24 - Fiori nel deserto
Don Cataldo suscitò interesse, ovvero la curiosità dei parrocchiani, la cui presenza aumentava una messa dopo l'altra. Non era sfuggito agli occhi e alle lingue triforcute di certe pettegole gli sguardi che il nuovo chierico lanciava al nostro Don D'Arcento. Cosetta e io sapevamo che, il giorno del primo incontro, quello aveva sorpreso l'altro in atteggiamenti troppo biblici con la perpetua, anche se tempo due mesi le perpetue erano raddoppiate. Era probabile che alla lunga avesse cominciato ad apprezzare l'andazzo locale. Sospettavo ci fosse della competizione tra loro. Quando Don D'Arcento terminava il suo sermone con: "anatema a chi commette questo o quello", Don Cataldo aggiungeva: "sentirete squillare le trombe dell'oltretomba". Vai a immaginare mai che all'inferno ci si andasse a suon di musica, forse pure ballando.
Durante gli ultimi mesi, ciò che era conclamato trovò conferma: la mamma era quasi giunta al termine della gestazione, e io ero al settimo cielo. Non vedevo l'ora di conoscere il nuovo fratellino. Nel frattempo avevo terminato la tessitura della stoffa e Palma era già al lavoro per confezionare l'abito di Sabino. Ormai lui era prossimo al matrimonio, smanioso di andare a vivere a casa di Cristina, dove già trascorreva la maggior parte dei giorni. Però, per non escludermi dalla sua vita, ogni tanto mi chiedeva la liquirizia e gliela procuravo con soddisfazione. Papà Pietro invece inondava di vino il gargarozzo più che mai. Non di rado gli venivano i tremori alle mani, gli scivolava anche il bicchiere. Beveva troppo. All'ennesimo rotto gli procurai una coppa di rame dal ramaiolo. Me la cedette in cambio di un bel po' di pesce pescato al solito posto. Menomale che era pure amico di papà Pietro, per dire.
Senza accorgermene mi ritrovai assorbito dal corso della vita senza prospettive, la stessa che gente nata prima di me aveva vissuto e stava vivendo. Ero uno di loro, uno schiavo libero di non volere la libertà di cambiare le cose. Un "campa oggi che arriva domani". Se mi andava bene così? Se mi andava bene abbandonare una volta per tutte tutto, me stesso e il mio soldato perduto? Che altro potevo fare. Era quasi finito Aprile. Avevo rivisto per l'ennesima volta sbocciare i papaveri in mezzo al grano selvatico. Era spuntato di nuovo nonostante l'anno precedente l'avessi spigolato e portato al mulino della madre di Paolo, la quale ne aveva ricavato un'ottima farina grezza. Avevo di nuovo avviato il ciclo dei lavori del frutteto e non di rado andavo a pescare. Tessevo anche al telaio durante i giorni uggiosi. Come un ciclo continuo, trascorrevo un giorno in attesa del successivo.
Sì, e così era passato anche aprile del 1945 e Funiello, da bravo corriere, un giorno ci informò che almeno in Italia la guerra era terminata. Tutti noi, assiepati in piazza Margherita, lo guardammo sospettosi quel giorno. Era vero che da più di un anno non si vedevano volare gli aerei da guerra. Anche Don Cataldo aveva più volte annunciato che il Signore aveva concesso di nuovo la pace in terra, almeno a Taranto. Ma se era tutto vero, dov'era il cambiamento? Ciò che accadeva un giorno era uguale a quello precedente, e il successivo non aveva prospettive differenti. Cosa poteva cambiare per noi che non sapevamo nulla di tutte le atrocità dalle quali eravamo stati risparmiati. Come potevamo nutrire gratitudine se non sapevamo che quel conflitto aveva messo a soqquadro l'intero globo terrestre, salvo eccezioni, e provocato stermini ovunque.
