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30 - Il toro, la mucca e i cazzotti

Avevo chiesto troppo alle mie forze, anche se le emozioni, tutte buone beninteso, avevano contribuito a farmi crollare. A svegliarmi ci pensò l'acceso vociare che mi si insinuò nelle orecchie. Aprii gli occhi. Mi sentivo bene. Non avevo nessun sintomo di disturbo. Anche se fosse il contrario, a sentire le voci oltre la porta me ne sarei distratto.

«Oh povero caro, e tu l'hai messo su quella petroliera puzzolente a viaggiare come fosse una bestia da soma?! Ti ho cresciuto meglio di così!»

«Mamma! Non c'erano alternative, e poi era una portaerei, non una petroliera!» La baruffa proseguì per un po', fintanto che Zac non suggerì di abbassare il tono.

Ruotai la testa. Ero steso sul letto più soffice e profumato che avessi mai occupato. Che differenza con il giaciglio e il pavimento del terrazzo con le stelle per soffitto! Intorno c'erano mobili di legno, una scrivania, sedie, un altro divanetto e scaffali pieni di libri e tante cose. Era una casa piena di cose. C'erano pure tre finestre e sul pavimento tappeti.

«Robér-tu?!» Curioso di dare un volto alla voce femminile che in vano aveva cercato di pronunciare il mio nome in italiano, individuai una testa bionda sbucata dalla porta di poco socchiusa. Aveva le sopracciglia inarcate e la bocca dipinta di rosso. Quando entrò notai le braccia scoperte. La camiciola bianca e plissettata era a maniche piuttosto corte. Avevo già visto le donne di New York andare in giro con la braccia al vento. Non avrei dovuto sorprendermi. Ma quella ragazza la camicia la portava annodata a un fianco. Le si vedeva l'ombelico! Senza contare poi che indossava dei pantaloncini molto al di sopra di metà coscia e stivaletti a punta. Imbarazzato smisi di osservarla. "Questa America sarebbe un paradiso per Don D'Arcento!" Mi scappò una risata che incoraggiò la ragazza ad avvicinarsi.

«Oh! Bravo! Sì! Così! Non mi piacciono i musoni a me, oh! Io mi chiamo Ginny, Gin per gli amici!» Mi tese la mano. Mi misi seduto sul letto e accettai la stretta, che mi sorprese in quanto a forza. «Piacere di conoscerti Robér-tu!» Era evidente la difficoltà da quelle parti la pronuncia di un nome così semplice.

«Il piacere è mio Ginny. Puoi chiamarmi Roberts.»

«Solo se mi chiami Gin!» Fece l'occhiolino ondeggiando la corta chioma riccia e dorata. «Andiamo, su, che facciamo un bel bagno così ci sentiremo meglio.»

«No!» Protestai. Che voleva quest'altra, fare il bagno insieme a me? Oh, qui son tutti matti, pensai mentre chiamavo, anzi imploravo Vuòlt. Quella Gin o era forzuta oppure ero debole io. Fatto sta che mi aveva già trascinato in fondo al corridoio quando apparve dall'altra parte Walter.

«State già giocando? Mi fa piacere!»

«No, non stiamo giocando. È che non riesco a convincerlo a entrare in bagno!»

«Ci credo, da come lo trascini, e poi lo stai imbarazzando a morte!» Rise mentre ci raggiungeva. Comunque non ero imbarazzato. Era vero che quella Gin mi aveva trascinato giù dal letto che ero nudo che nemmeno io me ne ero accorto. Evidentemente trascorrere mesi sulla portaerei assieme ad altri maschi con i quali avevo fatto la doccia insieme mi aveva tolto ogni barlume di pudore. Ma quando è troppo è troppo. Mi nascosi dietro Vuòlt appena lui riuscì a far allontanare la ragazza. Quella scoppiò in ritardo.

«Uh, che vergogna! Non me ne sono resa conto! Ero troppo presa dal fare buona impressione, scusa, scusa, scusa...» Disse infine svanendo di corsa dalle scale all'altro capo del corridoio.

«Ma che...»

«Non ci fare caso honey, mia sorella è un uomo mancato!»

«Ti ho sentito!»

«Lo so!» Rispose all'eco Vuòlt. Ero senza parole. Vuòlt mi invitò a entrare in bagno. Convinto di doverci andare solo, mi afferrò per una spalla. Mi voltai interdetto.

