5 - Un cuore in meno
«Per favore, fammi andare a vedere cos'è successo.» Chiesi sospirando.
«No. Tu non devi andare.» Puntellai le dita sul suo petto per un po', poi accarezzai la mano con la quale mi stava stringendo il collo e ripetei la supplica. Sussurro sprecato, avvertii il tocco delle sue labbra sulla testa. Me la stava baciando, forse per farmi intendere che era per il mio bene se mi stava trattenendo. O forse era per il suo tornaconto, perché se me ne fossi andato, nessuno l'avrebbe curato come l'avevo abituato. Sospirai ancora. Forzai la stretta e me ne liberai. Con la smorfia che feci sottolineai quanto mi aveva fatto male, ma non gli serbai rancore, piuttosto lo guardai contrariato, dritto negli occhi azzurri e lui scosse la testa mimando un "no" disperato. Non l'avevo mai affrontato così sfacciatamente. In quel frangente però sapevo, o presumevo di essere nel giusto, e ciò mi diede il coraggio necessario per oppormi a un fratello maggiore.
Mi allontanai da lui rimproverandolo con lo sguardo e finalmente scostai la tenda che come un misero sipario aprì una scena altrettanto miserevole. Sulla porta distinsi le sagome di due carabinieri controluce. Sembravano ombre avvolte dal riverbero, lo stesso che, malevolo, illuminava Gregorio per terra soccorso da mamma, Cosetta e Nando. Sotto la finestra Palma sgranava il suo rosario di pietra. E papà? Se ne stava con gli occhi allucinati e il bicchiere di vino in mano. Che disgusto. Quando Nando mi vide si rialzò e mi corse in contro.
«No! No! Tornatene di là!» Ringhiò e mi afferrò con più forza del necessario, spintonandomi indietro. Con quel gesto non lo riconobbi più, era diverso da come si era proposto la notte precedente e quando mi opposi con tutte le forze mi colpì una spalla. Mi offesi.
«Fammi passare!» Se non potevo ricambiare la scortesia manesca, diversamente feci con lo sguardo. Mi riflessi nell'acciaio dei suoi occhi verdi con la stessa caratura, anche se era palese vincesse lui quel braccio di ferro. Perché voleva negarmi il diritto di assistere Gregorio? Rinunciando a capirlo, svincolai l'ennesimo tentativo di acchiapparmi e mi tuffai sulla soglia della porta dove giaceva nostro fratello. Mamma era l'unica a rimanere placida, dignitosamente addolorata. Di lei ne ero soggiogato. Anche i due carabinieri subirono il fascino nobile di mamma, si guardarono l'un l'altro muti e denudati della soggezione della loro stessa divisa. Il volto di mamma li aveva disarmati. Chinato mi feci spazio accanto a Cosetta, che mi guardava amareggiata. Misi la mano sul collo di Gregorio. Era più freddo di quanto avrebbe dovuto essere. Mi si bloccò il respiro quando accostai un dito sotto il naso ed esclamai che non respirava. Solo allora uno dei carabinieri riacquisì la consapevolezza della situazione e alzò la voce ordinando di allontanarci. Aiutato dal collega, distese il corpo di Gregorio con cura, poi con una rapidità che sorprese tutti, gli fu addosso. Avvicinò la bocca alla sua, e mentre con due dita tappava le narici, gonfiò le guance di aria e la insufflò nei polmoni di Gregorio. Ogni tanto gli comprimeva il torace con forza.
Eravamo interdetti perché non sapevamo che stavamo assistendo alla pratica della rianimazione artificiale. Quella scena però, mi ricordò un passo della Bibbia, dove nel libro dei Re il figlio di Eliseo, ritrovatosi nella stessa situazione di Gregorio, ricevette dal padre lo stesso trattamento salvandosi. Sperai succedesse lo stesso per mio fratello.
