17 - Come Cristalda
Imitai Vuòlt, mi rivestii con gesti rapidi al limite del contrariato. Avvertivo provenire da lui il peso del dovere, la serietà degli adulti giusti. Non poteva più indugiare con me, ma nemmeno nascondere il malincuore alla fine del nostro strano incontro. «Troppo bello, troppo presto.» Capivo il senso delle sue parole giacché avrei voluto perfino morire tra le sue braccia. E sarei rimasto contento lo stesso. Ma no. Non sarebbe stato giusto. Però mi colmò di attenzioni fino all'ultimo secondo passeggiando sul bagnasciuga deserto. Mi chiese in dettaglio come trascorrevo le giornate. Com'era fatta Murice. Di Paolo, che era a fare la guerra chissà dove; su di lui indagò se fossimo solo amici o se c'era qualcosa di più, e con ciò mi confermò la sua gelosia.
«And when do you go to school? E a scuola quando vai?»
«C'era una piccola scuola, ma la guerra l'ha fatta chiudere. I maestri tutti arruolati e forse tutti morti. Ora è tutto un rudere. A far un po' di precetto c'è mia nonna e qualche suora del convento.»
«It's not okay, you have to go to a real school. Non va bene, tu devi frequentare una scuola vera.»
«Le scuole vere si trovano a Taranto.» Gli indicai l'orizzonte dove i primi palazzoni sorgevano avvolti nel vapore del mare, nel momento in cui terminammo di camminare. Walter socchiuse la bocca, deglutì, sembrava indeciso.
«Okay, guy. Follow me. Va bene ragazzo. Seguimi.» Mi fece entrare nella tenda. L'aria all'interno era viziata, sapeva di polvere da sparo e sudore. Ero agitato. Dovetti attendere che svanisse l'abbaglio del sole negli occhi per mettere a fuoco le sei brandine piegate e impilate in un lato. Poco distante c'erano degli scranni di fortuna sopra cui c'erano grossi bauli di un materiale che non conoscevo; avevano l'aria di essere pesanti, ed emanavano fresco. Una bacheca più in là ospitava scartoffie e un altro angolo era occupato da fucili e supposi altri strumenti da guerra. I tre soldati all'interno stavano armeggiando con strani strumenti, uno addirittura ci parlava. Riconobbi lo scrivano che aveva appuntato il messaggio in codice Morse, lo salutai ma mi ignorò, troppo attento a ciò che Walter poteva ordinargli da un momento all'altro. Walter scelse qualche incarto dalla bacheca, liberò un angolo dal tavolo dove i soldati stavano lavorando e mi invitò a dare un'occhiata.
«Can you read, right? Sai leggere, giusto?» Quando mi mise sotto il naso dei ritagli di giornali e appunti in italiano fu come aprire gli occhi al mondo per la prima volta. Man mano leggevo le notizie, le confrontavo con quelle che ricordavo riportate da Funiello in piazza mentre vendeva le sue merci. Erano vere tutte le storie che raccontava. Vero che sarebbero venuti gli americani su ordine del presidente degli Stati Uniti Roosevelt e del ministro Churchill il 17 gennaio 1943, per contrastare un certo Hitler, che la maggior parte di noi di Murice non conosceva.
Il 19 aprile cinquantamila ebrei vengono deportati dal ghetto di Varsavia. «Che cosa hanno fatto queste persone?» Mi uscì fuori una disgustosa voce tremula.
«Ai tedeschi non piacciono, ma non sono stati presi solo ebrei...» Walter si trattenne dall'aggiungere altri particolari e non insistetti. Avevo il respiro pesante mentre passavo in rassegna gli altri frammenti di stampa e appunti scritti a mano.
Nello stesso mese gli alleati bombardano Grosseto. A luglio era iniziata l'invasione della Sicilia da parte degli americans. «Siete voi! Siete... Ma quanti siete?» Rise della mia ingenuità ma non mi urtò. «Siete venuti qui...»
