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2 - A Sabino ci penso io

Il mio imbarazzo gli scatenò una risata, ma come potevo confessargli che non avevo conosciuto nessuna ragazza? Per fortuna Fernando ebbe pietà e mi giustificò. «Nun ci pensà, ancora è subbito pi 'tte! (Lascia stare, è ancora presto per te!)» Mi disse e rise di nuovo piegandosi in avanti. Vederlo divertirsi a mie spese non mi indispettì, però gli timbrai la schiena con un buffetto.

Ma era più probabile che avesse virato l'attenzione su Filomena, che in quel momento stava stendendo i panni al sole fuori casa canticchiando. Si era fatta notare sulla nostra sinistra, mezza nascosta dal terreno incolto dove facevano capolino cespugli di pino. Il filo di ferro sul quale stava sciorinando univa il ramo dell'ulivo più prossimo all'angolo esterno dell'abitazione, agganciato a uno sperone di ferro che spuntava sgraziato. Era allentato, ogni panno aggiunto lo faceva incurvare sempre più. Altri alberi di ulivo, abbandonati a se stessi, si contendevano lo spazio restante pur non coprendo la vista della padrona. Mi accorsi dell'acuirsi dell'attenzione di Nando quando Filomena si era piegata a raccogliere le robe dal cesto di vimini messo a terra. La leggera sottana gialla, male allacciata dietro la schiena, mise in bella vista ciò che a Nando era mancato da più di un anno. Gli si imporporarono le guance rasate. Accennò un saluto con la mano quando Filomena l'aveva notato e salutato per prima a voce squillante, poi la stessa mano me la buttò sugli occhi per impedirmi di assistere a quell'atteggiamento, talmente disdicevole che nemmeno lui poteva incoraggiare. Si potrebbe credere non ci fosse nulla di male pensando di essere al riparo da sguardi indiscreti. Poteva sembrare così perché all'apparenza non c'era nessuno in giro, ma gli occhi nascosti all'interno delle finestre delle case attorno avevano mire a lunga gittata e lingue ancora più estese. Tutte quelle buone maniere, confuse col valore dell'onestà, erano regole arcaiche che Filomena infrangeva spesso e volentieri. Sapevamo tutti delle sue uscite notturne alla ricerca di compagnia per puro piacere personale.

Ammiravo il suo senso di libertà. Se ne fregava di tutto. Era una onesta donna di piacere priva di ipocrisie. Com'era diventata così? Non per sua scelta, anche se la vocazione al libertinaggio era stata sempre palese in lei. La morte dei genitori, avvenuta nello stesso anno a causa del morbillo contratto in età adulta, aveva fatto sì, che radicassero in lei certi desideri. In un certo senso l'avevano liberata dal giogo del perbenismo. Una volta orfana e abbandonata dal fidanzato, era stata pure additata come colpevole della disgrazia che le si era abbattuta contro. Anziane dalle lingue velenose sostenevano che avrebbe dovuto morire anche lei, ma la robusta costituzione di Filò l'aveva resa immune alla malattia. E così, emarginata, decise di dare verità a quelle voci che la dipingevano come svergognata. Voci alle quali già immaginavo Nando dare ragion d'essere la notte seguente stessa.

Tolse la mano davanti ai miei occhi dopo aver raggiunto una certa distanza, secondo lui di sicurezza, forse per preservare la mia innocenza. Un gesto che apprezzai, anche se in tutta onestà la mia ammirazione per Filomena era puramente ideologica. Volevo dirglielo, ma non era la cosa più importante, di ben altro dovevo metterlo a parte e non attesi un secondo di più.

«Sabino è a casa.» Sospirai fingendo interesse per la caverna che segnava la fine della strada verso casa. Nando intercettò il punto che stavo osservando, ma meno di me mostrò interesse dal momento che esultò.

«Sabino è già a casa?!» Mi dolse il cuore il suo entusiasmo. Sabino era il secondo fratello, quello che per età si era aggiudicato la maggiore preferenza e svelargli il precario stato di salute in cui versava ferì me per primo. Strada facendo salimmo il lieve pendio sterrato. La grotta che sembrava una bocca animalesca spalancata era già un ricordo.

«È tornato dopo pochi mesi la partenza. Ce lo hanno portato con la macchina con la croce», Gli dissi e tanto bastò perché comprendesse. Si incupì. Allungò il passo e a fatica riuscii a stargli dietro. L'avevo così allarmato che quasi ignorò Gregorio che se ne stava a raccogliere susine dall'albero accanto al terrazzino del pozzo. Quello, sorpreso dell'apparizione di Nando, si toccò il braccio sinistro. Lo faceva da un po' di tempo e alla lunga aveva cominciato a infastidirmi. Che razza di reazione era quella? Fernando era tornato a casa, meritava più di una faccia sbiancata e le braccia quasi conserte. Si era girato dalla nostra parte come fosse un favore. Lo sguardo abbacchiato mi fece intendere che papà era già brillo e che aveva agitato la cinghia, anche se dubitavo lo avesse colpito. Strinsi i denti.