Ma l'unico a tornare a respirare fu solo quel carabiniere. Era provato, qualunque cosa avesse tentato ce l'aveva messa tutta. «Mi spia... Sono desolato. È morto.» Annunciò togliendosi il copricapo, subito imitato dal compare. Prima che se ne andasse lo guardai in faccia, volevo trovare in quei connotati un segno indicante che si era sbagliato, ma era limpido, anche se distaccato nei modi. Allungai una mano verso Gregorio ma la mamma la intercettò bruscamente e stizzita mi intimò di sparire. Rimasi impietrito. Il tocco della mamma era un evento raro, ma mai aveva arrecato dispiacere a nessuno di noi figli. Quella volta nei miei confronti fu un contatto velenoso. Nessun calcio, botta o sferza mi avrebbe fatto più male. Nando fece per aiutarmi ad allontanarmi ma lo anticipai. Rimasi a osservare quella donna contemplare il figlio morto, anche addolorata era aggraziata. Lei era figlia di nonna Rita, la Signora per bene, ed era intuibile dai suoi modi che nelle vene scorresse lo stesso sangue. Mentre subivo ancora il fascino di mamma, un rantolo di Gregorio sorprese tutti. Mi riavvicinai di scatto.
«Vado a chiamare il dottor De Noi!» Dissi e mamma annuì, segnalandomi con lo sguardo la contrizione per il precedente gesto infelice. Bastò quel semplice segno per farmi sentire sollevato, e talmente motivato a non deluderla che già mi ritrovai in mezzo alla strada avvallata a correre come un pazzo verso casa del dottore. Scansai persino nonna Rita che come aveva promesso stava venendo a farci visita. Promise sberle e bacchette per la maleducazione riservatele in mezzo alla strada ma non me ne curai. Un colpo in più non mi avrebbe rovinato l'esistenza.
Avevo il fiato corto, la saliva che mi usciva copiosa dalla bocca e il sudore che bruciava il collo reso livido dalla stretta di Sabino. Ciononostante pochi minuti dopo stavo bussando al portone vetrato della farmacia prim'ancora di riprendere fiato. Fiato che poi uscì concitato e flebile, ma che rimbombando nel cortile richiamò gli abitanti delle case vicine. Tutti affacciati alle finestre assisterono alla mia disperazione. Alla fine dovettero chiamarlo loro il dottore affinché il figlio di puttana comparisse in tutta la sua flemmatica lentezza. Aveva lo sguardo sospettoso. Aveva l'indole dell'avaro, lo conoscevamo tutti. Possedeva molti medicamenti ma li cedeva col contagocce timoroso che finissero. Solo con i famigliari e pazienti meglio agiati si obbligava a essere prodigo, perché pagavano le cifre che pretendeva, alla povera gente consigliava di curare qualsiasi cosa con la camomilla. Proprio quella erbaccia puzzolente mi consigliò per Sabino, nonostante fossi stato chiaro nell'esporgli la sciagura che si stava consumando. Imitando l'umiltà di mamma, insistetti perché venisse a visitare Sabino.
«Figlio di Pietro l'ubriacone!» Mi chiamò spazientito. «Non vengo in quella stalla per porci!» Impotente. Così mi sentii prima ancora di accusare l'offesa. Ero sul punto di supplicarlo quando alle spalle si palesò Damiano, uno dei commilitoni che aveva accompagnato Nando il giorno prima. Mi posò la mano sulla spalla per attirare lo sguardo e fu accontentato. Il suo indugiò sui piedi scalzi, confondibile col rosso dello sterrato del cortile poco illuminato dal sole, e tanto bastò perché mi riconoscesse. Io gli osservai con invidia le scarpe nuove e i vestiti impeccabili.
«Dottor De Noi, buongiorno! Allora, cosa succede, perché non aiuta il fratello di Nando?» Infuse nel titolo di fratello una solennità tale che mi riempì d'orgoglio. Avevo imparato a conoscere Damiano da poco, era un ragazzo grande, adulto quasi, ma mi piaceva. Aveva tanto carisma quanta ciccia addosso. Era fratello di Nunziatina, la ragazza che Nando avrebbe sposato se non fosse morta due anni addietro per tubercolosi; tale fatto Damiano lo rimarcò al dottor De Noi sottolineando l'incapacità che aveva dimostrato nel curare la sorella. In quel frangente appresi tutti i retroscena. Mi piacque il modo composto di Damiano col quale aveva prima rievocato la triste vicenda e poi minacciato l'avaro medico. Quello non si fece impietosire, tenne sott'occhio me e Damiano come se stesse subendo un torto. Allora cosa fece quell'amico di Nando? Chiamò a gran voce tutti coloro che stavano assistendo al teatro più penoso della storia, li invitò a unirsi alla mia richiesta e in un attimo fu il putiferio totale. Donne, uomini e ancora bambini a gridare e maledire l'unico dottore di Murice fino a convincerlo, seppur controvoglia. Mosso dalla rivolta popolare disse: «Andiamo.» E io sospirai sollevato.