«Per liberarvi dai tedeschi.» Un particolare che Funiello non aveva colto.
«E perché avete invaso la Sicilia?» Credetti ci fosse un errore, tra liberare e invadere c'è differenza. Ma alla fine no, specie dopo aver scoperto che un certo Mussolini aveva preso in mano le redini del governo e si era alleato così tanto a Hitler che alla fine consegnò il destino dell'Italia alla Germania. Walter vide nei miei occhi la vera essenza dell'ignoranza. Vivere a Murice è uguale a essere tagliati fuori dal mondo. Per la prima volta ne provai vergogna.
Per quanto crudeli fossero le notizie, sarebbe stato un bene conoscerle anche se stavo prendendo coscienza del fatto che Murice fosse stata graziata da tanto male. Walter notò il buio nei miei occhi e mi chiese attenzione.
«Il messaggio che ci hai dato al posto di David è utile per la battaglia che avverrà qui a Taranto. Per questo motivo non voglio che tu ritorno qui, okay buddy?» Mi mancò l'aria, uscii dalla tenda e il sole aggredì i miei occhi da poco assuefatti alla penombra. Dopo un po' una mano gentile mi abbassò il gomito dietro il quale mi ero nascosto.
«Hei, buddy!» Era la voce David. «È da quando ci siamo conosciuti che volevo darti...» No, David non mi stava parlando in italiano, ma nella sua lingua e benché fossi il primo a non crederci, la stavo capendo. Almeno fintanto che parlava piano. Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni una tavoletta di cioccolato e me la porse. «Per te, buddy!» Arrossii fino a farmi girare la testa. A quella cosa dolce avevo legato inconsciamente la più bella esperienza mai fatto in vita, ma lui mica lo sospettava, anzi, nemmeno doveva saperlo. Persi una lacrima e il soldato dai capelli rossi mi abbracciò. Nello stato confusionale in cui versavo temetti che gli americans consumassero la cioccolata baciandosi. Dio, per quella fantasia mi venne così tanto da ridere che contagiai David, anche se un ordine sopraggiunto da Walter mise subito fine al siparietto fisico e mentale - grazie Vuòlt!
Si accigliò notando il passaggio di mano della cioccolata, ma poi ritornò a essere serio come al solito. Il sole troppo aggressivo lo costrinse a rimettersi gli occhiali d'acciaio. Quell'oggetto bizzarro gli conferiva fascino. Intuii che aspettava che me ne andassi nonostante sapesse che volevo restare. Allora rese il distacco ufficiale. Radunò tutti i soldati in riga dinnanzi a me, il rumore degli stivali fecero vibrare il terreno sabbioso, lo sentivo nel diaframma. Nuvole di terra sabbiosa tinsero per un attimo la brezza marina. Sembrava un plotone d'esecuzione pronto a far fuoco, ma no. Quando Walter tuonò qualcosa, del quale distinsi appena il mio nome e i soldati sbatterono a terra un piede con grinta salutandomi col saluto militare, compresi che mi stavano omaggiando. Passai in rassegna i volti di quegli uomini. Erano tutti più grandi e alti di me. Un muro umano virile e determinato nel loro compito. Walter tossì sciogliendo l'incanto che stavo subendo. Fece cenno col gomito e afferrai il suggerimento. Lo ammetto, fu eccitante, sollevare il braccio e rispondere al saluto con la stessa posa mi piacque. Mi piacque ancora di più quando risero rompendo le righe facendo a gara per abbracciarmi e darmi pacche sulle spalle. Gli americans non sono così freddi allora, pensai. Erano pure generosi, ognuno di loro mi regalò una tavoletta di cioccolato. Le accettai tutte e li sorpresi ringraziandoli lungamente nella loro lingua. Ciò mi sconvolse. Avevo assimilato il loro idioma, sicuramente non alla perfezione, ma anche tra gli italiani c'è chi massacra la propria lingua errando a volte la grammatica. Però, ero certo d'aver onorato quei ragazzi in qualche modo.
