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66. SECRETLY

I giorni corsero via, così rapidi, così intensi.

Aver passato quel momento condiviso ci aveva rafforzati, uniti a un livello più profondo ancora. Superare ciò che per me era si era posto come ostacolo insormontabile fu destabilizzante nella sua semplicità e naturalezza.

La notte del mio compleanno avevamo sperimentato la perfezione di coscienza, carne e cuore uniti, indissolubili. Nei giorni seguenti, invece, provammo sulla pelle la realtà concreta del nostro rapporto. Era una realtà composta da piccoli dettagli, tanti tasselli di normalità condivisi nell'arco delle nostre giornate, che ci resero consapevoli di aver toccato una vetta, ma che avremmo dovuto lavorare sodo per poter restare a quell'altezza e ammirare il panorama di cui potevamo godere.

Quella notte non fu l'originale di altre mille copie identiche. Sapevamo che avremmo dovuto mantenere anche spazi riservati a solo due di noi, che le regole le avremmo dovute costruire insieme, un passo alla volta. Eravamo in tre nella nostra relazione e mantenere intatto il nostro equilibrio non era semplice. Non si trattava solo dei momenti che ricercavo con Will, oppure con Edward, ma erano loro stessi gli angoli che a volte sentivano il bisogno di prendere le distanze dal vertice. I due fratelli erano uniti da qualcosa che io riuscivo a malapena a comprendere, e una segreta invidia mi costringeva a sopportare di vederli ridere e scherzare senza di me. Giocavano a carte sfidandosi a vicenda, parlavano insieme di football, basket o di auto che io non conoscevo, oppure borbottavano segretamente tra loro quando volevano prepararmi uno scherzo divertente. Se prima ne soffrivo, con il passare delle settimane imparai che per tenere unito un triangolo come il nostro, periodicamente avremmo dovuto curare lati differenti: solo così saremmo potuti andare avanti.

***********

«Ed», sospirai in un tremolio sommesso.

Contorcendomi tra le lenzuola, non riuscivo in alcun modo a stare ferma mentre i suoi capelli spettinati mi solleticavano la pelle più sensibile dell'interno coscia. Quando la sua bocca si allontanava, allora gemevo per riaverlo; quando si tuffava di nuovo su di me, giocando con la lingua, le dita e il mio misero autocontrollo ormai andato alla deriva, allora nascondevo le mani tra i suoi capelli per non lasciarlo scappare di nuovo. Nella luce ambrata della camera, riuscivo a scorgere i suoi occhi cercarmi. Se il mio contorcermi lo soddisfaceva a sufficienza, allora appariva un lampo in quegli smeraldi che tanto amavo, una nota di divertimento e profonda soddisfazione.

L'unica abat-jour della camera del motel era accesa da tutta la sera, illuminava un soffitto tinteggiato in chissà quale decade, con chiazze di umidità giallognola che ne addobbavano ogni angolo. Seguii con gli occhi la debole striscia di fumo che arrivava a lambire il nostro letto. Danzava sopra di noi, leggera e impalpabile, unendoci con un filo a malapena visibile alla poltrona che ospitava Will. Ci stava guardando, così vicino ma non troppo da permettermi di toccarlo. Uscito di fresco dalla doccia, indossava solamente i pantaloni della tuta, tra le dita una delle sue immancabili Marlboro Rosse. Era bello da togliere il fiato.

Mentre Edward mi dava piacere seguendo un ritmo sconosciuto di lingua e mani, io ancoravo gli occhi in quei due lampi azzurri che parevano rischiarare la penombra della stanza. La sua compostezza si mantenne a lungo. Ci osservava concentrato, come se non gli facesse alcun effetto, come se vederci in quel modo non lo eccitasse. Sapevo che non era così. Ormai, avevo imparato a riconoscere ogni pensiero e sensazione solo dalle espressioni del suo viso. La mano avvicinava alle labbra il cilindro bianco per aspirarne il fumo, ma si bloccava nel suo intento quando sentiva i miei gemiti farsi più insistenti. E più vedevo quegli occhi su di me, e più perdevo il controllo e la ragione.

Non sempre partecipava ai nostri giochi, Will. In silenzio, mi illudeva di farlo se avessi ricambiato il suo sguardo con la stessa insistenza, ma questo non accadeva. A volte, per la frustrazione stringevo con più forza i capelli di Edward e lo attiravo alla mia bocca per fingere che fossimo solo noi due. Allora il suo corpo nudo scivolava su di me, la sua bocca si incastrava con la mia, le nostre lingue a muoversi con un ritmo scoordinato ma familiare, e per quanto lo spingessi a entrare dentro di me premendo le mani sulle natiche, rivendicando il possesso su di lui così come il mio essere sua, non potevo togliermi dalla testa gli occhi di ghiaccio che seguivano ogni nostro movimento. Erano anche quelli che mi portavano a raggiungere il limite. Era incredibile, magnificente nella confusione di emozioni e pensieri che riuscivano ad agitarmi dentro. Eravamo Edward e io a giocare, eppure mai eravamo un duo: Will c'era sempre, con il corpo, con la mente. Ecco cosa faticavo ancora a comprendere: il profondo legame che li univa, la paura di non riuscire ad afferrarlo mai del tutto.

Edward si rivoltò sul materasso e mi lasciò salire sopra di lui. Presi a ondeggiare il bacino per sentirlo riempirmi fino in fondo, la sua mano ad accarezzarmi con insistenza nel punto in cui i nostri corpi si univano. Il piacere saliva a ondate irregolari, lo trattenni il più possibile, velocizzando i movimenti per poi rallentarli, dettando da sola i passi della nostra danza.

«Kat.»

La voce di Will mi richiamò dal buio mondo che stavo abitando dietro le mie palpebre serrate.

Mi voltai subito alla sua richiesta. Aveva appena terminato la sigaretta, abbandonata nel posacenere appoggiato al bracciolo, e il rivolo di fumo si stava esaurendo, proprio come la mia resistenza. Non disse altro, voleva solamente che lo guardassi negli occhi mentre mi illudevo che si sarebbe avvicinato fino almeno a sfiorarmi con la punta delle dita, con le sue labbra sottili, con la voglia disperata che non riusciva più a celare. E invece mi disegnava solo con i suoi occhi, a volte penetrandomi quasi con la stessa insistenza con cui sentivo Edward muoversi dentro di me per ricambiare i miei movimenti, in una domanda e risposta reciproca. Si alzò solo minuti più tardi. Mi raggiunse per lasciarmi abbeverare delle sue labbra, regalandomi un bacio profondo, ossigeno, e solo allora mi abbandonai totalmente.

«Cazzo», esalò Edward appena un istante dopo, quando mi abbassai su di lui. Mi intrappolò tra le sue braccia, stringendomi con energia quando, con le ultime spinte esauste, si lasciò andare dentro di me.

Sorrisi sulla sua spalla, solleticandolo con la punta del naso. Attesi che la pressione tornasse lentamente alla normalità. «Lo dici ogni volta.»

«Ah, sì?» biascicò confuso.

Ridacchiai al suo orecchio, gli baciai il collo con rumorosi schiocchi per infastidirlo perché sapevo che non lo sopportava, e alla fine fu Will a rispondere. «Sì, lo fai sempre.»

«E che cazzo dovrei dire, altrimenti?»

«Mi sembra un'esclamazione più che corretta, però mi fa ridere», dissi in un sorriso tenero.

Occupai il bagno per prima, poi tornai ad avvolgermi tra le lenzuola. Ed mi imitò, lasciando la porta del bagno socchiusa. «Ridi pure. Tra noi due, la più ridicola sei tu.»

«Come, scusa?»

Riuscii a sentire solo la sua risata. Ero appena caduta nella sua ragnatela di scherzi. «Dovrei continuare a parlare tutto il tempo come fai tu? Oh, sì... oh, no... oh, forse... oh, perché... oh, perbacco...»

Quando scovai la sua faccia da idiota apparire dallo spicchio della porta, gli lanciai un cuscino, indignata. Quell'irritante sorriso sghembo non svanì, così mi voltai da Will. «Io non faccio così.»

Picchiettò sulla coscia per richiamarmi a sé. Lo raggiunsi, avvolta dal lenzuolo che avevo appena rubato, e mi rannicchiai sulla poltrona con lui. «Kat, guarda che lo fai davvero», mi fece notare baciandomi sulle labbra. «Ma a me piace.»

La luce del bagno si spense ed Edward tornò in camera con passi pesanti. Uno sbadiglio sonoro, poi un peso non meglio identificato si tuffò sul materasso. Tenni gli occhi in quelli di Will e gli sorrisi, accarezzandolo con cura sulla pelle ispida. Mi avvicinai per unire le nostre guance e sentire il leggero pizzicore della corta barba sulla mia pelle delicata. Gli parlai con un sussurro a pochi centimetri dal suo orecchio. «E a me piace quando mi guardi.»

«Lo avevo intuito.»

Le sue braccia mi strinsero un poco di più, ma non abbastanza come in realtà avrei voluto. Quello era il cenno di timore, la sua insicurezza nel chiedermi apertamente qualcosa che forse credeva eccessivo. «Ah, sì? E da cosa?»

Parlavamo in sussurri a malapena udibili e, anche se ero certa che Edward non si fosse ancora addormentato, avevamo imparato a lasciarci la nostra solitudine condivisa. Gli presi la mano e la posai in mezzo all'apertura della stoffa, spingendola lentamente al seno mentre le mie labbra si posavano con delicata pressione sulla sua gola. «Quando stai per venire, mi guardi... mi cerchi sempre nella stanza.»

«Ti cerco perché vorrei che mi toccassi anche tu.»

La sua mano mi artigliò la carne più morbida del fianco e strinse forte. «Allora voglio che mi chiami», disse deciso sotto le mie carezze, «voglio che mi preghi di raggiungerti, come se non potessi farne a meno.»

Sapere di riuscire a eccitarlo era una sensazione paradisiaca, mi faceva sentire potente e viva, e in quei momenti capivo che cosa provasse lui nel guardare me ed Edward. Non sapevo come altre persone avrebbero chiamato quella situazione, ma per me era amore nella forma più pura e ancestrale: riuscire a provare un piacere condiviso senza nemmeno sfiorarsi, se non con gli sguardi.

Mi spostai con gesti misurati. Percorsi con la bocca il torace vestito solo dei suoi tatuaggi e scesi giù con la lingua, senza indugiare troppo quando lui non avrebbe voluto, quando non sarebbe stato necessario. Lo aiutai a sfilare i boxer e i pantaloni e con la bocca tracciai il sentiero che mi avrebbe condotto verso un'unica meta. Quando sentì le mie labbra cingerlo completamente, emise un sospiro più duraturo, un verso che arrivava dal profondo del suo torace. Allora, alla cieca, mi sfiorava la tempia con la punta delle dita, spostava i ciuffi di capelli che rischiavano di infastidirmi. E io lo guardavo, per tutto il tempo così come voleva, così come desiderava, cibandomi di tutte le sue espressioni di piacere così come prima lui aveva fatto con me. Io inginocchiata ai suoi piedi, così come lui era per me. Quando le sue palpebre pesanti si sollevavano, trovava sempre il mio sguardo ad aspettarlo. La mano che tenevo sul suo ginocchio, lui la raccoglieva nella sua, le dita intrecciate che stringevano e allentavano la presa. Urlava di piacere, Will, ma quella voce potevo percepirla solamente dentro di me.

***

Non era raro che il mattino io mi alzassi prima degli altri. Nonostante le tende tirate, il sole di Miami penetrava sempre intenso e diretto nella stanza, anche se settembre era ormai alle porte.

Con i calzini di Edward che quasi arrivavano a sfiorarmi il ginocchio e una t-shirt di Will, mi mossi per la camera del motel. Presi le pastiglie del mattino, usai la doccia striminzita e dalla tendina in plastica strappata, poi andai a sedermi accanto alla finestrella che dava sul parcheggio. Oltre la strada, oltre le palme, oltre il riflesso del sole, c'era l'oceano.

Adocchiai il portafogli di Will, che di solito teneva dentro i pantaloni per non perderlo. La notte precedente lo aveva lasciato sul mobiletto della televisione. Sperai di trovare qualche dollaro per la colazione. La desolazione che conteneva, però, mi suggerì che avrei dovuto accontentarmi di uno snack da un dollaro dalla macchinetta al piano di sotto. Mentre curiosavo tra documenti e scontrini dimenticati, trovai la cartolina dell'Alaska. Sorrisi. Ogni tanto ne parlavamo, ma erano solo ipotesi su di un futuro che non sapevo quanto potesse essere vicino o lontano. Per esaurire una tale distanza avremmo dovuto procurarci nuovi documenti falsi, e per ottenerli e pagare il viaggio, ci sarebbero serviti parecchi soldi. Iniziare una nuova vita sarebbe stato dispendioso.

Stavo per mettere via il portafogli, quando notai qualcosa spuntare da una taschina interna. Lì dove avrebbe dovuto esserci la carta di credito, trovai una fotografia ben ripiegata. La aprii. La cornice bianca intorno era macchiata dall'umidità e dai segni del tempo. Convinta di trovare una nuova immagine dell'Alaska, o forse una vecchia foto dei fratelli Coleman, mi sorpresi di riconoscere una bambina nello scatto. Aggrottai la fronte, confusa. Era minuscola, stava in piedi forse da poche settimane, con il suo costume azzurro che le copriva solo la parte sotto, rigonfio del pannolino che ancora portava. Scioccata, riconobbi il mio stesso sguardo in quella bambina di appena un anno che giocava sul prato di una grande villa, in mezzo agli irrigatori che le bagnavano i capelli biondi e che tanto sembravano divertirla.

Riuscii a riconoscere la bambina anche senza il segno di quel maledetto pennarello rosso che, con un cerchio perfetto, indicava la piccola cicatrice a forma di stella che deturpava l'infantile pelle rosea. Una cicatrice identica alla mia.

Non avevo mai visto quella foto in tutta la mia vita.

************

Spazio Dory:

ehm......

ehm.......

Ehm.......

Che ci fa quella foto nel portafogli di Will?

Aiuto... aspetto le vostre teorie e vi dico solo che vi voglio bene. Ve lo dico così, giusto per mettere le mani avanti con i prossimi capitoli.

P.S. Sì, come avrete notato, questo capitolo nei contenuti maturi ha dimenticato il romanticismo ahahahah

A preeeeesto!

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