«Prendi la borsa con le cianfrusaglie, stronzo!» Ringhiò Damiano, attento più di me a quel particolare fondamentale. L'omuncolo meschino entrò in farmacia come se stesse andando a nascondersi, biasimevole, maledetto bastardo. Nel frattempo Damiano mi chiese i particolari di quello che stava succedendo a casa, glielo raccontai lottando contro l'imbarazzo per non essere stato arguto quanto lui. Damiano mi ascoltò partecipe ma senza abbassare la guardia. «Riempi per bene la borsa e prendi lo sfigmomanometro!» Ordinò, avendo intuito il problema dal mio racconto farraginoso. Damiano le sapeva le cose, lui era andato a studiare a Taranto, era figlio di commercianti ecco il perché dell'abbondanza di cibo che finiva nella sua pancia.
Riluttante, il medico ci seguì a passo di corsa. Per incentivarlo Damiano si offrì di portare la dannata borsa. A me parve che quello stesse seguendo il bagaglio non noi. Poco mancava che Damiano glielo sventolasse come si fa ai muli con le carote.
Quando arrivammo alla grotta rialzata che seguiva casa di Filomena il cielo ruggì. Mi si aprì la bocca di riflesso. Non feci in tempo a individuare la fonte del rombo che mi ritrovai Damiano addosso. Mi spinse contro il muricciolo a secco che delimitava un terreno incolto, mentre un aereo sorvolò le nostre teste e mitragliò una serie di colpi. Vidi le pallottole disegnare due linee parallele curve sullo sterrato. Schegge di pietre scintillarono feroci. Il dottore, sguarnito di difese, rimase impietrito, illeso ma con i pregiati pantaloni di lino nero bagnati. Io avevo sulla testa l'enorme petto di Damiano, e il suo respiro in faccia.
«Non ti muovere.» Disse sereno, nonostante sentissi il battito del suo cuore far vibrare la mia spalla. «Tedeschi di merda!» Grugnì.
Attendemmo attimi infiniti ma non mi curai del pericolo, anzi, ne ero consapevole ma era troppo grave il pensiero di perdere Gregorio che scivolai dalla stretta di Damiano e feci strada fino casa. D'altronde erano rimaste poche decine di metri, percorsi i quali ero certo di trovare mio fratello ancora per terra, ancora rantolante e ancora in tempo per vivere. Senonché non lo trovai laddove avevo immaginato. Entrai come una furia ignorando il taglio al piede che una mattonella mal incassata nello sterrato davanti casa mi aveva procurato. Ignorai soprattutto ciò che mi disse papà: «Non ti hanno centrato in testa a te?» Chinai il mento, non per rispetto e lui lo capì e indietreggiò. Avrei voluto dirgli che non era la giornata giusta per le sue stronzate. Invece mi voltai e inquadrai sotto la finestra Cosetta e Palma che con gli occhi umidi mi indicarono la nicchia di Sabino. L'avevano deposto accanto a lui.
Dopo di me entrarono l'amico di Nando e il dottorucolo. Il primo palesò disinvoltura nello scoprire la nostra povertà, l'altro invece era schifato persino dall'odore di casa mia. Scortai entrambi al capezzale dove Sabino mamma e Nando mi stupirono con i loro sguardi speranzosi. C'era anche nonna Rita, ma quella aveva solo l'espressione severa della maestra che era stata un tempo. Poteva farsene una ragione pure lei del mio malanimo, quel giorno me ne infischiavo di chiunque.
Accettammo di buon grado di lasciar solo il dottore con Gregorio, fatta eccezione per Sabino, che dalla sua nicchia non poteva essere spostato; almeno c'era lui a controllare la situazione. Accettammo di attendere tutto il tempo necessario senza dare fretta all'unica persona utile in quel momento. Palma, nonna, mamma e Cosetta si strinsero in preghiera, mentre io subivo lo sguardo pieno di rimprovero di Nando. Lo sentivo talmente ostile da non poter sostenere lo sguardo. Poi sbuffò voltandosi verso la tenda oltre la quale c'era Gregorio e attese a braccia conserte. Lo imitai.