Quante volte avevo sentito Don Cataldo annunciare, minacciare quasi: "sentirete squillare le trombe dell'oltretomba! Se non crederete che la guerra è finita!" E se era vero, per me era finita la speranza di riveder Vuòlt. Un tormento che mi assaliva ogni tardo pomeriggio, all'uscita dell'unica messa alla quale presenziavo se proprio non avevo nulla da fare. E proprio durante un pomeriggio di metà maggio, appena uscito dalla chiesa, quelle cazzo di trombe dell'oltretomba le sentimmo per davvero. La massa di vecchi e ragazze incappucciati al crepuscolo mi dava la sensazione di perdermi tra le ombre del Tartaro - grazie nonna per le lezioni su Omero. Tutti impietriti in piazza, udimmo suoni e rombi di motore. Altro che fine della guerra, la fine del mondo è arrivata! Gridò qualcuna. Il panico si impossessò di chiunque presente. Cosetta mi raggiunse per chiedermi un parere. Stavo per esprimermi quando riconobbi lo strombettio di clacson.
«Sono automobili! Sta arrivando qualcuno.» A sottolineare la mia deduzione si aggiunsero schiamazzi di gente scalmanata, un elemento che alimentò il panico cittadino. Nemmeno l'autorità di nonna Rita riuscì a farsi sentire. Io, in pena per lei, la raggiunsi sgomitando tra le altre vecchiacce per tranquillizzarla.
«Se sono tedeschi, cosa facciamo?» Sentii ripetere in mezzo a tante invocazioni al Signore. Attesi che qualcuno suggerisse qualcosa, ma nessuno aveva idea di come gestire la situazione. Nemmeno i due Don riuscivano a tranquillizzare quella povera gente. Non so dove trovai la forza, ma a un certo punto caricai i polmoni d'aria e mi feci sentire.
«Offriamo loro del cibo e vino!» Mi uscì una voce talmente inaspettata che ottenni l'attenzione di tutti. Qual è stato l'effetto? Pochi secondi dopo di silenzio, spazzato dall'avvicinarsi delle automobili chiassose, Don Cataldo disse: «Ha ragione il ragazzo!» E tutte le donne, ragazze e vecchietti abili si fecero in quattro per recuperare tutto ciò che potevano offrire da mangiare. Fecero persino di più. Portarono fuori tavoli e sedie, che vennero sistemati intorno la piazza, e tanti lumini e torce accese da far sufficiente luce per poter vedere senza aguzzare la vista, dato che incombeva il crepuscolo. Avevano dato fondo a tutti i loro beni sperando che non fossero tedeschi gli ospiti.
Sotto sotto, io cosa in realtà speravo? La risposta è ovvia, che quelle auto fossero piene americans, soprattutto che Vuòlt fosse in mezzo a quelli. Solo quando pensavo a lui mi accorgevo d'avere un cuore, un cuore che faceva male.
Al trambusto generale si presentò persino Sabino, accompagnato sulle spalle di Vincenzo, assieme a Cristina affiancata dalla madre. Io ero già seduto su una delle sedie offerte da nonna Rita, che cedette a patto che fossero messe lungo il perimetro della sua casa. Erano le più belle, mica voleva che qualcuno le rubasse. Lei però si rintanò dentro e ospitò tutte le megere che avevano paura degli ospiti. Pure la madre di Cristina crepava di timore e trascinò dentro la figlia. Così, ricongiunto e seduto accanto a mio fratello, vidi sgommare cinque auto verde polvere zeppe di soldati che si sbracciavano e urlavano festosi.
