21 - Un altro giorno irripetibile
Ero pietrificato. Mi maledissi per essermi alzato dallo scranno del telaio per origliare la discussione tra la mamma e la nonna.
«Perché non avevi voluto che sposassi Ermete! Io con lui ho fatto il figlio nato dall'amore vero! Ci sono tanti cugini che si sono uniti in matrimonio, perché a me non me lo hai concesso?»
«Zitta! Maledetta! Ermete è mio figlio, non è tuo cugino!»
«Ma mio padre buonanima... uh, Gesù Cristo! Mamma! È mio fratellastro!»
«Abbassiamo la voce!» Sibilò la vecchia. «Non vorrai che Roberto sentisse pure questo! E poi perché l'hai portato, perché scopra che ho tradito il nonno che amava tanto?» Ci Fu una pausa pesante come il piombo. «Quando è nato Ermete l'ho affidato a mia sorella. Perciò capirai che nemmeno lui sa che in realtà non sono sua zia, ma sua madre!»
Il mistero era svelato in tutta la sua completezza. Io ero solo la punta di un ghiacciaio alla deriva nell'oceano di menzogne nel quale navigava la mia famiglia. C'era tanto altro che fluttuava nel torbido. Una sporcizia che non mi interessava più di sapere. Avevo voglia di spaccare tutto.
Senza voltarmi ripercorsi a ritroso la distanza tra la sala oltre la porta della saletta della tessitura. Mi sedetti sullo sgabello e cercai di distrarmi.
Lanciai la navetta tessitrice e nonostante la concentrazione sulla trama che continuava a crescere sotto i miei occhi, rividi come un sogno a occhi aperti la mia mano da ragazzino, potevo avere dieci anni o poco più. Era un ricordo in procinto di riemergere. Strizzai le palpebre e lanciai nel verso opposto la navetta e ancora una volta la mente mi sospinse indietro nel tempo. La manina aveva raggiunto il pomello della porta, dopo aver impuntato i piedi, e la luce delle finestre in fondo alla saletta, che la nonna aveva adibita a scuola, mi aveva colpito assieme agli sguardi di scherno di altri quattro ragazzini già seduti ciascuno sul proprio banco. Respirai con forza. Che accidenti mi stava capitando. La mente sembrava volesse farmi ricordare qualcosa.
Assestai quattro colpi di pettine per bloccare la trama composta e di nuovo lanciai la navetta, e ancora rividi me stesso mettere un piede sul saliscendi per raggiungere la seggiola del mio banco. Accanto c'era Paolo, l'unico che si era degnato di aiutarmi. Con quattro colpi di bacchetta nonna aveva riportato l'ordine in classe, e acuito l'attenzione sulla frase scritta su una lavagna di fortuna affissa al muro dietro lei. "La campana rintocca sovente nell'alto campanile della chiesa, ci osservava severa". La frase era divisa in sillabe, sei delle quali errate.
«Chi sa correggere la suddivisione eseguita da - qualcuno che era presente di cui non ricordo il nome.» Sapevo come aggiustare l'esercizio e così mi ero fatto avanti, ricevendo infine frecciatine e insulti da tutti tranne che da Paolo. Nonna voleva redarguire i disturbatori, ma il fragore del portone d'ingresso sbattuto con violenza le aveva permesso solo di ordinarci di restare in silenzio. Aveva fatto in fretta a svanire dietro la porta. Naturalmente l'avevo seguita. Essendo suo nipote sentivo essere autorizzato a circolare in casa sua come fosse mia. Avevo visto l'ombra di papà Pietro diretta in camera del nonno.
«Oh! Stai qua tu!»
«Che maniere sono, Pietro!»
«Sta zitta tu! E tu!» Si era rivolto al nonno. «Eh! È quella tua figlia?! Eh! È quella, la santa?!» Aveva gridato così tanto da far tremare il pavimento, ma forse ero io, talmente impaurito da quell'urlo che non sentivo salde le gambe. «L'ultimo non è mio! Non è mio figlio l'ultimo! Avrei dovuto riuscire a bruciarlo!» Sgranai gli occhi come allora. La navetta tessitrice sfuggì al mio controllo, schizzò fuori dalla corsia del telaio e si schiantò al muro.
