Lettere, chicchere e tè
Caro Eric;
Non pensavo di dover arrivare a tutto questo, un giorno. Di dover tenere questa penna blu tra le dita, e lasciare che le gocce salate bagnino le guance.
Ricordo i nostri giochi, fin da piccoli. Solo cinque anni di età, eppure posso dire che il nostro rapporto è stato uno di quelli epici, gloriosi. Una strada che, lo so, non avrei potuto percorrere con nessun'altra persona che non sia tu.
Eri e sei tutto l'universo. Sei stato più di cento cose in questo percorso, e non posso credere di aver rischiato di perderti davvero.
Quando hai detto quelle due parole hai raggelato tutto intorno. Non sentivo nulla che non fosse il cuore palpitante, la rabbia nel petto, e un dolore insopportabile; indicibile. Ho avuto paura che qualcuno avesse dilaniato il fulcro della vita con un'artigliata in quell'istante, e poi ho realizzato che no, fuori ero integra... Il dolore si radicava all'interno in un gruppo di nuvole nere, le linee lucenti a zig zag a spaccare tutta la felicità.
«Devo partire» hai detto, e davvero, non ricordo di aver sentito tutto questo dolore in altre occasioni. Ho risposto al gelo che avvertivo fuori divenendo fredda anch'io, un blocco di ghiaccio e agonia.
«Non è vero» ho risposto quasi accartocciata, una pallina di pelle e cuore tagliuzzato, gettata nel cestino delle bozze di uno scrittore. Così terrorizzata all'idea di non poterti più sfiorare, di non poter più sentire i nostri cuori sussurrare parole al nostro posto, tanto vicini... Così spaventata che il corpo ha risposto da solo.
Sono saltata all'in piedi come un robot, in un baleno. E poi ho sentito il dolore prendere possesso del corpo; dalla testa ai piedi, e questi sono scattati alla velocità della luce, tanto che io neanche ho realizzato davvero cosa stesse succedendo, fino a quando non ho capito che stavo correndo.
Anche il cuore si è allontanato in quel frangente, potrei giurare di averlo sentito rintanarsi da qualche parte per sfuggire a quell'agonia così lenta, così dilaniante. La sentivo prendere possesso di tutto ciò che di buono avevo nel corpo, trasfigurando tutti i colori che possedevo in una tavolozza scura di zone buie. Sentivo la luce che avevo dentro andarsene via, spegnersi; la speranza volarsene via in qualche posto dove aveva ragione di esistere.
Ed ero sola, un involucro di dolore, peggio di quelle dannatissime pellicole dei chupa-chups che non si lasciavano scartare neanche coi coltelli. O quasi. Ora sorrido, quando penso a te che quelle cose le toglievi con i denti, quando ti rivedo arrabbiarti e il secondo dopo già stai sorridendo, incrociando gli occhi con cui non posso fare altro che seguirti in ogni cosa che fai, con la naturalezza con cui le fai tu.
Adoro guardarti quando, con spontaneità, ti sposti intorno a te, a tutti noi. Adoro guardarti in ogni cosa che fai, e in quegli istanti non c'è nessuna singola cosa che possa distogliere l'attenzione da te, perché sento che sei tutto ciò che rappresenta la felicità. I tuoi occhi caldi e le ciglia lunghe... Tu, Eric, sei tutta la gioia che possiedo.
È per questo che, quando mi hanno detto cos'era successo, nel secondo in cui ho saputo che il tuo corpo era volato in aria, sbalzato via da un'auto, io non sono più stata fatta di carne e sangue. Sono diventata cenere grigia che si è aggiunta al dolore che provavo a stare in tua assenza.
E ho pensato che se solo non fossi scappata via da te in quei giorni... Se solo ti avessi dato la possibilità di parlare, di parlarci a vicenda... Saresti riuscito a dire che non partivi più. Che tu e i tuoi cari eravate riusciti a deviare la situazione, che in fondo dispiaceva a tutti lasciare New Orleans, quella città dal bel carnevale che ci piaceva tanto festeggiare sin da piccoli.
Ho pensato di dover caricare la colpa tutta sulle spalle, perché era lì che doveva stare. Che se non fossi diventata così egoista tutto d'un tratto, non avresti avuto quell'incidente nel tentativo di darci quella notizia felice. Perché sapevo, so, che eri felice pure tu.
E posso figurare i tuoi occhi caldi, lucenti di gioia e forse pure adrenalina, nel frangente in cui correvi dove senti forse di appartenere, che sono queste braccia che ora sono poggiate qui, sulla scrivania. Che alla fine tra le tue, di braccia, è anche il posto dove appartengo io. Un porto sicuro, senza onde salate agitate.
Tu, Eric, sei tutta la gioia di un giorno di sole dopo infiniti di pioggia ed uragani. La felicità e l'eccitazione di quando vedi una stella cadente rilucere più di altre. E tu, in questa vita che vivo io, riluci più di due soli uniti.
Per questo ho pregato che ti risvegliassi, più di quanto tu possa credere. E dire che sono stata felice quando hai aperto quei tuoi occhi, è la bugia più grande del secolo. Perché io sono scoppiata di gioia e altre cento cose, rilucente di quello che avverto ogni volta che i nostri occhi si incrociano.
La tua Luna.
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