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29 - L'acqua di Lafayette

Quando arrivammo al Gran Central Terminal di New York c'era solo un aggettivo che mi veniva per descriverlo, oltre che immenso: caotico. Walter mi assicurò che era sempre così quel posto, con o senza guerra di mezzo. Mi raccomandò di stargli vicino perché era facile perdersi di vista con tutte quelle migliaia di persone formicolanti. Che confusione. La mia sicurezza svanì. Avevo paura. Oddio, se fossi stato solo chissà che fine avrei fatto. Impiegammo un'eternità a raggiungere il nostro treno, e un'altra mezza per individuare i posti. Tant'è che il convoglio era già in movimento quando ci sedemmo.

Sospirammo insieme.

«Sei stanco?»

«Ho trascorso giornate più movimentate.» Mentii. Ero stravolto. Lui era dispiaciuto. Cercai di pilotare l'attenzione altrove. «Quanto tempo ci vuole per arrivare a Lafayette?»

«In tempi sereni un giorno e mezzo quasi due. Ma credo che con tutta questa confusione, ahimè, ci vorranno due giorni e mezzo, forse tre. Mi spiace.» Alleggerii la sua angoscia sorridendogli.

«Io vicino a te sto bene ovunque, Vuòlt.» Ebbe l'impulso di baciarmi, ma si trattenne all'udire scorrere la porticina del nostro scompartimento. Entrarono due coppie. Gli uomini erano in divisa come noi, perciò salutarono all'istante Walter notando il mostrino di maggiore. Lui li tranquillizzò. Erano interdetti se rimanere o meno. Poi decisero di restare. Le due ragazze sembravano dei dipinti. Labbra rosse, palpebre azzurrognole, gote mezze imbiancate e metà imporporate. Erano imbellettate ma non appariscenti. Mi sorrisero. Sciolti gli imbarazzi, alla fine facemmo amicizia. A togliermi dall'impaccio sulle domande specifiche del servizio militare, che non avevo prestato, ci pensò Walter tutte le volte. Alla fine però, la stanchezza ebbe la meglio su tutti e ci addormentammo. Nella maniera più scomoda possibile ovviamente. Le coppie strette tra loro, mentre io posai la testa sulla spalla sinistra di Vuòlt. Chiusi gli occhi al suono del suo cuore. Lui infine, in barba alle buone maniere, mi abbracciò e usò il mio capo come appoggio per il suo.

Il mattino dopo scoprimmo essere rimasti soli. Eravamo ancora abbracciati quando ci svegliammo, con le ginocchia anchilosante. A dirla tutta non c'era nemmeno una parte dei nostri corpi che non ci doleva. Ci lamentammo.

«Sembriamo due vecchi catorci!» Lui rise di gusto. Aveva avuto ragione per il viaggio. Durò tre giorni, che però non andarono persi. Potrei riportare la magnificenza degli scenari scorti dal finestrino, i bei luoghi della Pennsylvania, del west Virginia, Kentucky e Tennessee, dove cambiammo treno per attraversare il Mississippi e poi finalmente arrivare alla famosa Louisiana. No. Walter mi raccontò il motivo che l'aveva spinto ad arruolarsi. Sì, era stato l'istinto di dare un senso alla sua vita, da lui giudicata monotona. Era destinato a proseguire il mestiere del padre, insegnare lingue all'università. Ma prima di sedersi su una cattedra, voleva dare un'impronta importante alla sua vita. Qualcosa che valesse la pena ricordare per sempre. Più che altro era il senso di vuoto che lo stava opprimendo a casa a fargli intraprendere la carriera militare. E fu talmente bravo che prese il brevetto di pilota di nascosto dai genitori. Sicché mettendoli difronte al fatto compiuto non gli negarono il benestare per partire per la guerra. E sapete una cosa? Io, in tutti i suoi progetti, non c'ero. Non aveva mai creduto di trovare un motivo più importante tra tutti quelli che aveva pensato validi. Ne ero lusingato. Forse è dire poco. Ma il punto era che lui aveva un futuro, io no. Accogliendomi nella sua vita, me ne stava offrendo uno anche a me. Uno che altrimenti non avrei mai sognato.

«Finalmente, ci siamo. Questa è Lafayette!» Esordì appena usciti dalla stazione dove ad attendere c'era l'ennesimo autobus.

«Ma se siamo arrivati, perché dobbiamo prendere un altro di quei carrozzoni?» Protestai. «Questo non è più un viaggio, ma un'odissea che avrebbe scoraggiato Ulisse, Alessandro Magno, Marco Polo e tutti i viaggiatori più famosi del mondo!» Rise incastrando il mio collo nell'incavo del suo braccio.

«Non ti dimenticare di Cristoforo Colombo, per noi è importante! Comunque manca ancora poco my Little Prince, te lo prometto.»