Nonna e mamma accorsero richiamate dal tonfo. Stavo bene? "Sì", come avrei potuto stare bene? Avevo scoperto di aver sempre saputo tutto, solo che per qualche strano meccanismo della mente l'avevo rimosso.
«La basculante si era inceppata. Ho tirato un po' troppo forte, e così mi è sfuggita.»
«Strano, è da quando avevi meno di dieci anni che usi il telaio, non ti è mai successo.» La perplessità di nonna era esatta, col telaio ero pignolo. Una sola volta avevo sbagliato trama. Per correggere la spanna dovetti sfilare decine e decine di metri di filo dall'ordito. Un lavoraccio che bastò come unico monito a far bene l'arte della tessitura.
Per sorreggere la scusa traballante recuperai la navetta, srotolai il filo di cotone e lo sfilacciai. Sfilacciai anche la cima emersa dalla tela finita e la allacciai con l'altra. La lesione era svanita, non si notava nemmeno la giuntura.
"Se solo fosse possibile riparare altri fili torti con la stessa semplicità." Le lusinghe della nonna mi costrinsero a lasciare in sospeso il pensiero. Era china sulla tela per scorgere la riparazione, ma senza successo.
Strano. Il cuore non batteva forte come avrebbe dovuto. Non per l'analisi accurata di nonna sul mio tessuto, piuttosto per il ricordo del nonno che in seguito alla sfuriata di papà Pietro s'era talmente ammalato che morì dopo mesi di mute sofferenze. Il suo ultimo gesto nei miei riguardi fu insegnarmi a suonare la chitarra, e per Dio, se non ci era riuscito. Mi ripeteva sempre: tieni il tempo, sentilo, seguilo, corri quando corre lui, è come un fuoco, vagli in contro.
Come per dare retta alla volontà postuma del nonno, mi alzai dallo sgabello e abbandonai il telaio. «Dove vai ora?» Chiese mamma intellegendo la mia voglia di allontanarmi.
«Devo.» Non sapevo nemmeno cosa. Sapevo solo che dovevo andare, pur senza una meta verso la quale orientarmi. Non ascoltai più nessuna delle due che insisteva nel saperlo. Avevano passato la vita a sapere troppo, un segreto mio potevano pure sopportarlo. Ero già in piazza e poi sulla strada in discesa, costeggiata dalla pineta. Da sinistra il quartierino rialzato delle ceramiche sembrava osservarmi con tutti i comignoli spenti tranne quello di Mastro Vincenzo dove lavorava Sabino. Non mi importava. Non sentivo nulla. Per nessuno. Tuttavia ero lucido. Ero deluso? Profondamente. Non per l'angoscia d'essere frutto incestuoso non tra cugini ma addirittura tra fratellastri. Di essere nato non me ne sono mai fatto una colpa. Ma la questione era che non aveva una origine la mia delusione, pur essendo in concreto esistente e giustificata da una donna e un uomo innamorati al punto d'avermi concepito. Ero deluso soprattutto da tutti coloro che si erano fatti in quattro pur di mantenere questo segreto. Cazzo! Ero il frutto di un peccato, di una amoralità.
Lontano da Murice tirai un lungo respiro e godetti dell'aria profumata di primavera. Gli odori del verde attorno, profusi dal vento, mescolati al fogliame odoroso, e a quello degli alberi abbandonati a loro stessi, erano diversi da quelli dell'inverno. C'era sempre il profumo della natura, ma il freddo toglieva molto dell'aroma che solo il sole di primavera riusciva a dare. L'unico a non aver subito l'inarrestabile forza delle erbacce era proprio lo sterrato che conduceva a mare. Quella strada era stata sterilizzata anni addietro con continue innaffiature d'acqua marina. Il sale non faceva crescere le infestanti. Di quando in quando, più vicino al litorale, alcuni campi sembravano in procinto di desertificarsi. Questo perché alcuni contadini, scoprendo il potere mortale dell'acqua di mare, l'aveva usata per togliere di mezzo le piante cattive che spuntavano vicino alle buone, ma non avevano capito che quella soluzione non faceva distinzioni tra l'una e l'altra e così avevano perso, com'era uso a dire, "Filippo e il panaro" (cesta di vimini per le cibarie).
