25 - La morte di Roberto
Doveva essere un momento di gioia, la nascita di una nuova vita che avrebbe svergognato l'orrore della guerra. Invece venne Ninetta a reclamare altre ossa innocenti per il suo cuscino.
«Vi decidete a dirmi cos'è successo?» Incalzai ruggendo. Purtroppo l'unico a reagire fu papà Pietro che mi assalì inveendo. Mi vomitò addosso tutto ciò che provava nei miei confronti. Mi maledisse e mi incolpò della morte del nascituro. Non mi aspettavo nulla di più basso dall'infimo degrado della sua anima. Secondo lui portavo sfortuna perché avevo gli occhi neri. Sapevo che parte di ciò che diceva era dettato dall'alcol in corpo. Il pugno pronto contro di me però proveniva dal suo cuore.
«Sei sicuro di voler arrivare fino a questo punto, miserabile vecchio?» Lo fissai libero dall'obbligo del rispetto filiale. Quello era e voleva essere un estraneo agli occhi miei e io lo accontentai. Palma per poco non si ficcava le mani in bocca per l'ennesima atrocità alla quale stava per assistere. La levatrice Concettina elevava preghiere, mentre mamma e Cosetta, quasi abbracciate, videro supplichevoli la mia mano fermare il pugno sferratomi da quell'omuncolo.
Ci guardammo dritto negli occhi io e lui. I suoi blu chiari le cui lacrime, semmai ne avesse versate, sarebbero state letali come veleno. I miei neri, che detestava, sancirono il definitivo non aver più paura di essere odiato né da lui né da nessun altro. Lo aveva capito? Non mi interessava. Con un gesto vigoroso gli liberai il pugno obbligandolo a deporlo al fianco. Mi sentivo potente. Lui seguitava a ringhiarmi come un cane rabbioso.
«La prima volta che ti ho visto, figlio del diavolo, ti ho buttato nel fuoco del camino! Ma quella troia di tua nonna ti ha salvato a costo di bruciarsi le mani. Ti giuro però che-» tossì e si accasciò a terra interrompendo la confessione. Lì lo lasciai. In un'altra circostanza l'avrei soccorso. La cosa mi bruciava. Ma no. Non molto. Respirai sereno.
«Avresti potuto soffrire di meno se avessi saputo perdonare.» Non provavo più pietà per lui. E per mamma? Non mi diede tempo d'inghiottire l'ennesima pillola amara. Quello là mi aveva gettato tra le fiamme del camino, quando ancora nemmeno camminavo. Fino a quel punto gli dispiaceva la mia esistenza?
«Figlio, se respira ancora, battezza tuo fratello, per favore.» Lo sguardo solenne e brillante di lacrime di mamma e la nobiltà di non far trasparire le emozioni, era dovuto alla triste abitudine di aver perso tutti figli concepiti dopo me. Stavo giudicando il prossimo? Sì, e sono sempre pronto al biasimo.
«Palma, acqua, presto!» Tuonai dopo aver scorto una minuscola bolla di sangue crescere sulle labbra dello sfortunato nascituro. Stava spirando. Mi tolsi la camicia per l'ultima volta e la offrii come sudario per quel corpicino. Lo presi con un braccio, con attenzione. Il cuore suo in quel momento era anche il mio. Batteva ancora, ma era un suono delicato come una piuma. Era un maschietto. Quando mia sorella mi porse un vasetto di coccio colmo di acqua, vibrante per l'agitazione, chiesi a mamma il nome.
«Dagliene uno tu, per favore.» Annuii secco col sottinteso di trasmetterle un messaggio. Messaggio che poi carpì al volo. Senza perdere altro tempo, accompagnai la formula con le abluzioni e con due lacrime che stillarono dai miei occhi. «Roberto, - mamma sospirò sonoramente - ego te baptízo in nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti.» Alzai lo sguardo con la pretesa che tutti rispondessero con "amen". Lo mormorarono appena.
Vidi un'ultima volta la mamma. Sostenemmo l'uno lo sguardo dell'altra. Annuì in modo che fossi solo io il destinatario del gesto. Aveva compreso la mia intenzione. Allungò le braccia.
«Per favore, dammelo. Almeno per una notte voglio tenerlo tra le braccia, poiché non avrò mai più figli da quest'uomo.» Indicò Pietro accovacciato e tremante in un angolo. Mi guardava ancora con l'ombra dell'odio negli occhi. Poteva fottersi.
Cosetta afferrò almeno quel messaggio. La mamma voleva separarsi da papà. Mi guardò con gli occhi umidi mentre depositavo Roberto tra le braccia di mamma.