«Ah! My Little Prince un corno! Toglimi le mani di dosso, me ne ritorno a casa!» Lo provocai, ma non se la bevve. Piuttosto rise più sonoramente. Risata che terminò presto. Infatti, a partire dall'autista dell'autobus, a vari altri viaggiatori già accomodati, tutti salutarono Walter con molto calore. Avrei dovuto immaginarlo. Era a casa sua. Lo conoscevano. Era ben voluto da tutti. Mi chiesi come mai seminava terrore nelle truppe dell'esercito al suo comando. Era così affabile e solare. Non capivo. Alla fine manco mi importò più saperlo.

L'autobus imboccò subito la Evangeline thruway. Dopo poco voltò sulla sinistra e Walter mi indicò la cattedrale di Saint John evangelista. Era stretta con un campanile altissimo. Spiccava su tutto, era anche pittoresco. Era l'unico elemento che mi colpì. Dopo aver visto la gigantessa New York, ci sono state poche altre città ad avermi colpito con la stessa misura. Lafayette era una deliziosa e amena città. Tranquilla. Laboriosa. Era tuttavia molto grande. Mi rincuorò dare ragione a Walter, infatti l'autobus giunse presto alla fermata. In mezzo a una sconfinata coltivazione di alte piante che lui chiamava granturco. Dall'altro lato c'era un bosco d'imponenti cipressi dai rami arzigogolati, querce e platani oltre i quali si scorgevano delle case con il tetto a punta.

Stavo per dire qualcosa appena l'autobus svanì dalla nostra visita, ma Walter mi assalì.

«My Little Prince! Non ce la faccio più!» Mi strinse e mi sbatté la lingua in gola. Wow! Chi lo fermava più. Riuscii a farfugliare qualcosa tipo "non è saggio in strada", macché. Mi girava la testa. Stetti per svenire sul serio quando un boato sorprese entrambi. Ci voltammo e in mezzo alla strada, sterrata pure quella, frenò di colpo un'auto, un pick-up che era come me, distrutto. Il cofano anteriore si spalancò sotto la pressione del fumo più denso che avessi mai visto. L'aria che fino a un attimo prima odorava di natura, divenne pestilenziale come lo zolfo dell'inferno. Un uomo tirò fuori la testa dal finestrino. Tossiva come un matto.

«Menomale che ti ho trovato subito, vieni a vedere cos'ha!» Era rivolto a Vuòlt che a malincuore dovette staccarsi da me. Ci aveva visto baciarci? Quel dubbio mi raggelò.

«Ben ritrovato anche a te, papà!» Gridò Vuòlt e io mi sentii morire. Mi si bloccò quasi il respiro. «Vieni, che te lo presento!» Scossi la testa e lui mi trascinò a forza prendendomi per il braccio. Quell'uomo mi guardò senza abbandonare l'aria scanzonata con la quale ci aveva sorpreso. Cercava di non tossire per il fumo che lo stava investendo.

«Ah, già, la tua guerra. Sono contento di vederti, figliolo!» Non avevo dubbi. Stava prendendo in giro il figlio. Spalancai la bocca. Trovandomi poi costretto da quella bizzarra circostanza, allungai la mano.

«Papà, lui è Roberts, viene a vivere da noi per sempre.» Lo sottolineò piuttosto che chiedere come mi aspettavo avrebbe fatto. «Roberts, lui è mio padre, Zachary.» Suo padre seguitava a fissarmi nonostante continuasse a baruffare col figlio. Notai che era attratto dalla cicatrice sotto l'occhio. Era ancora seduto in quella dannata auto mezza divorata dalla ruggine. E da seduto accettò la mia mano.

«Piacere di conoscerla mister Wilson.» Strano. La voce non mi tremò, rimase salda.

«No! Niente signore, niente voi o lei. Chiamami Zac, figliolo! Okay?» Aveva gli occhi grigi come Vuòlt, ma più sorridenti. E sulle guance reticoli fitti di rughe d'età.

«Okay, Zac.»

«God! Ora, usa le tue mani per tirare questo ferro vecchio!» Voleva che gli aprissi lo sportello dell'auto. Era incastrato.

«Ma quando ti decidi a buttarlo via questo rottame?» Protestò Vuòlt. Purtroppo aveva ragione. Una volta aperta la portiera mi resi conto di aver in mano la levetta della vettura. La porsi a Zac scusandomi. Quello rise. Mi indicò di buttarlo nel portabagagli scoperto.

Vuòlt mi invitò a proseguire a piedi. Mi indicò la sua casa. Riuscivo a scorgere il tetto a punta alla fine del campo di mais, sulla destra. Più che timorato e intimorito, mi avviai a minuscoli passi. Di tanto in tanto mi voltavo attirato da padre e figlio che se ne dicevano di tutti i colori.