«Vedi questi ganci?» Mi indicò una coppia di chiodi a "elle" ficcati nella porta laccata verde acqua tutta piena di ninnoli decorativi appesi. «Quando il bagno è occupato da maschi bisogna appendere il "toro".» Estrasse da un mobiletto pieno di asciugamani un pupazzo di feltro vagamente somigliante all'animale indicato e lo appese ai chiodi. Così non si corre il rischio di scontrarsi.»

«E se...»

«Per le donne c'è questo.» Mi mostrò un altro pupazzo che pretendeva di sembrare una mucca.»

«No. Dicevo, e se invece si chiudesse a chiave? Non è meglio?»

«No. Per evitare di buttarla giù nel caso qualcuno si sentisse male, facciamo così. Oh, adesso basta, andiamo a fare il bagno!»

«Mica vorrai farlo insieme? Non sta bene! E potrebbero sentirci...» Con un bacio misto a risata sommessa mi tappò la bocca.

«Allora ci converrà essere silenziosi!» Bisbigliò malandrino mentre mi mostrava che razza di luogo era quel bagno. La vasca spiccava per singolarità. Era interrata. Per entrarci bisognava scendere tre gradini. Era tutto in ceramica color terracotta. Dentro ci si poteva stare in tre se non più. Tutto intorno mobili pieni di asciugamani, scaffali di sapone liquido e un putiferio di altre cose che ancora non avevo mai visto. Quella era una stanza a tutti gli effetti. Aveva la forma di semicerchio contornato dalla parte esterna di finestre enormi fornite di tende di stoffa. Si vedeva il mare verde di cipressi e le punte dei tetti delle altre case lontane.

«Qui ci si può lavare tutti insieme!» Avevo gli occhi fuori dalle orbite.

«Vero. Io a volte faccio il bagno o la doccia assieme a Oit. Gin con la mamma.»

«E tuo padre?» Non che la cosa mi interessava.

«Con chiunque capita, non mette mai il toro sulla porta, ma si capisce quando c'è lui dentro perché scoppia a cantare "oh Susanna!"» Rise mentre si liberava dei vestiti. «Entra in acqua prima che diventi troppo fredda.» Obbedii. «Ma fa attenzione potresti...» e scivolai. Che tonfo! L'acqua fuoriuscì dal perimetro formando graziose onde. Vuòlt mi soccorse preoccupato.

«Tutto okay, honey?» Tirai fuori la testa dall'acqua.

«Colpa mia. Non ho fatto attenzione.» Trascorsi tutto il tempo a tranquillizzarlo mentre lui, o per scrupolo o perché in fondo gli piaceva, continuava a insaponarmi e a stringermi a se. Per evitare di sentire le mie solite proteste impiegava bocca e lingua per tenermi impegnato a farmi pensare solo a quant'era meritato quel momento. Un premio per entrambi. E no. Nonostante la frenesia che a discapito della nostra spossatezza fece capolino sotto gli ombelichi, non andammo oltre un certo punto. Era già avvincente per me inoltrarmi tra le colline dei suoi pettorali. Assaggiare con lingua i suoi capezzoli. Scendere giù fino in fondo mentre lui steso di schiena nella vasca mi faceva uno di quei shampoo. Fu allora che mi staccò da lui con delicatezza. Mi stese sul suo lungo busto e mi sorrise.

«Non meriti un veloce attimo di felicità. Proseguiremo dopo.» Fece l'occhiolino e io crollai sul suo petto. Sarà stato l'orgoglio maschile, non ammise d'esser stanco anche lui, più di me.

«È un posto bellissimo Lafayette.» Dirottai l'attenzione su altro.

«Davvero? Ti piace?» Annuii. Era sinceramente contento. «Pensavo invece che non, oh! Ero preoccupato! Vedrai! Non hai visto ancora niente.» Mi piaceva quando ingarbugliava i pensieri per la foga di dirmi più cose insieme.

«Mi spieghi perché c'è bisogno di attingere acqua quando in casa avrò visto almeno tre rubinetti funzionanti?» Gli domandai mentre ci asciugavamo avvicenda.

