Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

19 - Quante cose che non so di me

Quanto doveva succedere accadde il nove settembre, sei giorni dopo aver visto Walter per l'ultima volta. Erano le diciotto e dal mio terrazzo potevo vedere all'orizzonte brillare la morte sopra la linea argentata del Mar Piccolo. Il silenzio delle vie di Murice assorbiva con un certo ritardo i rimbombi delle esplosioni, ma già dai primi echi qualcun altro, che come me possedeva un terrazzo alto, assisteva al corso dell'evento. Altri sprangavano porte e finestre, se ce le avevano ancora.

"Walter è lì! Il mio soldato, Dio, non ti ho mai chiesto un cazzo, ma per piacere fallo campare!" La mia prima vera preghiera sentita con lo stomaco e altro non potevo fare. Avevo zappato tutto il giorno, avevo le braccia stanche, e assistere a quei lampi veloci distrusse il resto del corpo. Non sentivo più nemmeno fame. Rimasi immobile, anche dopo il passaggio a bassa quota di tre aerei. Non sentii neppure i loro boati, e non feci caso allo spostamento d'aria che per poco non mi sospinse oltre il basso parapetto della terrazza. Sentivo il vuoto dentro. Non avevo più sangue, ossa, aria, pensieri, nulla. Oh, si, un pensiero solo mi aggredì, quello d'aver trattato male Vuòlt prima dell'addio. Poi si aggiunse l'immagine del suo volto, così vivido da cancellare la linea di fuoco tra cielo e terra. L'espressione malandrina, gli occhi grigi intensi e il particolare che fino all'ora avevo voluto ignorare: la minuscola cicatrice sul labbro inferiore. Avrei dovuto chiedergli come se l'era procurata. Tardi, era troppo tardi ormai. E poi com'era fatto lui, come in poche ore mi aveva inquadrato, sapeva ciò che pensavo senza chiedere e io non ero stato in grado di ricambiare. Nulla. Nulla di ciò che mi aveva offerto.

«Robbé! Roberto! Entra dentro, è pericoloso!» La voce di Cosetta faticò a insinuarsi nella distorsione del mio malanimo a occhi sbarrati. Era giù nel cortiletto di fronte casa ma la sentivo lontana. Ci volle la mitragliata del quarto aereo per destarmi. Schegge d'intonaco mi bersagliarono le braccia. Per poco non cadevo sotto nel cortile. Allora sì, che udii strillare Cosetta assieme al dolore. Anche se quello fisico impallidiva rispetto a quello inferto dal presentimento che Walter potesse essere morto. Eppure era una eventualità palese, ma allora perché mi aveva sconvolto come se ne fossi stato ignaro?

Indietreggiando malfermo, raggiunsi l'albero di fico, dove mi acquattai a osservare gli aerei dirigersi all'orizzonte. Distolsi lo sguardo e tirai un pugno al porticciolo di legno che chiudeva il nascondiglio degli attrezzi di Gregorio. Si spaccò in tre assi che rimbalzarono vibrando attorno l'orlo del buco di pietra. Con un briciolo di rabbia avevo distrutto il manufatto di mio fratello, mi dispiacque ma ne ero appagato. Avevo scoperto di sopportare meglio il dolore fisico invece di quello incorporeo, tuttavia una voce dentro mi diceva che non era il modo giusto per affrontare gli eventi che stavo vivendo. All'ennesimo richiamo di Cosetta, mi decisi a scendere dal terrazzo. Prima però risistemai alla buona i pezzi di legno sopra il nascondiglio. Mi ripromisi di ripararlo.

In casa trovai negli occhi di mamma, Palma, Cristina e anche di papà, la comprensione di quanto stava succedendo. L'ammissione silenziosa d'aver detto la verità in chiesa: che la guerra era vera e stava là, all'orizzonte non troppo lontano da noi. La paura fu così tale che mamma svenne e durante giorni seguenti abortì l'ennesimo fratello.

L'attacco al porto di Taranto durò poco meno di due giorni, Dio solo sapeva come si era svolto. I futuri libri di storia avrebbero svelato con un certo ritardo il nome dell'operazione: "slapstick", ceffone. Era stata giudicata come un'operazione di poco risalto nella scacchiera della guerra mondiale, perciò era calato un cono d'ombra. Per noi però era vita vera, anzi, vera lotta per la vita anche se eravamo civili, disarmati e dimenticati dal resto del mondo.

«Cosa succederà adesso?» Mi chiese Cosetta la mattina di due giorni dopo.

«Tutto ciò che sapevo è successo. Non ci resta che aspettare quel che sarà.» Le risposi mentre vangavo la terra più per scaricare le emozioni che per utilità.

«Chi li ha chiamati questi americani?» Poteva sembrare una domanda ingenua, ma Cosetta non lo era. Sapevo cosa voleva capire.

