28 - Baci insolenti e abbracci disperati
L'aria tesa dovuta alla visita degli alti ufficiali svanì insieme a loro, andati via appena terminato un lungo discorso corale del quale avevo afferrato ben poco. Non avevo visto allontanarsi Walter, perché nel frattempo stavo allettando David. Non era messo troppo male, per fortuna. Aveva una lesione alla gamba, la stessa che gli avevo curato la prima volta. Si era riaperta in un punto. A mio parere gli serviva un tutore rigido e il maresciallo medico mi diede ragione quando terminò di visitarlo. Mi puntò gli occhi semicoperti dalle sopracciglia cascanti. «Bravo ragazzo, chiunque tu sia.» Divenni rosso e piccolo come una noce. Lo sapevo, si era accorto già dal primo momento che non appartenevo alla sua squadra. Forse nemmeno a tutto il battaglione. Tuttavia non mosse alcun provvedimento. Gliene fui grato silenziosamente. Mi concentrai su David.
David era conosciuto da tutti, di fatto nessun altro degente risparmiò cameratismo. Io attesi che finisse il rimpatrio generale per chiedergli del messaggio in codice di Walter. Mi accontentò ma non come avevo immaginato.
««Hei, ragazzi!» Chiamò tutti all'attenzione. «Avete conosciuto mio cugino...» Scossi la testa perché nessuno conosceva il mio nome, solo il cognome; che poi era il suo preso in prestito. Afferrò al volo la situazione. «Viene da...» Lafayette, mimai con la bocca. «Fuck... Mmm, dalla campagna della Louisiana.» Anche lui aveva avuto la stessa reazione degli altri nell'apprendere che, falsamente, vivevo vicino al maggiore Walter Jameson Wilson. «E allora? Come vi sembra? Non è in gam...» Non terminò di esprimersi che fummo investiti da una valanga di espressioni di riconoscimento. Avvampai di nuovo come un peperone piccante. Menomale che avrei dovuto passare inosservato.
Quale fu l'effetto di tutte le cose che David si era inventato sul mio conto? Che nell'arco di mezza giornata nessuno più fece caso a me se non per questioni di servizio. Non mi sentivo più sotto osservazione. Un mistero quando è svelato perde un po' di significato, di fascino.
Quello era però solo una parte del messaggio di Walter. Il resto illustrava la maniera per farmi sbarcare senza essere notato. Non avrei potuto presenziare alla parata della quale avevo sentito parlare gli alti ufficiali perché prima c'era da passare per il filtro dei riconoscimenti e io non ero registrato. Ero un clandestino. Tuttavia c'erano ancora dieci giorni d'attesa prima che potessi dare ragione ad Ali. Lui mi aveva detto che avrei riconosciuto Lady Liberty. Così fu. Quel decimo e ultimo giorno di navigazione tutta la ciurma era in fermento. L'eccitazione era un tripudio di gioia. Negli occhi di tutti erano riflessi i contorni rassicuranti delle proprie case e dei famigliari. Gli alti ufficiali li lasciarono scatenare. Quanto a me, quando la portaerei Intrepid giunse alla Liberty Island, l'imponente statua che la campeggiava mi riempì di meraviglia. Era immensa. Solenne. La statua più grande che avessi mai visto. Era incredibile. Era la statua della libertà. Vederla da una delle finestre più basse dello scafo acuiva il senso di piccolezza. Ali, Bartolomew e David si divertono delle mie espressioni.
«Quella è Liberty!» Ali non si lasciò sfuggire l'occasione per ricordarmi che l'avrei riconosciuta. Ero senza fiato e parole. Tuttavia non restammo lì impalati. Fummo già fortunati a non essere notati dagli altri. Ci dirigemmo più in basso nella stiva. Lì ci mescolammo con i soldati che stavano ammarando la vedetta direttrice dell'ormeggio temporaneo della portaerei. Noi saremmo scesi a terra approfittando proprio di quella barca. Salire a bordo non sarebbe stato un problema. I controlli erano ormai azzerati. La gioia di tornare a casa faceva chiudere gli occhi a ogni pignoleria. Tant'è vero che, alla domanda di chi io fossi, il capo vedetta trovò solo il cognome riferito a David. Aveva fretta di finire il servizio. Si spazientì e così buttò il quaderno nell'oceano.
«Baaa! Hanno sbagliato in fureria! Sali a bordo soldato!» Mi disse euforico. «Ho perso la lista, ne chiederò un'altra, in un altro secolo forse!» Rise e io gli diedi spago. Tuttavia imitai la compostezza di David e degli altri. Dentro però ero in tumulto. Stavo per mettere piede in America. Per me valeva il suggello della fine definitiva della vecchia vita. Un atto simbolico forse, ma di un valore incalcolabile.
Tuttavia, balzare sul perimetro della terra ferma del porto di New York non fu un gesto eclatante. Mi aspettavo di trovare la marea umana che come tante formiche si era sbracciata sulla riva della zona civile a salutare i loro soldati chilometri addietro. Invece niente. Appena raggiunta la zona militare non c'era più nessuno, a parte plotoni di soldati affaccendati con le loro misteriose manovre. Non potevo immaginare mica quanto lavoro ci fosse dietro all'ormeggio di una portaerei.
Fu il momento più critico. Sbarcare oltre il perimetro invalicabile della zona militare. Ciò voleva dire disertare gli impegni militari. Bartolomew, nostro complice, fece in modo di distrarre il capo vedetta, anche se era già di suo tutto preso dalle manovre di sua competenza, così David poté trascinarmi via appena subito dopo aver attraccato la nostromo. Sentivo addosso il pericolo. Tutto attorno rappresentava un mistero per me. I grandi automezzi verde polvere che circolavano nello spiazzale più immenso che avessi mai immaginato; altri soldati ligi ai loro compiti; il veder dalla terra ferma il mostro di ferro che mi aveva condotto in America, i profili dei palazzoni visibili da ogni angolazione. La luce splendente del sole. Ancora dovevo respirare l'aria americana che già mi girava la testa.
Corremmo come pazzi non appena svicolato il muro di cinta militare. Era la fase più critica. Se ci avessero beccati saremmo stati presi per disertori anche se la missione era terminata. Potevamo essere anche sparati! Per agevolare il passo a David mi offrii di portargli lo zaino più pesante. Me lo lasciò fare. Purtroppo quella maledetta gamba, nonostante la guarigione completa, lo tormentava sotto sforzo.
Quanta strada percorremmo. Incredibile. Potevamo aver coperto quattro volte la distanza tra murice e il mare. Avevamo il fiatone che faceva fischiare la gola. Menomale che c'era David con me. Lui sapeva dove andare. Alla domanda: dove stavamo andando, mi rispose che mi avrebbe condotto in un posto dove mi sarei tranquillizzato. Ma prima di arrivarci, e dopo aver assunto un passo di marcia accettabile, ci toccò riprendere il mare a bordo di un traghetto diretto su di un'isola chiamata Long Island. Una delle tante che formano New York. Per arrivarci passammo da New Jersey city. Caspita, avrei dovuto sentirmi stanco, invece no. Mi sentivo pieno di energie. Adrenalina. Pare faccia di questi scherzi.
Quanta gente c'era poi assiepata, chiassosa, ilare, canzoniera anche. Avrei dovuto sentirmi fuori luogo? E perché mai? La gente rivolgeva saluti, applausi a chiunque indossasse una divisa militare. Anche a me rivolsero espressioni di gioia, un bentornato immeritato forse, ma ormai c'ero dentro, con o senza scarpe. Ma tutte quelle persone che agitavano bandierine a stella e strisce, quante ce n'erano. Sentivano sul serio il valore della pace appena conquistata. Era patriottismo, come appresi più tardi. Un valore molto sentito da queste parti. Mi sentivo così coinvolto che faticavo a dare ascolto a David. C'era così tanto da vedere. Torri ovunque, ed erano impressionanti, con una infinità di finestre; le strade erano grandissime, e c'erano macchine ovunque, e negozi; alcuni vendevano pure fumanti piatti di cibo. Quanta pazienza ebbe con me David che dovette illustrarmi ogni cosa colpiva la mia attenzione. Alla fine, forse per l'esasperazione o perché era in programma di marcia, mi trascinò dentro un autobus. Anche da lì però la fame d'osservazione del mondo nuovo non cessava, semmai il contrario.
Non trovammo posti a sedere, eravamo col naso quasi schiacciato al finestrino. David mi illustrò man mano tutte le zone al di là del vetro. Quando poi giungemmo al Time Square arrossii e distolsi lo sguardo dallo spettacolo al quale avevo appena assistito.
«Che c'è? Qualcosa ti ha turbato?»
«Qui in America ci si bacia in pubblico?»
«Ovunque è possibile farlo, purché non rechi offesa pubblica, soprattutto alla donna.»
«In mezzo alla parata, in piena strada, un soldato ha stretto a sé una infermiera e l'ha baciata!» Lo ammetto, ero scandalizzato. Tempo dopo scoprii di essere stato testimone di una delle foto simbolo della fine della seconda guerra mondiale. Fu un bacio rubato. Screanzato. Quei due manco si conoscevano. Bella immagine comunque, e che tempismo quel fotografo però.
A questo punto potrei andare avanti un secolo a riportare quante cose avevo visto fin tanto che l'autobus si fermasse all'entrata del Central Park. Non mi dilungherò. Registro piuttosto l'insolita sensazione di essermi ritrovato in un posto rasserenante. Insolito, se paragonato alla baraonda allegra che imperversa ovunque. Tutto il verde di quel bosco immenso del Central Park, seppur fin troppo curato, mi piacque. C'era anche lì un sacco di gente, più calma, ma ormai mi ci ero abituato. Ero dall'altro capo del mondo. Oltre l'orizzonte sconosciuto. In un mondo tutto nuovo, che meraviglia.
«Ti piace?»
«È un po' come trovare l'ombra di casa. C'è la terra anche in America, allora!» Quanto ridere gli fece il mio stupore ingenuo.
La terra è ovunque, buddy!»
David fu un eccellente accompagnatore. Mi offrì pure da bere a un chiosco. Tra le tante scelte che il signore ci propose e le richieste evase dalla gente prima di noi, scelsi dell'acqua. Per quel che avevo imparato mentre assistevo i feriti sulla nave, l'acqua è l'unica bevanda che disseta completamente, e io stavo morendo di sete. Ero sudato fino al midollo. Anche il maresciallo medico consigliava di bere molto. David prese una limonata. In un altro chiosco più il là nel parco dei panini con dentro strane code carnose calde e fumanti. Odoravano di griglia, di buono. E poi erano infarciti di gustose creme salate gialle, rosse, bianche. Hot-dog, così li aveva chiamati il soldato dai capelli rossi. Mi sbrodolai tutto. Quanto ero impacciato. Quel che più mi rimase impresso fu la disponibilità degli esercenti. Nel servire me e David, come anche tutti gli altri soldati in divisa, c'era della gratitudine. Non nego che la cosa cominciava a mettermi a disagio.
Accortosene, David mi invitò a proseguire in maniera più rilassata verso un enorme lago, il Jacqueline Lee Kennedy Onassis reservoir. Intuii l'intenzione di mettermi a mio agio conducendomi in un posto più simile al remoto Mar Piccolo.
«È stato Walter a indicarti questo luogo?»
«Sì, è questo il punto dove lo aspetterai.» Mi informò invitandomi a sedere su di una panchina. Dicendomi così mi fece capire che sarei rimasto solo. Perché? Perché David doveva tornare a casa sua, a Courtenay in Canada.
«Ti posso accompagnare?»
«Sapevo me l'avresti chiesto!» Rispose ridendo e scuotendo la testa. Mi puntò i suoi occhi verde prato. «Sai che mi sarebbe piaciuto davvero molto? Ma no, è troppo lontano. Ne avrò almeno per una settimana e più di viaggio prima di tornare a casa.»
Pensai accigliato. «Ma quanto è grande l'America?»
«Molto, buddy, molto.» Disse accigliato pure lui. A me però sembrava dispiaciuto. Aveva voglia di andarsene e io non lo trattenni oltre. Aveva fatto fin troppo per me. Mi si avvicinò strisciando sulla panchina.
«Baddy, so che non serve più, ormai è tardi. Però. Te lo devo dire ugualmente. Soprattutto adesso che so che mi capisci, vorrei chiederti scusa.» Sapevo che si stava riferendo alla ormai iconica fucilata in faccia. Stavolta venne a me da sorridere.
Feci spallucce. «Fa niente, se fossi stato al posto tuo non avrei sbagliato mira.» Quanto ancora lo feci ridere.
«Allora sono stato ben anche fortunato!» Mi abbracciò. Avrei voluto tanto non l'avesse fatto. Un normale abbraccio non è nulla di che, direte. Però quel tipo abbraccio lo riconobbi. È quello che si dà alle persone più care. Alle persone che superano un certo livello d'importanza. Era uguale all'ultimo abbraccio che mi aveva dato Fernando. Era uguale a quelli che mi dava Walter.
«Faresti un'ultima cosa per me?» Mi Sussurrò.
«Qualsiasi cosa.» Si staccò e mi prese la mano, e già incrociai gli occhi. "Ci risiamo, l'ennesimo messaggio in codice Morse". Per fortuna era breve. Cosa diceva? Mi consigliò di trasmetterlo a Walter quando saremmo stati in una situazione tranquilla. Poi aggiunse che se volevo sapere il contenuto mi sarebbe convenuto attendere un paio di giorni, trascorsi i quali Walter me l'avrebbe svelato. Me lo assicurò. Quanto lo conosceva bene.