«Non è un rottame la mia auto! Pensa che stavo venendo a New York per prenderti!»

«E ti decidi proprio oggi a partire? Non è arrivato il telegramma a casa? L'hai almeno letto?»

«Sì, è arrivato una settimana fa, l'ho letto stamattina mentre facevo colazione. E poi mi stai vedendo che sono appena partito per raccattarti!»

«E tu oggi ti decidi? Ma lo sai quanto tempo ci vuole per attraversare cinque stati?»

«Ho fatto il pieno, sarei arrivato in tempo!»

«In tempo per cosa? E poi hai riempito il serbatoio con la nafta! - era esasperato - Ecco perché tutta questa puzza! Ma di un po', hai voglia di saltare in aria per caso?»

«È per risparmiare! Lo sai quanto costa la benzina?»

«Non è mica un trattore, pà!»

Non capivo se stavano litigando sul serio, ma era palese l'armonia che c'era tra loro. Un botta e risposta che da dove venivo io, lo sapete oramai, sarebbe impensabile. Sospirai rasserenato. Ero stremato, ma andava bene anche così. Mi godetti il verde pallido della distesa di granturco, il rosso dello sterrato, le ombre degli alberi filigranate dal sole e, quando non sentii più padre e figlio discutere, un nuovo borbottio attirò la mia attenzione. Proveniva da una rientranza sulla stradicciola. Era ben curata con siepi odorose e fiori di girasole tutti intorno. C'erano pure le farfalle. In mezzo al quadrato piastrellato alla buona, una donna alta e in carne cercava di attingere sola l'acqua da una fontana a pompa.

"Non ci credo. Anche in America l'acqua si prende per strada?! Come faranno quelli che abitano nei grattacieli?"

«Hei! Soldato! Sii gentile, aiuta una povera donna in difficoltà!» Mi disse appena mi vide. Non mi tirai indietro. Certo era che mi veniva da ridere sul serio. Qualche sbuffo sfuggì al mio controllo. Quella donna odorava di cibo. Probabilmente se l'era portato appresso da casa. Vestiva un ampio abito bianco ricco di minuscoli fiorellini stampigliati. Sembrava un tendone. Un grembiule pieno di tasche e i capelli arrotolati in strani cilindri. Era la donna più larga che avessi mai visto. E anche la più loquace. Molte cose, naturalmente, non le afferrai. Tuttavia era simpatica.

«Lasci che l'accompagno, tanto siamo sulla stessa strada.»

«Oh, ma che cavaliere! Sono lusingata. Vieni, vieni che ti offro qualcosa per il disturbo, andiamo!»

È incredibile. La prima cosa che feci a Lafayette è stata trascinare due secchi d'acqua. Dentro me ridevo come un matto. Almeno fino a quando vidi la casa dentro la quale quella donna mi stava invitando a entrare. Era la stessa indicatami da Vuòlt. Quindi quella donna era sua madre. La guardai con occhi diversi. Poi osservai la dimora. Era di legno come tante altre viste in precedenza dacché avevo lasciato New York. Quella però era dipinta di grigio azzurro. Era imponente. C'erano tante finestre. Un porticato ricco di mobili e sedie di vimini e altro materiale. Tavolini, e tante cose tutte messe in ordine. Attorno a me c'era un cortile curatissimo. Era un po' in dislivello ma non tanto da perdere l'equilibrio. Da lì si potevano vedere le altre case del vicinato, ognuna con il suo campo coltivato. Ma la casa di Vuòlt! Ovunque c'erano vasi di rose di ogni colore. Più in là pure un pollaio. Non me ne ero reso conto. Né avevo mai avuto la sfacciataggine di chiederglielo, ma Vuòlt era ricco. O almeno lo era ai miei occhi e col metro della miseria dalla quale provenivo.

La cara donna mi fece strada lungo la corta gradinata di legno che conduceva a un'entrata laterale della casa. «Vieni!» Diceva. «Non avere paura!» Seguitò a ripetere. Appena mise piede sul primo gradino alle nostre spalle vedemmo di sfuggita un'ombra superarci veloce.

«Grazie per l'aiuto, Oit! Ho dovuto arruolare un eroe di guerra per fare ciò che ti avevo chiesto!» Si rivolse a quella persona che francamente non avevo messo a fuoco. Chissà chi era, mi domandai. «Scoundrel!» Da come chiamò quell'ombra non avevo più dubbi. Era senza più dubbi la mamma di Walter. Scuoteva la testa facendo ondeggiare le ciocche bionde arrotolate. La seguii fino al pianerottolo all'aperto, riparato da un porticato che sembrava un parapioggia. Anche lì vasetti di piante odorose e fiorellini su file di scaffali lignei abbelliva la visuale. Poco più sotto c'era il posto dove mi chiese di posare i secchi.