Festosità che raggelò appena ci videro. Fermarono le auto in coda e attoniti scoprirono forse la parte più povera e desolata d'Italia. Mi alzai angosciato e sperai di riconoscere almeno la lingua inglese, dal momento che non riuscivo a individuare Walter. Accidenti, quanto è tosta la speranza certe volte. Accidenti pure al silenzio che era calato di nuovo. Alzai le mani e iniziai ad applaudire, un gesto che incoraggiò la mia gente a imitarmi e allora sì, riconobbi che parlavano quella lingua. Qualche donna più coraggiosa si avvicinò con un cesto di frutta e la offrì ai soldati dell'auto più vicina, e anche quella fu imitata da altre e poi altre ancora. Le nostre povere disponibilità scaldarono di nuovo l'euforia di quei ragazzi che esplosero gridando frasi d'incoraggiamento. Peccato che a parte il sottoscritto nessuno le capiva. Tuttavia avvenne il miracolo, quello dell'accoglienza. Certo, dovetti alzarmi e farmi sentire di nuovo per presentare gli americani che avevano contribuito alla liberazione dell'Italia dai nazisti. Affrontare pure l'ennesima ondata di sguardi e ricevere l'appoggio dei Don perché si venisse a creare un'atmosfera più piacevole.
Tornai a sedermi e misi un braccio sulle spalle di Sabino che mi guardò tanto benevolo quanto sospettoso.
«Stai bene?»
«E tu, fratè?» Mi rimpallò l'espressione di circostanza.
«Forse tra un po' meglio. Torneranno a casa i ragazzi che sono partiti.» Nominammo decine di amici e ricordammo gli aneddoti che li avevano visti attori, mentre attorno a noi la gente prendeva confidenza con gli stranieri che si divertivano perché nessuno capiva la loro lingua. Anch'io iniziavo a sorridere per come i vecchietti si rapportavano col dialetto in opposizione all'inglese. Se avevo dubbi sul passo della Bibbia sulla torre di Babele, bé, li stavo dissipando sorridendo, "sarà stata storia vera".
Quanta forza mi era costata per sopprimere la voglia di cercare Vuòlt in mezzo a quei soldati. Non ero stato colto da un improvviso timore virginale, avevo fatto sentire la mia voce a posta per attirarlo, nel caso si fosse trovato in mezzo alla folla. Senza risultati a quanto parve. Proseguii a chiacchierare con Sabino, entrambi assorti in una bolla d'intimità al riparo dalla bolgia, quando una mano tesa la fece esplodere all'improvviso.
«Hello, Apache!» Quella voce profonda. Quel nomignolo. Era lui. Mi ero così tante volte ripetuto che sarebbe stato impossibile rivedere Vuòlt, che alla fine quella convinzione l'avevo promulgata a legge dittatoriale. Vidi il volto di Sabino ruotare verso il soldato, e poi fissare la mano tesa tra le cui dita erano infilate due tavolette di cioccolato. Avevo il respiro pesante. Il cuore, non avevo idea dove fosse arrivato, ricordo solo che stava facendo casino dentro me.
«Grazie!» Squillò Sabino accettando una tavoletta. «Oh! Robbè! Prendila! È buona, si chiama cioccolata, vedrai quant'è buona, tu ancora non la conosci.»
"Non la conosco. Sabino, con quella cioccolata ho scoperto l'amore". Pensai.
Nascosi la faccia sulla spalla di mio fratello e liberai un singhiozzo. Era la prima volta che mi usciva acqua dagli occhi in pubblico e non potevo arginarla in alcun modo.
«Eh, ma che fai, piangi? Hai paura dei soldati? E da quando cazzo ci hai paura di qualche cosa tu?» L'americano si intromise con discrezione usando la sua lingua.
«Allora mi hai pensato.» Confermò piuttosto che chiedermi.
«Non ho mai smesso un secondo, credimi, mai.» Gli risposi in lingua, incurante dello stupore di Sabino.
«Ma come parli Robbè? Non si capisce un cazzo!» Mi scappò una singulto di risata. Vuòlt mi mise in mano la cioccolata che aveva destinata a me. Poi appoggiò una mano sulla spalla a Sabino. «You are real hero, guy!» Non gli erano sfuggiti i nodi ai pantaloni di mio fratello, vuoti di metà delle gambe perse in guerra. L'aveva riconosciuto da come glielo avevo descritto oltre un anno addietro. Lo vidi allontanarsi.