A scandire il tempo non c'era l'orologio, non ne possedevamo nemmeno uno, ma i nostri cuori e il tintinnio del bicchiere di papà, sempiternamente riempito e svuotato. Attendere è stato come lapidare la speranza e il responso negativo del dottore la sassata mortale. Scemò in me ogni pensiero di rivalsa contro quell'uomo di scienza. Avevo rimuginato di commettere le peggiori infamie contro di lui se non avesse salvato Gregorio. Il suo composto movimento del capo rivolto a mamma mi fece dimenticare tutto. Lo rivalutai persino, quando si offrì di controllare i monconi di Sabino e per quel gesto mi costrinsi a ringraziarlo. Poi, chissà, sarà stata la miseria in cui aveva scoperto che vivevamo a impietosirlo al punto da darci medicamenti e materiali idonei al bendaggio delle gambe residue di mio fratello. Ci svelò anche la procedura migliore per sterilizzare quanto più possibile la nicchia di Sabino e consigliò pure di fargli respirare aria fresca fuori casa ogni tanto. Un poco.
Il dottor De Noi mimò quel "poco" con il pollice e l'indice, e tanto durò il nostro apprezzamento nei suoi riguardi perché alla fine ci elencò le competenze che esigeva pagassimo. Altro che generoso. Scoppiò una discussione penosa che sfociò in minacce da parte del dottore. Non l'avesse mai fatto. Damiano e Nando lo buttarono fuori di casa in malo modo, poco mancava che lo malmenassero oltre a riempirlo d'insulti. Il verme rischiò d'inciampare più volte dandosela a gambe, per quanto i suoi anni glielo permisero; e delle sue minacce nessuno ricordò nulla già il minuto dopo.
Terminato il trambusto calò il silenzio. Pesante. Freddo. Le lacrime di Palma, di Cosetta, di nonna e quelle mute e nobili mamma ristabilirono dignità al momento solenne. Quando c'era un morto in casa si parlava lo stretto necessario, con bisbigli. Così silenziosamente, attingendo alle povere cose che avevamo, le donne composero la salma di Gregorio meglio che poterono. Nonna Rita però non era soddisfatta, mi ordinò altezzosa di andare a chiamare don D'Arcento per la benedizione e di passare da casa sua a prendere i drappi funebri che teneva sempre pronti per quelle situazioni, non rare in quel periodo.
«È appena passato un aereo, è pericoloso, meglio accontentarci di quello che abbiamo, nonna!» Protestò Nando.
«Ancora qua stai? Ubbidisci, VAI!» Strillò papà. Evitai di guardarlo in faccia, avevo paura di non trovare alcuna traccia di pietà in quegli occhi, soprattutto temevo d'avere ragione. Mi avvicinai al corpo di Gregorio. Distante, nel lato più scomodo, Sabino mi guardava implorante. Nonna Rita invece si ritrasse, forse dispiaciuta d'aver preteso che rischiassi una mitragliata pur di fare le cose come lei comandava.
«È l'ultima cosa che faccio per Gregorio. Ci vado.»
«Ti accompagno io!» Dissero insieme Nando e Damiano i quali, sorpresi, si guardarono l'un l'altro.
«Tanto devo tornare a casa.» Si giustificò l'amico di mio fratello e l'altro annuì. A quel punto volevo osservare l'espressione di papà, volevo vedere se avrebbe lasciato che Nando mi accompagnasse e purtroppo sì, sulla faccia annebbiata dall'alcol trasparve apprensione paterna. E per me, niente preoccupazione? Non ero pure io suo figlio? Stavo per domandarglielo, ma non era il momento giusto. Anche se la morte di Gregorio, per quello là, era un mero pretesto per bere ancora con più assiduità, sapevo che in fondo stava soffrendo. O almeno volevo augurarglielo.
Mossi a compassione, Nando e Damiano vollero sfiorarmi le spalle per darmi coraggio, ma li respinsi. Non volevo essere mai più toccato da nessuno e per sottolinearlo corsi fuori casa per primo.
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