«Oeh! Gregò!» Nando fu già fin troppo generoso a rivolgergli la parola e non badò al cenno di risposta. Quanto a me, ero deluso e sono sicuro che me lo si poteva leggere in faccia. Seguii il maggiore lungo i bassi pilastri bianchi di calce e imitai il passo svelto. Quasi non sfiorava le piastrelle incassate nello sterrato; piantate lì con la pretesa di abbellire l'entrata di casa. Quando Nando scostò la tenda di panno ormai era troppo tardi. Non ero riuscito a dirgli che Sabino era allettato con le gambe mutilate. Mi bloccai all'entrata e inarcai la schiena, per la stizza mi diedi dei pugni ai fianchi e mi maledissi. Inutile, ormai Nando era entrato come una furia, aveva anche ignorato la gioia di nostra madre e le sue benedizioni.

Quando entrai, lo sguardo severo di papà mi rallentò ancora di più. Ai piedi aveva il secchio d'acqua che Nando aveva finito di trasportare al posto mio. Temendo che lo rovesciasse con un calcio, chinai il capo e lo misi al sicuro da lui.
«Manco l'acqua sei capace di portare!» mi disse ostile, con la bocca semiaperta, aggravata dalle guance cascanti e arrossate dal troppo vino tracannato di primo mattino. Mi mortificò quel "manco", espresso con la certezza assoluta che non avessi fatto nulla dacché ero sveglio. Eppure era consapevole, malgrado l'ubriachezza perpetua, che era sua la colpa se non potevamo attingere l'acqua dal pozzo che avevamo nell'orto. Ma non potevo rinfacciarglielo. Non si poteva dire nulla al capo famiglia, perché qualunque cosa facesse o dicesse era legge, un dogma, una regola inviolabile. Per me era una forma di dittatura socialmente avvelenante.

Perciò no, non potevo rispondere e anche se avessi potuto, lui avrebbe distorto tutto a misura del suo astio nei miei confronti. Perché sì, per quanto avessi voluto fosse diversamente, ero il bersaglio di ciò che covava nel cuore. Se mi ero chiesto il perché di tutto quell'attrito? Sì. È stato il dilemma che mi ha accompagnato da sempre, un dilemma che rivolgevo a tutti, a mia madre, ai miei fratelli a mia nonna, anche se nessuno sapeva la soluzione. Quel mistero era come una belva letargica, a volte si svegliava e mi tormentava, altre si assopiva e mi faceva vivere un paio di giorni serafici. In qualsiasi circostanza però finivo sempre sconfitto dai miei pensieri, come quella mattina. Tolsi davanti agli occhi la figura paterna ubriaca e inquadrai l'unica finestra, dove nella luce navigavano sospesi granelli di polvere sotto la quale mia sorella Palma se ne stava assorta a cucire e rammendare. Anche quella, come Gaetano, non batté ciglio nel rivedere Nando. E quando disse: «oggi non ci sarà da mangiare a sufficienza» non potevo darle torto. Se aveva detto quella cosa infelice era perché lei si occupava del pranzo, visto che non poteva fare altro giacché nata con una deformazione al piede sinistro e camminare le causava sofferenza. Però passai ugualmente a rassegna il contenuto della dispensa. C'erano ancora delle fave e lenticchie. La farina nel cassetto poteva bastare per fare un po' di pane o della pasta, poi c'era la frutta dei nostri alberi. Ma non c'era nulla di più sostanzioso da offrire a Nando.

Avvilito della scarsità delle ricchezze commestibili, guardai le pareti scrostate della casa. Era vecchia, per metà in tufo e il resto scavata nella roccia del costone al quale era incassata. Il tempo non aveva mutato l'aspetto originale della stalla che era una volta, ma io la vedevo come una prigione.

Quante cose avrei voluto pensare a riguardo, ma lo sgarbato sbattere del bicchiere di coccio sul tavolo mi obbligò a rimettere a fuoco la realtà, una realtà che aveva i contorni di mio padre che mi fissava ripugnato. Proprio una dura realtà, la stessa che Nando stava affrontando conoscendo la sventura di Sabino. Speravo non la trovasse scomoda, specie in quel momento di bisogno, sottolineato dalla puzza che aveva investito tutta la casa. Ripresi lo stesso secchio, mi armai di stracci puliti e oltrepassai l'ultima tenda che riparava la nicchia dove Sabino stava ricevendo il fratello maggiore. Mi sorprese il sangue freddo di Nando, malgrado l'aria irrespirabile. Parve pure non considerare ciò che mancava oltre le ginocchia di Sabino. Era concentrato a parlargli mantenendo alto l'umore. Lo vidi stringergli il braccio con una mano. Nel volto il bisogno di trasmettere un po' di allegria allo sfortunato. In silenzio e con lo sguardo basso, mi avvicinai timoroso di interrompere la loro complicità. Di fatti Sabino stava rispondendo tutto sorridente e mi piacque, anche se non articolava bene le parole perché non aveva più parlato dopo che quella granata gli aveva cambiato la vita. Con me si limitava a chiedere ciò che il mio intuito non afferrava circa i suoi bisogni. Ed era l'unica cosa che potevo fare per lui.