«Figlie mie, domani andremo a stare dalla nonna per sempre. Chi non vuole può rimanere qui.» Fu categorica e placida nella stessa misura. Donna Concettina, inorridita da quello che aveva appena udito, si fece il doppio segno della croce. Si congedò da mamma in tutta fretta.
«Ecco, donna Alberica, io ci ho la papagna*, te la do, forse ti servirà per dormire.» Tirò fuori dal grembiule un sacchetto di stoffa con la polvere di papavero e la consegnò a Cosetta. Baciò la mano di mamma e scappò via. Con ogni probabilità sarebbe stata lei a non dormire quella notte.
Cosa mi restava da fare dopo aver sentito sulla pelle il distacco con tutte le persone presenti in quella stalla?
Lo smarrimento di Cosetta mi fece stringere il cuore. «Domani avrò molto da lavare. Mi darai una mano con i cesti dei panni da portare al canale?» Era stata ingenua a chiedermi aiuto per il giorno dopo? Non lo seppi mai.
«Sì, adorata sorellona.» Le mentii. "Mia cara immagine di me stesso fatta donna, fatta perfezione, trova la forza di perdonarmi".
Palma trovò il coraggio di pretendere la sua parte. «Io ho molte cose da cucito. Mi devi aiutare a portare tutto dalla nonna. Da sola non ce la faccio.»
«Sì, Palma. Ti aiuterò.» Mentii ancora. "Sorella taciturna e altera, mi mancherà vederti ricamare sotto la finestra".
Giunse il momento di mostrare la schiena. Accennai a voltarmi ma mamma mi chiamò un'ultima volta.
«Porteremo a casa della nonna Rita le nostre provviste. Soprattutto l'olio. Però è contenuto nel capaso. (Anfora alta oltre il metro.)» Accigliato la ascoltai. Da come stava elencando il da fare per il giorno dopo, stentai a credere che non mi avesse compreso. Però alla fine mi dimostrò tutto il contrario.
«Per travasare l'olio avremo bisogno di un imbuto. Con l'imbuto tutti i liquidi finiscono in una sola direzione...» Con quanta forza mi investì il ricordo del discorso di Nando sull'imbuto, non ho saputo mai quantificarla. Era ovvio il messaggio della mamma. Sapeva che Fernando non sarebbe mai più tornato a casa. Sapeva dei nostri discorsi in privato. Li ricordava tutti. D'altronde da qualcuno dovevo aver ereditato il dono di ricordare qualsiasi cosa. Lei era come me. Ricordava tutto. Sapeva tutto. Soprattutto di me. Persino che mi stavo innamorando di Fernando. In qualche modo era riuscita ad ascoltare di nascosto i nostri discorsi. E sia. Tanto la decisione l'avevo presa per le palle. La mamma mi invitò ancora a sostenere lo sguardo. Lo sostenni perché mi aveva tolto l'ultimo brandello di vergogna. Non avevo più nulla. Ero nudo come il Roberto morto tra le sue braccia. Lo sostenni quello sguardo, altroché, in attesa che mi maledicesse.
«Roberto. Ti benedirò per sempre. Anche quando non ci sarò più. Ti benedirò.» Posò le labbra sulla fronte del Roberto che cullava tra le braccia. Con gli occhi però era me che stava baciando. Si dice che la vita è il dono più prezioso che una mamma dà ai suoi figli. A me allora la mia l'aveva donata due volte. Con quel suo modo elegante, mamma deviò l'attenzione da me al prematuro scomparso, sicché la mia schiena non la vide nessuno svanire eccetto lei.
Mi rimase l'ultimo baluardo da superare. Sabino. Doveva sapere anche lui. Era ancora sulla panca in cortile fuori casa. Accanto c'era la cara Cristina. La madre un po' più in là in trepidante attesa di sapere se il parto fosse andato bene. Mi spiacque disattendere la sua aspettativa. Mi inginocchiai tra i monconi di Sabino.
«Ho sentito delle urla. Donna Concettina è uscita correndo. Cos'è successo? Il bimbo è nato?» Scossi la testa.
«Pietro, in preda all'eccitazione ha tolto nostro fratello appena nato dalle braccia della levatrice. Era ubriaco.» Tanto bastò perché intuisse che con quelle braccia indebolite dall'alcol aveva fatto cadere a terra il nostro ultimo fratellino uccidendolo. «Dietro ordine di mamma, l'ho battezzato. L'ho chiamato Roberto.» Sabino allargò gli occhi. Ero certo avesse intuito tutto. Ed ero anche certo che voleva non credere d'aver inteso. Quando mi chiese se gli procuravo la liquirizia il giorno dopo, aveva gettato l'ultimo amo disperato in mare. La risposta avrebbe suggellato la comprensione alla quale voleva sfuggire.