«Certo. Me l'hanno raccontato. Pare che da giorni c'erano dei lavori sulla rete idrica, perciò avevano interrotto l'erogazione. E mamma non si era accorta che stamattina l'avevano riallacciata.» Valutò meglio la domanda, e poi mi diede il resto della risposta. «Non penserai mica che ti abbia trascinato a casa mia per attingere ancora acqua in strada.» Siccome era stata la mia prima impressione, emisi un «No!» privo di convinzione. Sorvolò. Era troppo preso dalla ricerca di qualcosa da indossare. Alla fine, e dopo tre richiami di Gin che avvertiva che il pranzo era pronto, facemmo la nostra entrata sotto il portico. La famiglia di Walter amava pranzare fuori d'estate. La cosa mi piacque. Mi piacque anche conoscere finalmente Oit, il fratello di Vuòlt e Gin. O almeno di vista. Notai la somiglianza con la madre. Era robusto, non eccessivamente comunque. Aveva lo sguardo basso. Non era incline a socializzare con me. Al contrario gli altri erano piuttosto attratti e smaniosi d'interrogarmi. Sapevo già di dover essere al centro dell'attenzione rappresentando una novità. Solo che si protrasse per settimane e poi la curiosità dilagò in tutto il vicinato.

Ciò che mi sorprese era la confusione. Zac seduto a capotavola diceva cose a Oit. Ecco perché se ne stava mogio. La moglie invece dialogava con chiunque mentre distribuiva enormi piatti colmi di qualunque cosa avesse cucinato. Gin rispondeva in sequenza a tutti: con Walter, col padre, con la cara donnona e quando mi vide strabuzzò gli occhi.

«Vuòlt, ma cosa gli hai fatto indossare?» Portavo una camicia a scacchi rossi esattamente come il copri tavolo esposto quel giorno. Praticamente indossavo la "figlia" della tovaglia. Era della stessa stoffa. Risero tutti, ma non mi imbarazzò la situazione. «Con tutto quello che c'è negli armadi!» Protestava ridendo Gin. «Quei pantaloni verdi poi, come hai fatto a trovarli? Hanno fatto la guerra di secessione! Erano del generale Lee! Non dirmi che avete lasciato i bagagli in stazione! Va bene, poi passo io a recuperarli!» Si rivolse a Walter che insieme a me scosse la testa.

«Quando ho lasciato casa non avevo nulla addosso. Perciò vi ringrazio per questi abiti. Per me sono nuovi come appena cuciti.» Usai il loro stesso tono gioviale, anche se con poche parole avevo messo in chiaro che stavano ospitando uno straccione.

«Come ti trovi qui, ragazzo?» Squillò Zac riportando alto il morale che avevo smorzato.

«Roberts, papà.» Suggerì Vuòlt mentre si sedeva alla sua destra e difronte a Gin, la quale con un gesto mi fece cenno di occupare il posto accanto a lei.

«Su! Vieni! Veloce!» Quanta grazia mancata in quella ragazza, pensai.

«Sin da subito mi sono sentito a casa, pensate che anche lì attingevo l'acqua per strada.» Sorrisi a ciò che era destinato a diventare un ricordo tra mille altri. Alla mamma dei ragazzi tremò per un attimo l'ennesimo piatto che stava riempiendo.

«Oh, che vergogna! Oh, poverino! Appena l'ho visto gli ho ordinato di portarmi quei dannati secchi oh! Che figura!» Volevo tranquillizzarla ma era impossibile introdursi mentre si prostrava quasi. «L'avevo ordinato a Oit.» Finse una mestolata in testa al figlio.

«E io che l'ho trascinato per il corridoio che era tutto nudo e manco me ne sono accorta!» Scoppiò a ridere Gin, e io divenni come la tovaglia e la camicia, ma rosso a tinta unita.

«Perché, io, che l'ho messo tre mesi nella portaerei?» Aggiunse Vuòlt facendomi l'occhiolino. Poi Zac catturò l'attenzione facendo tintinnare un coltello al suo bicchiere.

«Bene! Come primo giorno abbiamo fatto tutti quanti una gran figura di merda!» Risero tutti. Io ero allibito. Un padre di famiglia che si esprime come un militare in servizio? «Ricominciamo da capo va!» Aggiunse ufficializzando le presentazioni dei suoi cari, ma senza mancare di metterli in imbarazzo. Lottai con tutte le forze residue pur di non ridere, macché. Fu una guerra persa. Persino Claribel, la moglie di Zac, aveva le lacrime agli occhi. Solo Oit, seduto difronte a me, riusciva a mascherare il sorriso, ma si vedeva che era divertito pure lui. Quel ragazzo mi incuriosiva. Ma ero più curioso di capire cosa ci fosse nei piatti offertimi da Claribel. Nel frattempo mangiavo seguendo i gesti degli altri.

«Ti piace la cucina creola?» Gin aveva captato la mia muta curiosità. Vuòlt venne in mio soccorso.

