mettere piede in camera mia o chiamo mamma.»
«Che ragazzina! Perché? Hai paura che le trovi?» Aveva i capelli color nocciola, gli occhi dello stesso colore scuro e la pelle chiara di chi passa tre ore al giorno in piscina ad allenarsi, si portava dietro l'odore del cloro e dell'acqua di colonia, ormai riconoscevo quel profumo a chilometri di distanza, era inconfondibile. Almeno per me.
«Ancora? Non le ho io le tue cuffiette.» Si alzò in piedi e andò verso di lui, spingendolo fuori senza riuscirci. «Vattene, Mattia, prima che dica a mamma e papà che ti sei fatto un altro tatuaggio senza dirgli niente!»
A quel punto lui tirò sulla sedia l'asciugamano che stava usando per i capelli, prese in braccio di forza Giorgia e la buttò a peso morto sul letto, non mi guardò nemmeno un secondo, era come se fossi trasparente. «Non ti azzardare a minacciarmi, pidocchio, altrimenti ammazzo quello schifo di coniglio che hai in giardino, è chiaro? Che caga come se gli dessimo da mangiare lassativi, è entrato in casa e me l'ha fatta nelle scarpe.»
«Le avrà scambiate per la pattumiera, l'odore è quello alla fine» scherzò lei.
«Non sto scherzando, Giorgia, vedi di trovare una soluzione, altrimenti io così divento matto.» Si alzò dal letto e tornò austero, sapevamo entrambe che non parlava sul serio, che non avrebbe tolto un baffo a Roger, il loro coniglio. Giorgia l'aveva vinto a una fiera di paese, era riuscita a colpire più di dieci lattine con la pistola a piombini, e quindi l'avevano messa di fronte a una scatola di cartone con dentro tre coniglietti, lei aveva scelto quello bianco col musino nero, e gli aveva dato il nome di Roger.
«Allora vedi di addestrarlo anche tu e non mi addossare sempre tutte le responsabilità.»
«E smettila di fare la ragazzina stupida, il coniglio è il tuo, l'hai portato tu a casa.» Mentre parlava, l'asciugamano che aveva in vita si abbassò leggermente scoprendo le fossette di Venere che aveva appena sopra il sedere.
«E occhio a quando mi minacci, che lo sai che sono buono e caro, ma se mi fai incazzare è la fine» le disse andando verso la porta per uscire, prese l'asciugamano che aveva tirato sulla sedia e poi si girò verso Giorgia, puntandole due dita contro come fosse una pistola, e sparò prima di scomparire dietro la porta della camera.
Giorgia si gettò sulla porta di fretta, chiudendola a chiave. «Lo odio! Lo odio da morire. Mia madre non poteva partorirne uno più antipatico e stupido.»
«Anch'io sarei nervosa così se pensassi che qualcuno mi ha fregato le cuffiette» mi affrettai a rispondere.
«Ma che stai dicendo? Abbiamo sempre odiato mio fratello e ora stai giustificando quel cretino?»
«E' dura la vita senza musica alle orecchie, soprattutto quando sei sul Cotral. Lo devi ammettere.»
Sembrò pensarci su. «Sì, effettivamente... però davvero non le ho io.»
«Davvero davvero?» le chiesi col sopracciglio alzato.
«Non è che all'improvviso il fascino di quel cretino, ha contagiato anche te? Non sopporterei l'idea.»
Quelle parole anche se completamente insignificanti, mi toccarono l'orgoglio. Sapevo che voleva solo mettermi in guardia, ma non l'aveva fatto nel modo in cui avrei voluto.
«Stiamo parlando del niente. Tuo fratello non rientra nei miei canoni di 'ragazzo ideale'.» In realtà non mi ero mai stilata un elenco di tutte le caratteristiche che avrebbe dovuto avere un ragazzo per essere il mio 'ragazzo ideale', come invece aveva fatto lei, ma mi dovevo difendere in qualche modo, perché mi sentivo sotto attacco come quando giocavamo a battaglia navale.
«D'accordo. E allora perché gli guardavi il sedere?» disse lei maliziosamente che non aspettava altro che darmi le coordinate giuste per potermi affondare.
«Guardare il didietro di qualcuno, vale a dire che te lo vuoi sposare? Da quando?» Mi misi a ridere e lei mi seguì a ruota, con la sua risata che sapeva di fragole e limone, sempre fresca, sempre bella da vedere e contagiosa, che quando la vedi ne vuoi ancora e ancora, Giorgia era così, era speciale.
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