Era finito tutto, io non servivo più, me ne dovevo andare per forza. Quanto mi spiacque mostrar loro la schiena e scomparire tra i cespugli del bosco. Non mi voltai altrimenti sarei tornato indietro, mi conoscevo bene nonostante la giovane età. Dio, quanto è stato difficile mettere un piede avanti l'altro e allontanarmi. Sentivo una resistenza fisica, benché ero libero di muovermi. Un'attrazione che prescindeva il mondo tangibile. Gli organi nel mio torace sembravano ammutinarsi. Ognuno di essi aveva invaso un posto a piacere meno quello giusto.
Come può una giornata essere fantastica e orribile allo stesso tempo? Mi scoppiava la testa, mi scoppiava tutto e faceva davvero male. Respiravo e soffocavo allo stesso tempo. Superata la strada ferrata sentii Vuòlt chiamarmi. Abbandonato lo sterrato lo individuai al riparo di un grosso albero. Vederlo sortì l'effetto di un antidoto. Tutti gli organi ammutinati ritornarono al loro posto, persino l'aria nei polmoni divenne più frizzante. Gli corsi incontro. Ma lui frenò l'abbraccio che volevo offrirgli. Mi strinse le spalle e le scosse per cancellare la gioia nei miei occhi. Ci riuscì.
«Ascolta buddy, ehm, Roberts! Tra pochi giorni al mare oltre la città ci sarà uno scontro, una guerra molto violenta. Ci saranno portaerei e aerei che bombarderanno tutta la zona per cacciare i tedeschi. Do you understand me? Mi capisci honey? Sarà pericoloso venire qui a pescare, così tu non devi venire, devi giurare!» Lo sguardo d'acciaio che aveva superava quello degli occhiali che teneva infilati nel taschino della camicia.
«Altro che per pescare, io vengo qui solo per te.» Sussurrai con una voce che non mi apparteneva. «Lo so che non ci sarai.» Aggiunsi, ma solo per dimostrargli che stavo accettando il consiglio. Forzai le sue braccia per gettarmi un'ultima volta sul suo petto ma non me lo permise. Mi lasciò andare via così. Sospirai inorridito dall'infinita solitudine che mi attendeva lungo la via verso casa.
«Hei» Mi richiamò dopo pochi minuti, ma non mi voltai. «Hei! Buddy! Apache!»
«Cerca di non morire, soldato!» Gridai continuando a guardare avanti.
«Hei! Rober-to!» Stavolta toccò a lui subire l'effetto misterioso che faceva invocare l'uno la vicinanza dell'altro. Mi raggiunse in volata e mi fece voltare con la forza. Per ripicca opposi resistenza. Vera resistenza. «Lasciami andare!» Gli dissi anche se in vero volevo esortarlo a stringermi più forte.
«Hei! Buddy! Sto andando a rischiare la vita, non merito un portafortuna?»
«Ma che vuo-» Mi tappò la bocca con la sua malgrado lo stessi rifiutando con tutte le forze. E a questo punto mi ritrovo a correggermi un'ultima volta: era quello il primo, autentico, vero bacio della mia vita. Mi reclinò la schiena così tanto che mi dolse per giorni, ma cazzo quanto m'era piaciuto. All fine però mantenni il punto, lo colpì con un pugno al petto. Ed era stato come darlo al tronco di un albero.
«Non farti rivedere mai più, you understand?»
«Penserò a te.» Mi picchiettò il petto con due dita un breve messaggio in codice Morse.
«Non un altro. Che significa?» Protestai ma lui mi zittì.
«Se sarò vivo verrò a cercarti per dirtelo.» Mi voltò come fossi un tronco di legno e mi spinse via non con rancore, piuttosto con un sottinteso incoraggiamento ad andare avanti. In tutti i sensi. Ad affrontare i giorni futuri come avevo sempre fatto, perché Vuòlt aveva capito com'ero.