Le gambe, tanto per dar loro colpa o merito, mi condussero alla deserta spiaggia del Mar Piccolo. Chissà, una parte di me sperava di trovare gli americani, ma quelli una volta conclusa la loro missione se n'erano andati. Tuttavia, sul bagnasciuga una figura distesa attirò la mia attenzione. Mi acquattai dietro una siepe e lentamente mi avvicinai. Chissà, forse un americano c'era, non che fosse il mio soldato ovviamente, non ero folle da credere nelle coincidenze. Difatti non era lui. Sembrava tramortito, era tutto bagnato. Era biondo e una macchia scura gli lordava il fianco sinistro. Data l'immobilità, mi avvicinai fino a sovrastarlo. Cazzo, stava male e a me non andava di lasciarlo lì senza cercare di aiutarlo. Teneva stretto nella mano una mitraglietta e come avevo immaginato, in ritardo, non appena lo chiamai me la puntò contro.
Avrei dovuto farci l'abitudine: ogni soldato che incontravo aveva l'impulso di fucilarmi prima di chiedermi come mi chiamavo, per dire.
Alzai le mani e distolsi lo sguardo stringendo occhi e denti in attesa della sparo. Alla fine partì un "tlac". Quell'arma era fradicia quanto lui, perciò destinata a non sparare mai più. Tirai un sospiro di sollievo. L'uomo imprecò, o almeno così mi parve, dato che parlava in una lingua diversa dall'inglese che sicuramente non era italiano. Mi ringhiò qualcosa quando gli domandai se stava bene. Aveva gli occhi azzurri, feroci, e mi guardavano con un odio paragonabile solo a quando papà Pietro si degnava di parlarmi.
«Straccione italiano di merda! Che cazzo fuoi! (vuoi)» Ritrassi il mento come se mi avesse colpito il petto con un pugno.
«Parli la mia lingua.» Aveva un accento duro. La specie di croce di Sant'Andrea con le punte piegate a elica mi ricordava una foto vista sui ritagli di giornali che Vuòlt mi aveva mostrato. «Sei tedesco.» Mi salì un moto d'orrore. Quell'uomo, che non poteva superare d'età Sabino, era uno di quelli che uccidevano le persone civili oltre a fare la guerra tra soldati. Immaginavo avessero un segno distintivo che notificasse la crudeltà raccontata da Funiello, invece no. Era una persona d'aspetto uguale a chiunque sulla faccia della terra.
«Noi tedeschi parliamo tutti la fostra (vostra) lingua inferiore, perché siamo superiori, siamo di razza pura, di razza ariana!» Enunciò le peculiarità delle sue origini come fosse abituato a esprimerle da una vita. C'era una tale convinzione e forza di convincimento che mi provocò suggestione. Ai suoi occhi azzurri sarò apparso come un ebete verace, tant'è che si mise a farfugliare nel suo idioma. Con ogni probabilità mi stava denigrando in tutti i modi che conosceva. Oh, sì, avevo ragione, e non si limitò a inveirmi contro, con un gesto rapido estrasse un coltello. Ce l'avevano tutti un coltello, sti stronzi guerrafondai.
Quando me lo puntò contro non ci vidi più. Non so come ci riuscii, ma il tedesco si ritrovò a massaggiarsi il polso dopo che il suo coltello s'era conficcato nel fusto di una pianta grassa poco distante. Il mio braccio teso e aperto. «Tuo braccio di campagnolo è forte.» Mi disse osservandolo in tutta la sua distensione. Avrei voluto rispondergli: "se la paura genera forza, allora in quei secondi ero Maciste".
«Cosa fuoi, uccidermi, forse?!» Ringhiò a denti stretti accortosi che stavo fissando il fianco insanguinato. Cercavo di non ridere a quello scambio di lettera alla parola "vuoi" con "fuoi".
«Sei ferito. Ti do una mano.» Il soldato fece forza suo gomiti strisciando pochi centimetri indietro.
«Non mi toccare, o ti uccido!» Minacciò prima di tossire. Aveva la gola arsa e le labbra spaccate.
«Vuoi un po' d'acqua?» Credetemi sulla parola, non c'era dolcezza nel tono che avevo usato. Tuttavia quello là si sentì tentare.