«Sono venuti di propria volontà, ma prima devono far capire che sono dalla nostra parte. Non sono angeli però. Se un americano si troverà a scegliere chi salvare tra cento italiani o uno solo di loro, salverà un suo connazionale. È la guerra, ognuno pensa al proprio gregge.» Bloccai l'ennesima vangata per studiare il volto di Cosetta. Quant'era bella seduta sotto l'albero di fico a meditare su quanto le avevo detto.

«E quando finirà la guerra, a noi chi ce lo verrà a dire?» Non aveva torto. Murice era tagliata fuori dalle comunicazioni. Non funzionava più nemmeno il servizio postale.

«Non credo che la guerra possa finire dappertutto nello stesso momento. Se finirà, avverrà un po' per volta, credo una città dopo l'altra.»

«E Nando? Credi che se la caverà?» Quanto avrei voluto dirle che comunque fossero andate le cose, nostro fratello non sarebbe più tornato. No. Avevo promesso di non dirlo a nessuno; che peso però.

Molti giorni dopo scoprii di non essere stato il solo a sopportare un fardello particolare. Nel mantenere il proposito di riparare il porticciolo del nascondiglio degli attrezzi di Gregorio, notai sepolto tra i sassi nel fondo del buco, alcuni fogli di carta da zucchero; un pallido ricordo di quando c'era ancora il negozio di alimentari giù in piazza. Non li avrei considerati se non ci fosse scritto qualcosa sopra, soprattutto se non avessi riconosciuto la calligrafia di Gregorio.

Avrei dovuto non leggerli? Forse. Alla fine però, feci bene a cedere alla curiosità. Mi sedetti sotto l'ombra del fico e come uno sciocco mi guardai attorno, timoroso d'essere visto da qualcuno prima di leggere. La coscienza, quando si fa sentire, è forte più di qualsiasi muscolo. Sospirai.

"...Lo odio. Mi toglie l'aria. Respiro solo quando si allontana dalla mia casa. Roberto ha pure gli occhi neri, mi pare un demonio. Spero che attiri tutto l'odio del mondo e che lo divori..." Indurii il volto così forte che sentii la cicatrice strapparsi. Non erano pensieri profondi, ma genuini e perciò mi colpirono con più crudeltà. Avevo solo da riflettere su quanto ero stato negativo con lui come fratello. Non avevamo mai litigato apertamente. Allora non ci si poteva esprimere a voce alta. Non era possibile sputare veleno tra fratelli, le regole del rispetto erano sentite. Però Gregorio avrebbe dovuto affrontarmi invece di lasciare in sospeso la questione e bruciare dentro fino a incenerirsi l'anima.

Assuefatto al fiume di risentimento nel quale aveva annaspato Gregorio per tutta la sua vita, mi sfuggì il cambio di orientamento delle recriminazioni. Dovetti rileggere l'ultimo passo quattro volte per ristabilire l'attenzione.

...E poi non doveva nascere! Oppure doveva morire appena nato! Sì, doveva morire come tutti i fratelli che non riescono a nascere dopo di lui... Perché è colpa sua, di Roberto, se papà è cambiato. La mamma oggi mi ha raccontato che papà era gentile, delicato con lei, prima che arrivasse Roberto. Le portava i fiori ogni volta che nasceva un figlio suo. Ma quando è arrivato Roberto non le aveva portato niente, perché lui non è figlio suo..."

«Stronzate!» Esclamai a voce alta ghignando. Stavo decidendo di buttare via tutto, ma ormai c'ero dentro, tanto valeva scoprire fin quanto quello là mi aveva odiato. Mancavano dei fogli, me ne accorsi perché erano numerati.

"...L'altra sera ero uscito per seguirla. Piovigginava. L'ho vista dietro il grande pino prima della strada del canale assieme a quel bastardo di Ermete Peretti Amana che si stavano baciando... Facendo ciò, non ho potuto cancellare dalla mente il fatto che la mamma sia in realtà una puttana..."

«Figlio di puttana!» Sì, cazzo, mi stavo incazzando e anche innervosendo. Però c'era qualcosa che non quadrava. Com'era possibile che mamma, una Peretti Amana, abbia baciato un altro Peretti Amana? Ciò avvalorò l'idea che Gregorio non sapesse quello che aveva scritto. Oppure scelsi la conclusione che mi facesse meno male.

"È un invertito. L'ho visto ieri notte sul terrazzo abbracciato a Fernando. Che schifo! Che schifo!..." Avevo le vertigini, Gregorio mi aveva visto assieme a Nando. Sentivo la testa presa a morsi. Non aveva torto se avesse inteso che mi piaceva Nando. Per il suo giudizio sottinteso non avevo nessuna giustificazione.