Lavargli l'imbarazzo corporale che lo mortificava continuamente perché non più autosufficiente mi disgustava, non lo nego, ma potevo sottrarmi a ciò che credevo essere un obbligo? Anzi, un qualcosa che andava fatto e basta, senza pensare a nulla perché nulla sarebbe stato sufficiente per riscattare l'ingiustizia che aveva subito.

Avrebbe dovuto essere un compito di mamma? Certo che sì, in fondo era di suo figlio che si trattava. Ma erano troppe le lacrime di mortificazione che le ostacolava la buona volontà materna. E Gregorio? Pure. Avrebbe dovuto proporsi di tanto in tanto a sporcarsi le mani, ma se la svignava sempre. In quanto a Palma, nemmeno a considerarla, le faceva schifo pulire il culo al fratello e non si curava di vergognarsene, mentre Cosetta, l'altra sorella, era l'unica a concorrere con le faccende, avrebbe volentieri pulito l'intimità di Sabino, ma Sabino non la poteva soffrire. E alla fine, malgrado la convinzione di non essere all'altezza, ero sempre io a seguire scrupolosamente le indicazioni insegnatemi dalle crocerossine che avevano avuto il buon cuore di riportare a casa nostro fratello ancora vivo. Gli cambiavo pure le fasce ai monconi. E anche così avevo l'impressione di mancare in qualcosa.

Le eccezioni quel giorno non finirono di sorprendermi. Sabino si era fatto assistere con la presenza d Nando, quando già a forza tollerava la mia, solo perché costretto. Riconobbi a Nando il merito della sua ritrovata serenità. Quello agitato invece ero io che mi sentivo indagato dallo sguardo di Nando. Era attento a ogni mio gesto, di contro per pudore non incrociavo lo sguardo con nessuno. Mi sentivo esaminato. Poi il fruscio della tenda chiusa da mamma mi rubò la concentrazione. Anche lei, seppur moralmente, stava assistendo alle cure. Apprezzai la sua accortezza sopraggiunta nel momento in cui dovevo lavare la virilità di Sabino. Rimanemmo in tre al riparo nella nicchia illuminata dal lucernario sopra le nostre teste. Ma anche così il mio imbarazzo era palese. Farmi carico dell'intimità di Sabino per restituirgli una igiene dignitosa, mi mortificava. Però diversamente non si poteva fare e l'alternativa di infischiarmene mi disgustava di più. Ma ancora una volta Nando venne in mio soccorso un attimo dopo aver finito. «E il "bagna-cosce" per le femmine è a posto!» Alleggerì la mia tensione facendo pure ridere Sabino. Sabino. Aveva gli occhi che parlavano, erano azzurri come il cielo d'estate e più luminosi con Nando vicino. Le battute di spirito cameratesco del maggiore crearono un'armonia che non ricordavo essere mai esistita tra noi. Si diceva che la ricchezza di allora consisteva in quanto fosse piena di cibo la dispensa, io in quella nicchia di una stalla intravidi la brillantezza del vero tesoro.

«Porta subito fuori quella merda!» tuonò di colpo papà col tono da ubriaco completo. «Che schifo!» sputò. Era riuscito a sporcare quel qualcosa di irripetibile, chissà se se ne era reso conto. Se sì, chissà quanto grande era stata la soddisfazione. Quella protesta era una sassata diretta a me, ormai lo sapevano tutti in casa che ero il bersaglio di quell'uomo. Lo potevo sopportare, ma mi sarei ribellato se avesse mirato ai miei fratelli. Anche se ero l'ultimo nato e la protezione fraterna mi aspettavo dovesse essermi offerta dai più grandi, non avrei permesso a quello là di infierire su nessuno di loro. Ammetto di essere stato sempre pronto a reagire se si fosse verificata quella evenienza.

Quando svuotai e ripulii gli orinali di tutti, bruciai salvia e rosmarino nel camino, e finalmente la casa tornò ad avere il suo odore tipico. Solo a quel punto mamma si avvicinò. Le lasciai la scena, radunai gli stracci igienici, e prima di svanire oltre la tenda Sabino mi chiese della liquirizia. Annuii, felice di essergli ancora utile e mi avviai verso la porta dove finalmente Cosetta fece la sua comparsa. Fu provvidenziale, non solo perché era lei che lavava i panni, ma anche perché dovendola accompagnare al canale per tenerla sotto controllo, potevo essere puntuale con Paolo che moriva dalla voglia di fare il bagno. Nell'uscire scansai un calcio dell'ubriacone e incrociai Gregorio che stava rigirando tra le mani una carta. Sembrava volesse dirmi qualcosa, ma non ci riuscì. Non lo forzai, lo salutai e mi defilai precedendo Cosetta che arrancava con il cesto dei panni sporchi.

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