«Te la porterò.»
«Grazie.» Era la prima volta che me lo diceva. Era la prima volta che gli mentivo in modo grave. Era stata l'ultima volta che vedevo anche lui. Di slancio lo baciai sulla guancia. "Addio Sabino. Ricorda, il più forte di tutti sei tu". Mi rialzai e me ne sbattei degli sguardi oltraggiati delle donne vicine.
«Sei senza camicia.» voleva dirmi ancora qualcosa. Feci spallucce cercando di sorridere. Ormai era fatta. Mi voltai e mi allontanai. Quanto pesavano quei passi. Quella strada sterrata, le pietre puntute che calpestai. Ogni passo era l'ultimo su quella via. Avevo paura. Per nulla al mondo però sarei ritornato sui miei passi. Raggiunsi la piazza. Ormai c'era poca gente indaffarata a sbarazzare il misero rinfresco offerto ai soldati. Non c'erano nemmeno loro. Non c'era nessuno. Nemmeno Vuòlt. Ecco. Mi ero sbagliato. Vuòlt. Dovevo salutare anche lui. Sapevo dove trovarlo. Ignorando come meritavano Don D'Arcento e Don Cataldo che come gufi arcigni mi squadrarono giudicandomi col metro scarso dei loro valori, percorsi tutta la Piazza Margherita. Giunto al bivio per il cimitero, giacché non avrei avuto altre occasioni, feci visita a Gregorio. Con lui avevo un conto postumo da saldare. La luna piena mi aiutò a scorgere in fretta il suo sepolcro.
Cosa dovevo dire a quell'altro sfortunato fratello?
«Non ti odio. Mi dispiace che tu abbia odiato me. Però grazie per avermi fatto scoprire la verità. E non mi dispiace se non provo nulla per te, non più. Se volevi che le cose fossero andate diversamente tra noi, poteva dipendere da te e da nessun altro. Siccome però sei stato caparbio nel nutrire rancore verso me fino all'ultimo, allora, caro fratello... Vaffanculo. Dovevi palesare il tuo odio, non fingere. Sappi che non lo meritavo.» Senza chinare il capo mi voltai. Gli occhi asciutti.
Sarò stato crudele? Meschino? Irrispettoso? Chissà. In quella notte però, il mio giudizio era insindacabile. Il risultato della deposizione fu eccezionale. A dispetto della disgrazia del mio povero fratellino omonimo, mi sentivo bene. Libero. Libero al punto da rinunciare anche ai pantaloni. Li tolsi e li buttai. Non volevo nulla che mi ricordasse il pericolo di aver potuto diventare un'ombra tra le tante di Murice. Rimasi nudo a camminare, anzi, correre incontro al mare, incontro al fuoco, incontro a Vuòlt.
La mia solenne camminata tuttavia, ebbe vita breve. Un'auto mi raggiunse alle spalle appena uscito dal paese. Strano. A prescindere dall'ora tarda, erano occasioni uniche i passaggi di qualche vettura. Il chiasso che l'accompagnava mi illuminò, assieme ai faretti dell'auto. Erano gli americans, tutti festosi e brilli. Mi superarono ma qualcuno gridò qualcosa e l'auto frenò di colpo. Fischi di apprezzamento sberleffo mi assordarono.
«Roberts!» Bé, non è sempre detto che le cose quando prendono una forma poi non debbano mutare. Raggiunsi i ragazzi che mi guardarono sorpresi. Qualcuno emise una battuta di spirito e gli altri risero. Non potevo biasimarli. Ero nudo. Tuttavia mi invitarono a salire rinverdendo l'allegria che li aveva accompagnati. Domandai di Walter e risposero con altre battute. Uno dei soldati al mio fianco si tolse la camicia e me la mise attorno alla vita. Lo ringraziai.