«Sono tutti piatti di origine europea importati dai primi coloni. Solo che li avevano adattatati con gli ingredienti che avevano trovato qui.»

«Mi piace un sacco. È delizioso, tutto.» Altroché se era buono quel cibo. Ma me lo meritavo? Chissà come se la stavano cavando mamma, Cosetta, Palma, Sabino pensai. E Nando? Non dimenticarli divenne lo scotto da pagare per aver voluto cambiare vita. D'altronde tutto si paga nella vita. Sarei stato per sempre bene, a volte felice, ma mai completamente sereno. Ed è stato giusto così. Non sarebbe stato giusto però sporcare la serenità di quella famiglia che si stava facendo in quattro per farmi sentire parte di loro. Perciò imparai presto a nascondere la mia unica angoscia, il mio nuovo demone.

«Ti sarai annoiato su quella nave.» Suppose Gin.

«Tutt'altro. Roberts si è preso cura dei feriti nel reparto pronto soccorso.» Rivelò Vuòlt e di nuovo andai a fuoco per l'imbarazzo.

«Come fai a parlare la nostra lingua se da come ci hai fatto capire non hai studiato?» La domanda sorprese tutti. Soprattutto io ero sorpreso, perché l'aveva posta Oit. Mi fece sentire la sua voce finalmente. Era timido. La sua era però una domanda intelligente. Gin, Zac e Claribel, mi puntarono lo sguardo per sottolineare l'ennesima curiosità.

«Riesco a ricordare tutto. Parole, suoni, cose, luoghi. Tutto. Anche le parole, indipendentemente dalla lingua. Ma per capire la lingua straniera ho comunque bisogno di qualcuno che me la "converta" nella mia come ha fatto Vuòlt

«Ma dai!» Gin era incredula, come Oit che fece una smorfia buttando la testa quasi nel piatto.

«Questa è magia!» Commentò Claribel. Vuòlt invece si divertiva a vedere come me ne sarei uscito da quella situazione. Ebbi un lampo di genio. Descrissi ciò che era alle mie spalle senza voltarmi. Ogni cosa. Vasi, forma del terreno. Gli alberi attorno, colori delle rose, alternanze dello steccato col muricciolo in pietra e calce. Le case vicine e l'orizzonte.

«Sapete? Sulla portaerei ho curato un soldato che per compenso mi aveva insegnato a leggere un libro. Io la vostra lingua non la sapevo solo parlare.» Se Vuòlt non era sorpreso conoscendo già questa parte di me, quella novità lo scosse. Riportai parola per parola le prime pagine del romanzo "Per chi suona la campana" fin quando Zac mi fermò con garbo. Inquadrò il figlio Walter per un attimo. Scambiò con lui forse un cenno muto.

«Fuck!» Esclamò Oit e la madre gli diede uno scappellotto tonante.

«Non azzardarti mai più! Stiamo mangiando, per Dio!»

«Ma mamma!» Protestò. «Tanto non sa nemmeno cosa significa!» Ruotai la testa in direzione di Zac ma senza incrociare lo sguardo. Vuòlt e Gin risero perché immaginavano che invece sapevo i tanti significati della parola con la "effe". Per questo avevo la sensazione che Claribel volesse bacchettare anche me.

«Quella che hai tu si chiama memoria eidetica.» Spiegò Zac.

«Tu, ragazzo, cioè Rober-to, hai un compito da eseguire. Devi frequentare la scuola di Lafayette!» Me lo sbatté in faccia come fosse un ordine. Quell'uomo mi offrì la base per una istruzione legalmente riconosciuta. Sin dal giorno seguente mosse mari e monti affinché fossi accettato. Spiegò che c'era un test di verifica per valutare la classe idonea indipendentemente dall'età. Se l'avessi superato, mi disse, avrei superato anche il livello raggiunto da suo figlio Oit. La valutazione del mio futuro accese gli animi dei più grandi che presero a discutere di come la faccenda potesse essere risolta. Solo Oit e io rimanemmo in disparte. Due appendici del discorso in pratica. Ci guardammo per un attimo. Lui a un tratto prese a colpirsi il palmo con un pugno e con un gesto del capo mi invitò a seguirlo. Quel gesto lo interpretai come un invito a fare a pugni. Forse l'avevo indisposto. Non gli ero simpatico. Non amava gente estranea per casa supposi. E sia. Forse fare a cazzotti è un'usanza locale, Immaginai.

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