«Grazie ragazzo. Ora, entra, su!» Aveva ragione a richiamarmi. Ero totalmente imbambolato. C'erano tante cose che mi illuminavano gli occhi. «Su, non fare complimenti, su!» La seguii. Sapevo che anche dentro quella cucina avrei trovato di che stupirmi. Infatti, appena varcata le soglia preceduta da una porticciola antizanzare, una enorme testona mi sorprese. Era il cane più gigantesco che avessi mai visto. Non avevo mai visto tanto pelo attaccato a un solo animale. Non gli si vedevano nemmeno gli occhi, solo il nasone nero schiacciato contro me, in rumoroso e frenetico odoramento. Era agitato. Così pareva. Poi si chinò sulle zampe e innalzò il posteriore facendo sventolare la coda come una bandiera. Voleva giocare.

«Ehi! Bruce! Va' via! Ma chi ti ha fatto entrar... mmm, OIT! Quando torni...» Il cane ubbidì. Si soffermò solo un po' sul pianerottolo rivolgendomi uno sguardo languido. Poi cacciò fuori la lingua e scese la gradinata.

«Ah, che confusione, non ci fare caso, qui è sempre così. Ma prego... mister Sells Knox, accomodati sul divanetto, intanto ti preparo qualcosa da mangiare. Penso sarai affamato. E poi chissà che robaccia siete stati costretti a ingurgitare voi militari. Te la preparo io qualcosa di buono.»

Il divanetto era poco distante dall'entrata. Era pieno di cuscini a righe marroni e giallo canarino. La cucina era grande e soprattutto piena di cose. Alcune misteriose, come ad esempio il mobiletto di metallo che la donna aprì facendo uscire strani vapori nebulosi. Era un frigorifero. Oltre il tavolo di legno chiaro, stra bordante di cibo e suppellettili, una cucina a gas. Pentole fumanti facevano tintinnare i coperchi e l'aria era profumata di cucinato. Difronte a me c'era una dispensa non meno rifornita.

Mi sedetti timoroso di addormentarmi per la stanchezza. Infatti lottai contro il peso delle palpebre. Per fortuna la mamma di Walter non era un tipo silenzioso. Fu anche veloce a offrirmi latte caldo, uova strapazzate, pancetta croccante, una porzione esagerata di torta alla frolla ripiena di crema e marmellata e altre cose. Mise tutto su di un tavolino appartato affacciato a una delle finestre che davano sul cortile. La luce del sole faceva splendere tutto quel ben di Dio. Ed era tutto per me.

«Vieni qui mister Sells Knox, su, che ho ancora tanto da fare.» Ubbidii impacciato. A malincuore abbandonai il comodo divano e mi sedetti laddove mi aveva indicato. La ringraziai dicendole che era troppa roba. Ma quella non fece caso.

«Oh, non fare complimenti mister...»

«Roberts, la prego miss, mi chiami Roberts.» Le sorrisi. Ero parso forse aggressivo, ma il punto era che parlava sempre lei senza darmi l'opportunità nemmeno di presentarmi. All'udire il mio nome stranamente fece silenzio. Si allontanò senza togliermi gli occhi di dosso. Poi si mise a scartabellare tra le carte di un cassetto del mobile dei piatti.

«Mangia, su, prima che si raffreddi, su...» Ripeteva retorica come se fossi un bambino. Intanto leggeva qualcosa estratta da una busta da lettera. Io la accontentai di gusto, in tutti i sensi. Quella roba era davvero squisita. Nel mentre buttai lo sguardo oltre la finestra attratto dal cane gigante che correva abbaiando all'auto di Zac spinta a braccia da Walter. Lui vedendolo tirò su la schiena e rispose divertito alle feste di Bruce. Sorrisi. Era divertente vedere Ulisse giocare con il suo Argo.

«Signora...» Volevo avvertirla che suo figlio era appena fuori casa, ma lei mi caricò come un toro. Mi Alzai in piedi, tanto avevo già spazzolato tutto.

«Oh, ma tu sei Apache! Come ho fatto a non notare la brutta cicatrice sotto l'occhio?» - Grazie signora! - Avevo timore. Avevo gli occhi di fuori. Come faceva a conoscere il mio nomignolo? La madre di Vuòlt mi stritolò in un abbraccio. Per poco non rimettevo la grazia di Dio che mi aveva offerto.

«Oh! Avete già fatto amicizia! Sono contento!» Si palesò così Walter appoggiato obliquo sulla porta con un braccio alla cornice e con una gamba incrociata. Tutto sorridente e divertito dalla scena. «Mamma a me niente abbracci?»

Com'è giusto che fosse, la donna mi lasciò perdere e trascinò le sue braccia cicciotte verso il figlio adorato urlando di gioia.

Quanto a me, oh, mi cedettero le ginocchia e caddi sul pavimento addormentato. Ero proprio sfinito.

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