«Poche parole e tutto è cambiato.» Mormorai. Se Gregorio mi odiava, un po' la colpa era mia, ma mai quella di essere nato, per Dio! Nessuno me l'aveva chiesto di nascere. Intesi che tutti i miei fratelli sapevano che ero nato da un rapporto fedifrago di mamma. Non potevo più biasimare papà, o comunque avrei dovuto considerarlo, se mi detestava per essere prova vivente di un peccato, se era arrivato al punto d'esser diventato un alcolizzato. Ma anche se così fosse non lo giustificavo per aver infierito su me. Lui come Gregorio sognava che morissi, ma col cazzo che li avrei accontentati. Sull'onda delle prime emozioni sentivo di dover andare via da casa seduta stante. Nando me l'aveva ripetuto fino alla nausea di lasciar perdere il motivo dell'astio di SUO padre verso me. Però non volevo costruire un futuro, ammesso ne avessi ancora uno, senza essere sicuro d'aver scoperto il vero. Era un amaro pezzo di me che dovevo sistemare in un modo o nell'altro.

Chi era questo Ermete Peretti Amana? Chi poteva dirmelo? Per assurdo pensai proprio a Pietro, ma no. Lui avrebbe ucciso quell'uomo per sanare l'affronto. Ragion per cui di sicuro non lo conosceva neppure. A mamma? Sarebbe stato logico, ma la perdita dell'ennesimo figlio l'aveva inaridita ancora di più, non mi andava d'infierire. Oltretutto non era abituata a parlare tanto con me. Strano, non ne avevo voglia nemmeno io. Sabino? Un po' per la sua condizione di mutilato e un po' per la serenità che stava vivendo con Cristina, era l'unico a meritare di rimaner fuori dalla questione. Palma era una sfinge. Lei aveva sempre sentito la differenza d'età tra noi. Lei prima, io l'ultimo nato, perciò aveva evitato di proposito di stabilire un legame con me. Cosetta era la mia preferita, forse poteva darmi delle risposte, anche se alla fine nessuno più di nonna Rita poteva dirmi.

Quanto si stupì la nonnina a vedermi ogni giorno a casa sua, a notare come tra settembre e ottobre le avevo raccolto tutta la bambagia, bella asciutta - non andava raccolta bagnata altrimenti infeltriva, non filava e addio cotone. Lo notò, altroché se lo notò che stavo più da lei che a casa. A casa facevo sempre le faccende che mi competevano e quelle che Cristina mi lasciava svolgere. Portavo sulla tavola qualcosa da mangiare quando ne trovavo e curavo il frutteto. Poi però andavo via dopo aver salutato soltanto Sabino. Impunemente ignoravo mamma. Lei però sembrava assente, ma non lo era mai. Motivo per cui non tardò a comprendere che il mio silenzio era più forte del suo. Volevo sapesse che avevo scoperto la verità che mi apparteneva, ma non subito.

Alla fine poi cedette chiedendomi «Roberto, vai dalla nonna pure oggi?»

«Sì, c'è da armare il telaio, nonna dice che alla fine della guerra le stoffe di cotone andranno via come il pane. Le ragazze faranno la dote per sposare l'innamorato.» Mi stupii della disinvoltura con la quale le avevo risposto.

«E tu ti sposerai, non è vero?» Aggiunse come pretesto per farmi restare un altro po' a casa, nonostante ero già a un passo dalla soglia. Io non aspettavo altro che compisse un passo falso come quello, tant'è vero che le risposi. «Se non commetto errori.» Prima di svanire dalla porta feci in tempo a veder la sua bocca dischiudersi e la discreta Palma coprire la sua come per soffocare uno spavento. Perché si era allarmata mia sorella? Perché, avendo in presunzione di fatto la stessa madre, anche lei in quanto a intelligenza non era povera come SUO padre. Perciò aveva afferrato il senso di quelle quattro parole. Il risultato del primo sasso lanciato contro il muro del silenzio fu il protrarsi dello stesso fino a tutto l'autunno. Solo papà Pietro sembrava più sereno vedendomi meno in giro, ma anche perché era riuscito a racimolare sufficiente mosto per il suo prezioso vino, che sarebbe durato fino all'anno successivo.

Perché avevo lasciato trascorrere così tanto tempo senza agire come mi ero proposto? Perché nonostante sapessi d'essere nel giusto, il rispetto che provavo per mamma e suo marito, che malgrado tutto mi avevano cresciuto, era così forte che mi agitavo ogni volta che credevo d'aver preso la decisione di fare chiarezza con loro. Così, non agendo, il tempo trascorso lavò via molta parte del mio rancore, e forse non era del tutto un male.

E Vuòlt? Il tempo era riuscito a lavar via anche lui? In nome della mia memoria, che posso sottoscrivere come innaturale al punto da ricordare con precisione ogni filo ritorto col filatoio, ogni altro filo col quale avevo armato l'ordito e caricato la navetta sul telaio, posso garantire che di quell'uomo non avevo dimenticato nulla. Ricordavo a memoria perfino tutte le parole inglesi che mi aveva insegnato e non. A meno che con avessi perso la memoria, Walter sarebbe stato dentro me per sempre. Quanto volevo che tornasse. Ma più il tempo avanzava più il suo ritorno diventava un sogno dal quale svegliarsi al più presto.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro