L'incontro del destino
Erin aveva una passione per il pianoforte più infinita del cielo. Era un metro e sessantotto di pura luce, ma divenne ben presto l'ombra di sé stessa.
Non era un giorno come un altro: era appena ritornata da un viaggio in Spagna. La sua pelle, solitamente d'alabastro, aveva assunto una sfumatura ambrata che le piaceva davvero.
Si sistemò i capelli scuri e ribelli dietro le orecchie, anche se dopo qualche secondo tornarono in disordine. Un giorno di questi mi raso a zero, pensò, non troppo convinta per fortuna.
Il trolley era pesante, non era stata una buona idea riempirlo all'inverosimile, ma non aveva proprio potuto fare a meno di portarsi mezzo armadio. E se poi questa maglia si rompe? Se dovessi perdere i pantaloni? Se un cane decidesse di rubare i miei calzini? Dopotutto, chi lo sa cosa potrebbe accadere in un viaggio?
La sua testa si era riempita di quegli e se...? sempre più assordanti, e così aveva finito per accumulare compulsivamente un sacco di roba. Non sapeva nemmeno come era riuscita a infilare da qualche parte i regali che aveva preso ai suoi genitori.
Ignorava che di lì a poco, sarebbe passato tutto in secondo piano.
Negli aeroporti c'era sempre un pianoforte. Erin aveva preso lezioni di piano fin da quando aveva quattro anni, quando ancora le sue dita erano piccole piccole per muoversi agilmente sui tasti.
Come ogni volta l'emozione le crebbe nel petto appena lo vide. Si avviò a passo leggero verso quello strumento che era come una bacchetta magica per lei. Poteva suscitare emozioni come una poesia.
Si accomodò e cominciò a suonare.
Do re mi fa sol
Fa sol la si do...
Una detonazione interruppe quella magia che si stava creando. E poi fu il caos. Le persone si accasciavano a terra sotto il rumore degli spari, non rimaneva che pregare di salvarsi.
Corse più veloce che potè confondendosi tra gruppi di persone, ogni fibra del corpo adrenalinica. Le urla si mischiavano nell'aria in un chiasso indistinto, c'erano solo terrore e lacrime.
Quando vide l'uscita accelerò, implorando Dio di salvarla. Forse Lui la ascoltò, forse decise di metterla alla prova... Di sopra, un vaso di ceramica cadde da un ripiano, schiantandosi sulla sua mano.
Ed eccola cinque mesi dopo, a Central Park, cercando di dare un senso a quell'evento. Provando a spiegarsi perché proprio quel giorno, quei ladri avessero messo in atto quel disperato tentativo di fuggire col bottino. Per fortuna la polizia li aveva presi, non c'erano state vittime.
Eccola lì, lo sguardo rivolto verso il pianoforte sul palco, e un'ombra scura negli occhi azzurri. La sua mano era guarita, eppure non riusciva a suonare. Ogni volta che sfiorava i tasti, la assaliva un senso di paura e disagio, e doveva rinunciare.
D'improvviso, un ragazzo si avvicinò al piano. Doveva avere su per giù diciannove anni. Capelli scuri del colore dell'ebano e occhi blu come il cielo della sera. Aveva un'aria serena, si sedette al piano con una grazia che Erin aveva visto poche volte, e cominciò a suonare.
Quella musica... Erin provò come una stretta allo stomaco. Non sapeva come o perché, solo che doveva parlargli.
Aspettò paziente che finisse il brano, poi si azzardò a parlargli, le labbra increspate in un sorriso genuino. «Suoni molto bene, lo sai?»
Strano, il ragazzo non l'aveva sentita. O forse la stava ignorando volutamente. Oh, forse gli aveva dato fastidio, oppure non avrebbe dovuto avvicinarsi così tanto, era uno sconosciuto. Gli aveva rubato un momento prezioso?
Lui si accorse di lei solo un minuto dopo. Formò una piccola o con le labbra e le sorrise. Erin non capì. Allora non l'aveva sentita prima?
«Suoni davvero bene» ripeté un po' incerta, ma rimase sorpresa quando il ragazzo spalancò quegli occhi da favola, poi si indicò le orecchie e scosse la testa.
Erin rimase interdetta. Stava... Le aveva davvero detto che era sordo o aveva solo capito male?
«Hai detto che non puoi sentirmi?» scandì bene le parole, indicando prima lui, poi le sue orecchie e facendo no col dito.
Il ragazzo annuì vigorosamente, con un sorriso. Come se le avesse detto che il cielo era azzurro e il sole splendeva luminoso quella mattina. O che la trovava bella.
Di certo, per Erin era così a parti inverse. Gli occhi blu brillavano come stelle, i capelli scompigliati sulla fronte gli davano un'aria... Era abbastanza sicura di essersi presa una cotta. In più, come faceva a suonare così divinamente nonostante non potesse sentire?
Erin lo scoprì un po' di tempo dopo, quando il loro incontro mattutino divenne una consuetudine. Sole o pioggia, erano lì tutti e due, a innamorarsi prima ancora di saperlo.
La ragazza scoprì che il suo nome era Jake. Anche lui suonava il piano fin da piccolo, e lo adorava. Poi un giorno era caduto battendo la testa, e in ospedale aveva fatto forse la scoperta più brutta della sua vita: doveva subire un'operazione al cervello, ma questo gli avrebbe compromesso l'udito al novanta percento.
E così era stato. All'inizio Jake era davvero disperato, il suo mondo di note sembrava andato in fumo. Però riuscì a superare tutto grazie a sua nonna, che gli parlò di come il corpo potesse ricordare i movimenti. Lui capì così di poter continuare a suonare, che la musica era la sua vita e non avrebbe mai smesso.
Erin stette in silenzio tutto il tempo, il suo cuore palpitante nel petto. Se Jake ce l'aveva fatta addirittura senza udito, perché per lei avrebbe dovuto essere diverso? Certo, i loro vissuti erano diversi, ma lei riuscì a comprendere il messaggio del ragazzo. Se voleva suonare per davvero, doveva vincere anche sé stessa.
Si sedette al piano, il suo corpo tutto tremiti e respiri smorzati.
«Calma. Puoi farcela» disse Jake, sforzandosi molto.
Quelle tre parole riempirono il cuore di Erin di gioia pura, le sembrava quasi di poterla sfiorare con le dita. Doveva almeno provarci. Sorrise a Jake, mimando un grazie.
E suonò.
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