Avrei tanto voluto dirgli qualcosa, ma una famigliola, attratta dalle nostre divise, ci chiese se potevamo posare per una foto tutti insieme. Li accontentammo. Poi però David mi salutò definitivamente e io lo vidi allontanarsi e confondersi in mezzo alla gente. A me rimase solo di aspettare. Aspettare Walter. Non avevo fatto caso, ma a pensarci ero fiducioso. Avevo sempre avuto fiducia in lui. Senza alcun dubbio. Tranne per il fatto che non sapevo cosa dirgli avendo disobbedito al suo ordine di rimanere nascosto nella nave. Poteva essersi arrabbiato? Avrebbe mostrato il terribile lato del Maggiore Walter Jameson Wilson che faceva tremare interi battaglioni di soldati? Se così, allora non avevo dubbi su cosa dovevo dirgli.
Non so quanto attesi. Era pomeriggio inoltrato ormai, forse sera. Se non fosse per lo spettacolo delle torri oltre il lago, e tutta la vitalità delle persone che ignare mi tennero compagnia, mi sarei annoiato. Non fu così. Ero elettrizzato, e pure incosciente. Ma ve lo immaginate se fosse stato tutto uno scherzo? Ohibò. Invece no, perché poi quel: «Hey! Apache!» tornò a percuotermi il cuore all'improvviso. Non l'avevo visto arrivare. Mi alzai dalla panchina e mi voltai. Lui mi raggiunse con la sua solita falcata gigante e finalmente glielo dissi. Anzi, dicemmo entrambi la stessa parola.
«Perdonami!» Eravamo sbigottiti.
«No, tu perdonami!» Di nuovo sovrapponemmo le voci sulle stesse parole. Eravamo proprio connessi.
«Oh, baby!» Buttò a terra il suo bagaglio a spalla e mi abbracciò forte. Esattamente come aveva fatto David poco prima. Mi spiacque per David, ma come stavo bene nascosto tra le braccia di Vuòlt. In tutto il mondo era il posto che preferivo. Peccato che la gente attorno iniziò ad applaudirci e la voglia di baciarci in pubblico diede spazio al buon senso. Avevamo dato l'impressione di essere due persone che si erano ritrovate dopo un lungo periodo di separazione, ed era proprio l'impressione più giusta. Non conveniva rivelarci. I tempi non erano ancora maturi per l'orgoglio di essere liberi, liberi di amare in pubblico chiunque a prescindere dall'orientamento.
«Perché mi chiedi scusa?» Mi domandò staccandosi un po' da me. Voleva capire.
«Perché ti ho disobbedito. Non sono rimasto nascosto. Sulla nave però c'era bisogno di un aiuto... Chissà cosa avrai pensato di me vedendomi in infermeria...»
Ondeggiò la testa lentamente. «Eri bellissimo.» I suoi occhi grigi e tempestosi si schiarirono. Erano luminosi. Oh, era lui bellissimo, altro che io. Finalmente era finito tutto il tempo d'attesa. L'avevo aspettato in tutti i sensi, in ogni forma, in ogni concezione del termine. Eravamo insieme. Stavo per dire qualcosa ma me lo impedì.
«Io ti chiedo scusa se non sono riuscito a trovare niente di meglio di una puzzolente stiva di una portaerei. Little Prince, tu meriti...»
«Non c'erano alternative.» Stavolta lo bloccai io. «Sappi che lo rifarei.» Alzai la testa per fissarlo dritto negli occhi. Annuì e sospirò.
«Vieni, andiamo!»
«Dove? A Lafayette?» Rise.
«Sì, Lafayette. Dobbiamo però riuscire a prendere il treno delle diciannove, altrimenti passeremo la notte in stazione. Non è posto sicuro...» Salii ancora su un altro autobus. Questo era pure a due piani. Il che mi diede l'opportunità di osservare meglio quel mondo affascinante che era New York. Quelle torri poi, sfioravano il cielo. Glielo feci notare e Walter mi rivelò che erano grattacieli. Alla domanda a cosa servissero mi disse che dentro si trovava di tutto. Banche, uffici postali, negozi, e tanta gente che addirittura ci abitava. Un terzo di uno di quei giganti di cemento e acciaio sarebbe bastato a ospitare l'intera comunità di Murice. Passammo anche vicino all'Empire State Building dove per lo stupore per poco non svenni. «Dio onnipotente! Credo proprio che ce l'abbia messo anche lui una mano per costruire questo prodigio!»
«Non lo so, non c'ero buddy. Però è fatto dagli uomini.» Si batté il petto con orgoglio.
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