«Basta, non devi aver paura!» Mi esortò Sabino. Altro che paura. Avevo sì paura, ma di saltare al collo a Walter e di baciarlo in mezzo alla folla. Oh, senza chiedere perdono a niente e nessuno avrei fatto anche altro ancora. Ma non sarebbe stato saggio, l'avrei svergognato e peggiorato la fama della mia famiglia.
«Hai capito cosa mi ha detto?»
«Che sei un vero eroe di guerra.» Gli svelai mentre inseguivo con gli occhi Walter fino a che non scomparve tra la folla. Cosa successe dopo? Una cosa incredibile. I soldati improvvisarono giocolerie da strada, spettacolini mimati, scimmiottando film muti dell'epoca, ridicolizzando le scene amorose essendo tutti maschi. La mia gente rise come mai l'avevo vista. Alcuni anziani si trattenevano le guance, doloranti perché mai avevano attivato i muscoli del viso. E le ragazze? Oh, alcune si fecero avanti. C'era da capirle. Dopo anni senza lo straccio di un maschio, le loro sotto sottane gridavano "basta carestia!"
I vecchi più assennati e restii ai festeggiamenti non risparmiarono commenti. «Sarebbero questi i soldati che ci hanno liberato dai tedeschi?» Disse uno di quelli osservandoli scimmiottare delle scene alla Rodolfo Valentino. Cosa pensavo io? Se esisteva un modo per appurare la genuinità delle intenzioni, non avrei avuto paura di esser messo sotto esame, perché quella sera amai Dio profondamente e con riconoscenza, per aver concesso il ritorno del mio soldato perduto.
Ero felice, ero pervaso dalle vera felicità, anche se scemò di colpo appena realizzai che Walter non sarebbe rimasto un giorno di più, in virtù della conclusione della guerra. Tutto perse senso all'improvviso. Cosa l'avevo aspettato a fare? Mi diedi dell'idiota. Ma non potevo nemmeno ragionarci tanto, perché una nipote della levatrice Concettina mi si presentò davanti col fiatone. Ciò che farfugliò era più importante anche di Vuòlt: la mamma stava partorendo in quel preciso momento. Mi alzai, Sabino voleva venire a casa e perciò me lo caricai in spalla. In mezzo alla folla incontrai Cosetta, che per fortuna dei suoi occhi che sapevano leggermi dentro, comprese tutto senza che le dicessi nulla. Arrivammo a casa nostra come fossimo cavalli al galoppo. Mi fermai sulla soglia perché i maschi non potevano stare in casa durante la venuta al mondo dei neonati. Fatta eccezione per il marito. Entrarono solo Cosetta e la nipote della levatrice. Sabino mi chiese di sedersi sulla panchina accanto alla porta e là mi accomodai anch'io. Non aspettammo molto, e sentimmo mamma gridare in modo atroce.
«Non sta andando bene!» Azzardò a valutare mio fratello. «Non ha mai urlato con noi.»
«No, c'è qualcosa...» L'urlo di Palma mi fece scattare in piedi e le grida di Cosetta misero a essi le ali. Fanculo le regole, sorvolai l'entrata e mi diressi sulla porta della camera dei genitori. Ciò che vidi e sentii mi annientò. Papà Pietro era in ginocchio in lacrime a contemplare il figlio appena nato riverso a terra. Aveva un filo di sangue che usciva dalla tenera boccuccia. Gli occhietti, uno aperto l'altro socchiuso, erano vitrei. La levatrice stava in piedi accanto al lette con le mani premute sulla bocca e l'orrore in faccia. Palma era tutta rossa e singhiozzava appoggiata a una sedia.
«Che cazzo è successo?!» Tuonai a Cosetta che stava consolando la mamma.
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