«Non c'è acqua con te.» Mi disse studiando gli stracci con i quali ero vestito. «Vorresti dare me acqua di mare?!» Scossi la testa tenendo saldo lo sguardo, incurante del bagnasciuga che accoglieva un'ondata più ampia del solito.
«Portami acqua allora, idiota!» A giudicare la combattività che dimostrava, non doveva essere ferito in modo grave. Comunque lo feci scendere a patti: gli avrei dato dell'acqua soltanto se mi avesse mostrato la ferita.
«Sei dottore?» Allungò l'ultima sillaba ridendo a gola secca e aggiungendo altre parole tedesche.
«La vuoi l'acqua o no? Guarda che ti lascio solo e addio!» Feci un gesto col braccio e lui acconsentì a mostrarmi il fianco. Sollevò la camicia color caki e la canotta. Quanti vestiti! Mi dissi. Ne ero invidioso. Poi finalmente lo squarcio sulla pelle mi fece intendere che aveva urtato qualcosa di poco acuminato. Parte della pelle era saltata, ma non era scuoiata del tutto. Necessitava di un rimedio per cicatrizzare la lesione.
Alzai lo sguardo verso la distesa argentata dal mare a mezzo metro da dove eravamo. L'acqua salata era un buon rimedio, ma già bruciava sulle piccole ferite, figuriamoci su uno squarcio largo più di un palmo. Feci una smorfia e puntai il coltello rimasto piantato nella pianta grassa. Era un'aloe, molte volte più curativo delle pale di ficodindia. Ancora una volta dovetti ringraziare gli insegnamenti di Gregorio, malgrado mi avesse odiato aveva voluto lo stesso trasmettermi ciò che sapeva sulle piante medicinali. Chissà perché l'aveva fatto.
«Ce l'hai un nome?» Gli chiesi mentre recuperavo il coltello col quale prelevai una grossa foglia di aloe.
«Non saprai mai!»
«Tientelo allora.» Ribattei secco mentre spellavo la foglia per recuperare il cuore gelatinoso e trasparente. «Mi chiamo Roberto, il mio nome puoi saperlo.» Gli feci il verso del tono duro. Sì, mi stavo prendendo gioco di lui e anche per sapere come l'avrebbe storpiato. Infatti lo storpiò. Anzi, quasi lo vomitò.
«Robearto, un nome teutonico non fa (va) bene per stupido italiano.» Mi avvicinai con in mano l'anima molliccia dell'aloe e lo invitai a sollevare la canotta. Strano, mi ubbidì.
«Bisogna fare subito, altrimenti diventa scuro e non è più buono.» Inginocchiatomi accanto, feci aderire l'unguento naturale alla ferita. Al primo contatto strinse gli occhi.
«Qvanto ci fuole (Quanto ci vuole?)»
«Ti fa male ancora?» Quello rilassò le palpebre e aprì la bocca. Guardò l'impiastro ormai diventato lucido e morbido come gomma.
Sospirò. «Nein. (No.) Il dolore non c'è più.» Gli porsi la mano.
«Cosa fuoi?»
«L'acqua, ti porto dove potrai berla.» Ancora una volta acconsentì a essere aiutato. Stava malfermo sulle gambe, ma non faticava a camminarmi a fianco. Lo condussi nell'angolino dove pressappoco l'anno precedente avevo fatto l'amore per la prima volta con Vuòlt e cazzo come mi esplodeva il cuore! Con tutto quello che stavo vivendo a casa, dentro la mia testa e ora col nemico tedesco, pensare al mio soldato chiariva chi e cosa contava per me. Peccato non sapere qual era stata la sua sorte. Era vivo? Morto? Disperso? Ferito? Sano e salvo a casa sua, in Louisiana? Tra tutte le possibilità gli auspicai l'ultima.
«Dofe hai imparato qvesto (questo)?» Il tedesco indicò il dannato impacco e così mi tirò fuori dal labirinto dei miei pensieri. Gli raccontai di Gregorio e della propensione che aveva per le piante medicinali. Non commentò. Commentò invece quando mi sfilai i pantaloni e scoprì che non avevo niente sotto. Quando terminò di protestare, perché quello stava facendo nella sua lingua, gli spiegai che la sorgente era in mezzo al canaletto che sfociava nel Mar Piccolo. Alla fine si fece convinto.