Quanto mi è difficile ammettere che a questo punto piansi come mai nella vita. Piovve così tanta acqua dagli occhi che infradiciai tutta la camicia. Ancora oggi mi domando dove caspita ce l'avevo tutta quell'acqua salata in corpo. E magari avessi pianto in dignitoso silenzio, figuriamoci, gridavo come un posseduto parole irripetibili. Imprecai e bestemmiai ogni sacralità della vita, scoprendomi così, oltreché povero, anche debole di spirito. Perdono Signore.
Nonostante lo sfogo, nulla mi gratificò di più quando iniziai a distruggere fronde basse degli alberi, scalciare sassi a piedi nudi e poi lanciarli con le mani dopo essermi ferito gli alluci. Mi spaventai di me stesso quando scoprii di saper ringhiare come una bestia. Mi fermai solo dopo aver udito una specie di lamentò. «Cazzo! Ho colpito qualcuno!» Corsi laddove avevo lanciato l'ultimo sasso e senza riflettere mi misi le mani sulla bocca vedendo la lepre che avevo appena ucciso. Aveva mezzo muso insanguinato e gli occhi sbarrati. Strinsi le spalle in profondo atto di vergogna. Ma non durò molto, non avevo pescato nulla al mare, perciò quel giorno portai a casa della selvaggina di fortuna. Distante quattro falcate notai qualcosa muoversi in un buco nel terreno tra le radici di un vecchio fico mezzo secco. Non ero certo, dovetti avvicinarmi per capire che era la tana della lepre dove dentro c'erano sei cuccioli. Non ho dubbi d'esser stato crudele. A mia discolpa però, non provai alcun piacere. Né infierii su loro come sfogo emotivo. A casa c'era la fame vera, era l'unico motivo che mi spinse a stroncare pure le loro vite. Però nessuno poteva convincermi che non fossi anch'io a mio modo un assassino. Di ciò ne sono convinto ancora oggi.
«Prometto che io non vi mangerò.» Dissi per alleggerirmi la coscienza mentre legavo una zampa di ciascuna carcassa con un lembo della camicia, ormai ridotta a una marsina cenciosa.
La pietà che provavo per quelle bestiole ammansì la rabbia, anche se non volevo in alcun modo attendere la rassegnazione d'aver perso il mio soldato. Sperai di non incontrare Filomena al solito punto dello sterrato e invece era lì, sotto un albero di susino selvatico a spigolare qualche frutto tardivo in attesa che tornassi dal mare. Quando mi vide spalancò la bocca e inarcò così tanto le sopracciglia che il fazzoletto rosso scivolò sulla nuca liberando le onde rossicce dei capelli.
«Ce cos'é successu? (Cosa ti è capitato?) Pare Cristalda sobba lu scogliu! (Sembri Cristalda sullo scoglio!)» Eh, non poteva trovare un paragone migliore citando la leggenda dell'innamorata Cristalda che perse in mare l'amato. E tanto pianse che, grazie ad Afrodite, diventò uno scoglio tutto bianco come un abito nuziale, in eterna attesa che egli ritorni. (Non si sa di preciso quale sia questo scoglio, molti paesi costieri se ne arrogano la paternità, ma quello più consono si trova a Vieste dove c'è davvero uno scoglio candido alto venticinque metri.)
Filomena riuscì a smorzare l'amaro che avevo dentro, solo lei poteva percepire il male che mi stava divorando. Non mi diede modo di rispondere, mi porse la mano. «Andiamo, sbrigati! Oggi è domenica, è San Gregorio! Sono tutti in chiesa!» Avevo dimenticato la venerazione del santo che portava il nome di mio fratello morto, presenziare alla messa era un modo per suffragarlo. Avrei dovuto dedicargli una parte dei miei pensieri. Avrei dovuto fare di più, miserere di me, invece avevo in mente solo Vuòlt.
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