«Tutto okay, ragazzo! Tranquillo!» In un riflesso incondizionato gli risposi nella sua lingua. Oltretutto lo riconobbi. Era uno dei ragazzi che avevo conosciuto al mare oltre un anno addietro. Eravamo in nove sopra quell'auto senza tettuccio. La marcia era di proposito lenta e ondulante. Difficile non trovare la situazione divertente. E gli americans oltre alla guerra c'erano altre cose che sapevano fare bene: ridere, scherzare e anche coinvolgere un "cadavere" ambulante come me. Di fatti mi riuscì impossibile non unirmi alla baldoria, tra l'altro agevolata da scambi di sigarette e liquori in minuscole bottiglie. Altresì gli effetti dell'alcol non blandirono l'angoscia che mi stava accompagnando come una fiera silenziosa. Avevo bisogno di rivedere un'ultima volta Walter. Salutarlo per sempre e andare via. Peccato non fosse in quell'auto. Avrei potuto fare tutto subito. No. Non c'era nemmeno dentro la tenda. A dire il vero, quando arrivammo in spiaggia la tenda nemmeno c'era. I soldati fermarono la macchina in prossimità della solita zona. Mi invitarono a seguirli e quasi obbligato a proseguire con i loro canti misti a schiamazzi. Erano felici. La guerra era finita e presto sarebbero tornati alle loro famiglie. Walter avrebbe fatto la stessa cosa.
Avrei dovuto sorprendermi a vedere il vecchio monastero dei Battendieri illuminato. In qualche modo avevano allacciato la corrente dai tralicci lì vicini. Altri soldati dentro festeggiavano, bevevano, giocavano e ridevano. Erano tornati ragazzi. La loro vera natura. Pochi altri che mi riconobbero mi porsero le mani, mi abbracciarono. Erano diversi da come li ricordavo. Erano spensierati. Finanche sorpresi nel scoprire che ero in grado di sostenere i loro dialoghi. Però di Walter nemmeno l'ombra. Domandai per l'ennesima volta dove fosse e un ragazzo mi invitò a seguirlo.
Il monastero lo conoscevo com'era fatto dall'interno. In tempi di pace era usato in comune dai pescatori che però non lesinavano ospitalità ai vicini di paese. Di diverso c'era un gran biliardo dove i soldati stavano giocando. Dei tavoli di fortuna e scranni affazzonati dove altri militari si sfidavano a braccio di ferro o a carte. In altri c'era anche da mangiare. Le luci delle lampadine appese da catene traballanti dal soffitto non erano molto luminose, tuttavia adeguate. Alla fine del corridoio, il soldato mi indicò l'ultima porta.
«Walter è lì?» Domandai l'ovvio.
«Sì, ma, stai attento, oggi è intrattabile, è arrabbiato. Non vuole essere disturbato.» Bisbigliò facendo un gesto eloquente. Deglutii. Un ciao e un addio supposi li potesse sopportare però. Il soldato si defilò rapido. Accidenti, aveva proprio paura.
Bussai, domandai permesso ma non sentii nessuna risposta. Aprii la porta piano ed entrai. Chiamai ancora «Vuòlt!» Ma uno scroscio mi coprì la voce. Ero a conoscenza delle docce del vecchio battistero. Funzionavano con l'acqua scaldata dal sole contenuta nelle vasche sul terrazzo. Walter e i suoi ragazzi avevano fatto proprio le cose in grande. Riempire quelle vasche attingendo l'acqua dalle sorgenti attorno era un lavoraccio non da poco.
Il fatto che in quella camera ci fosse un letto, una specchiera, dei mobili di conforto era dovuto all'usanza dei pescatori di utilizzare il convento come appoggio durante i lunghi periodi di lavoro. Beninteso, era tutto vecchiume di riutilizzo. A giudicare dall'odore, i soldati quel posto l'avevano tirato a lucido. Scossi la testa.
«Vuòlt!» Tuonai, e una porta si spalancò con forza.
« What!» Tralasciando il particolare ovvio che fosse nudo sotto la doccia, Vuòlt aveva la faccia più incazzata del mondo. Avevo da credere davvero sulla paura del soldato che mi aveva accompagnato. L'acqua scendeva copiosa sul viso e la fronte aggrottata dove il ciuffo spalmato su un occhio gli impediva di vedermi per bene. Scosse la testa e infinite gocce parvero esplodere e scheggiare via da lui.
«Honey!» Il chiarore del sole anticipò le ore sul suo viso. Mi vide. Era incredulo. Come se non fossi là. Gli bastò mezza falcata per afferrarmi e trascinarmi dentro la cabina doccia. Rideva. Diceva cose che poi chiesi di tradurre.
«Lasciami!» Gli dicevo. «Sono tutto sporco io!» Ed era vero. Avevo addosso soltanto la camicia offerte dal soldato e null'altro. La terra che ricopriva il mio corpo mi donava un aspetto indecente.
«Bugiardo!» Rispose. «In questo angolo di mondo sei la creatura più pulita che abbia conosciuto.» Mi lavò comunque di tutto punto. Le sue mani percorsero ogni millimetro del mio corpo. Sembrava volesse plasmarmi come argilla. Non ero abituato a tante attenzioni. Protestai, cercai di divincolarmi, ma Vuòlt mi tormentò dolcemente e con energia.
«Devo dirti che...» Mi baciò all'improvviso. Accidenti! Al diavolo l'addio. Glielo avrei detto dopo. Più tardi. Nei miei sogni, oppure mai. Mi sollevò tenendomi stretto tra le braccia. Mise i miei occhi in parallelo con i suoi. Che forza che aveva! E di nuovo mi baciò. Non aveva paura di stringermi. Era come se volesse incamerare il mio corpo dentro il suo. Quella bocca. Nonostante l'esuberanza d'acqua che la investiva, era assetata delle mie labbra. Di me. Era me che stava aspettando. Aveva atteso, forse sperato, magari sognato che lo cercassi. Esaudito il misero desiderio vedendomi, scoprì non essere più un uomo. Vuòlt era felicità assoluta. Nessuno aveva esultato così rivedendomi. Sì, certo, Nando. Ma anche no. Perché Vuòlt era l'unico a potermi dare tutto ciò che volevo. E non finiva più di darmi, di donarsi. Quei baci erano doni d'estasi. Un Rimpallo infinito tra uomini. Era avidità inversa. Vuòlt era come me. Sapeva dare tutto una sola volta a una sola persona in tutta la vita. Come me era fatto di carne, ossa e passione. Che cosa stavo facendo? In quella serata, il buio che mi ero portato da Murice non lo vedevo più. Non lo sentivo più.
«Fermiamoci.»
«Ci fermeremo alla fine.» Non poteva rispondere altrimenti. Era un soldato, un graduato. Comandava lui. Opposi impacciato le mani alle sue che mi asciugava con il suo asciugamano. Ma non ero stato abbastanza convincente. Lui intese: affrettiamoci! Già nel letto, con l'eloquenza di stare l'uno con la testa tra le cosce dell'altro. Quante cose sapeva. Della mia ignoranza si fece carico lui. Di tutto si fece carico. Persino delle mie gambe trattenute sulle sue spalle larghe. Soprattutto della felicità si fece carico di prodigare generoso come nessuno al mondo.
Invocando «Oh, baby!» Giunse per entrambi l'apice dell'estasi. Cosa avevamo fatto? A vederci così stravolti si direbbe avessimo raddrizzato l'asse terrestre. Un po' così era stato. Come ci batteva forte il cuore.
«Dovevi dirmi qualcosa?» Ansimò memore di quello che gli avevo chiesto prima dell'ora della gioia.
«No.» Scossi anche la testa. Non sarebbe stato giusto per entrambi se gli avessi raccontato che razza di sciagura le mie spalle si erano lasciate dietro.
«Chi è "Baby"?»
«Non lo so. Tu. Tu sei il mio baby. My Little Prince.» Benché parlassi un po' meglio la sua lingua quel tanto da reggere il dialogo, molte parole mi erano ignote.
«Conosci "Little Prince"?»
«Sei tu, il mio "Little Prince".» Non potevo dire che mancasse di fantasia. Il protagonista del romanzo al quale alludeva era ancora una novità ai più nel mondo. Motivo per cui non lo avevo letto.
«Ma non ti riesce proprio di chiamarmi col mio nome?» In verità lui, ma soltanto luì però, poteva chiamarmi in tutti i modi che desiderava. Che meraviglia stargli abbracciato nel letto mentre mi raccontava del "Piccolo Principe".
Fu lusinghiero paragonarmi all'incantabile bimbo biondo, pronto a stupirsi dell'essenzialità dell'universo. Tuttavia stonava con la mia mancata infanzia serena. Altresì era inevitabile definire "Piccolo Principe" Roberto, il mio ultimo fratello da poco spirato. E di lui gli parlai.
Non commentò alla fine. Piuttosto sembrava aver trovato una conferma. Non fu inopportuno però quando tornò ad accarezzarmi la schiena e scendere giù con le mani fino al sedere. In nessun modo, fu fuori luogo, no. C'era una verità che superava in forza qualunque avvenimento appena vissuto. Noi eravamo vivi. Io ero vivo. Vivo. Egoisticamente vivo e con la voglia di vivere.
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*Papagna: infuso di papavero campestre dagli effetti calmanti e blandamente soporiferi; non è una droga e non provoca dipendenza. Anticamente lo si somministrava ai neonati per calmare i dolori delle prime coliche. Da non confondere con il papavero da oppio dell'estremo Oriente dagli effetti allucinogeni e facili all'assunzione, e per niente medicinale.
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