«Se per te è lo stesso rimanere fradicio tutto il giorno, tieniti i calzoni.» Imprecò ancora, però con i piedi cercava di sfilarsi gli stivaletti, senza successo. Mi accovacciai e glieli tolsi. Il resto lo lasciai decidere a lui. Lo stronzo mi imitò, si tolse pure le mutande. Per conto mio poteva anche scuoiarsi, non suscitava nulla in me nonostante sembrasse un disegno vivente uscito delle porcellane dipinte di nonna Rita. Però mi piacque non essersi lamentato dell'acqua ancora gelida in quel periodo primaverile. Lo invitai ad avvicinarsi sulle rocce dove cadeva l'acqua sorgiva e a metterci la testa sotto spalancando la bocca.
Restammo ammollo solo per bere, poi uscimmo a scaldarci sotto il sole. Notai l'impacco aver resistito all'azione dell'acqua e lui sembrava non avercela mai avuta quella ferita. Mi aspettavo un grazie? Non era proprio il tipo da ringraziare nessuno quello. Era pure taciturno. Carpii la lotta interiore che stava ingaggiando. Non capii però se aveva vinto, fatto sta che esordì: «Non dofefi. (dovevi.)» rivestendosi. Alzai gli occhi giacché stavo accovacciato a sistemare gli stivaletti ai suoi piedi. Mi alzai tenendo teso lo sguardo.
«Io sono tuo nemico. Defi andare via e non dir niente di me. Defi dimenticare tutto di oggi.» Non aspettavo altro che mi dicesse di dimenticarmi di lui, e come un fiume in piena gli vomitai tutte le parole che gli avevo sentito pronunciare. Alla fine aggiunsi: «Sapessi le cose che vorrei dimenticare... Dimenticare è una cosa che non mi riesce bene.»
«Tu hai imparato quello che ho detto nella mia lingua. Ma non sai significato.» Scossi la testa. «C'è qualche difetto, ma, la pronuncia è giusta per essere prima folta (volta). Hai studiato? Eri ricco e hai perso tutto durante la guerra? Ti sei camuffato con stracci...» Lo zittii con un fischio. Stava dicendo così tante cavolate che non riuscivo a stargli dietro. Gli spiegai chi e cosa ero solo per il gusto di deluderlo. Invece mi sorprese.
«Potefi (Potevi) essere un brafo (bravo) soldato ariano del Fürer, invece di pofero (povero) mendicante. Sei nato in posto sbagliato per te e tuo cervello. È sprecato. Se fifefi (vivevi) in Cermania (Germania) potefi fare molto nella fita. (vita.)»
Non avevo mai supposto d'esser nato in un luogo sbagliato. Di tutto ciò che mi aveva detto, quell'ultima cosa fece breccia nella mente. Ma ormai ero nato dov'ero e nulla avrebbe cambiato il corso della mia esistenza. Murice era la mia casa per sempre.
Mi separai dal soldato con un senso di colpa inatteso. «Vuoi che ti procuri del cibo?»
«Ascolta, ragazzino. Purtroppo per me e il mio esercito le cose stanno andando male. Gli americani e gli inglesi ci stanno respingendo da ogni parte d'Italia, però...» Non sapeva come dirmi che gli altri tedeschi in ritirata uccidevano civili infischiandosene del codice militare. «Tu, ora, fa (va) a casa se ne hai una. Non percorrere la strada principale se passano le automobili. Fa in un percorso dofe (dove) è difficile, mi capisci? E se trofi un soldato come me, scappa! Mi capisci?»
Più delle raccomandazioni, era stato l'abbandono dei modi arroganti a farmi capire che quello era un ragazzo, non solo un soldato. Aveva un animo giusto, anche se sepolto sotto il groviglio spinoso dei folli ideali che il suo popolo gli aveva inculcato. C'erano persone giuste tra loro. Un giorno, di là da venire, la storia mi fece il regalo d'aver avuto ragione. Anche tra i tedeschi c'erano persone buone in quel periodo buio.
«Torna a casa tua anche tu.» Non rispose ma trovò la dignità di porgermi la mano e io gliela strinsi. Di lui poi non seppi più nulla.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro