42. UNFAITHFUL
Canzone per il capitolo:
Love the way you lie – Eminem ft. Rihanna
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Prima di Michael, avevo avuto diversi ragazzi, più o meno fissi a seconda del momento della mia vita. Forse non ero mai arrivata ai livelli record di conquiste di Emilie, ma durante i tempi dell'università e anche del liceo mi ero data ben da fare per divertirmi, così come qualsiasi altra ragazza della mia età ha il diritto di fare. Di conseguenza, avevo una precisa idea sulla questione dello svegliarsi la mattina con un uomo nello stesso letto.
Dopo essere stati insieme per tutta la notte, o si fugge via con scuse varie, oppure ci si addormenta nel più breve tempo possibile per evitare di parlare: quest'ultima opzione non è semplice perché bisogna ovviare alle eventuali coccole non richieste, e fingersi narcolettiche non sempre è la soluzione.
Io, dopo la notte passata con Andrew, avevo usato la scusa del bagno: ero rimasta dentro a lungo per lavarmi e lui aveva colto l'occasione al balzo per addormentarsi prima che io ne uscissi. Forse non dormiva ancora, o forse si era davvero addormentato perché stanco dal lavoro, ma almeno potevamo ignorarci senza grossi problemi aggiuntivi. Una coordinazione reciproca da manuale.
Così, alle quattro e mezzo di notte e dopo essere ritornata a letto da almeno mezz'ora, gli occhi erano ancora sbarrati, incapace di dormire o anche solo pensare di provarci. Avrei dovuto aspettare ancora due ore prima dell'alba per rispettare la promessa che gli avevo fatto. Anche se non c'era più ormai l'agitazione, il cuore palpitante, il sangue che era parso ribollire mentre ci eravamo rotolati tra le lenzuola nelle ore precedenti, adesso era la sensazione di estraneità a tenermi vigile e in apprensione, come se Michael fosse stato appena fuori dalla porta e stesse aspettando per entrare da un momento all'altro.
Restai immobile a fissare il soffitto, ascoltando il respiro lento e pesante di Andrew nella mia stessa posizione. Con le lenzuola strette al seno, continuavo a pensare, a riflettere, a rimuginare sulla scelta che avevo appena fatto e l'errore che sentivo di aver commesso. Per lo meno, dovevo ammettere che il sesso quella notte era stato del tutto diverso con lui, niente di lontanamente paragonabile a ciò che avevamo passato a Miami. Nessuna fretta, nessuna freddezza se non l'indispensabile tra due persone che non provano niente l'uno per l'altra. Aveva messo in pratica tutto quello che mi aveva sussurrato all'orecchio nell'ufficio. Andrew mi aveva trattata con riguardo mentre mi spogliava adagiandomi sul letto; mi aveva baciata e accarezzata per tutto il tempo e, anche quando la passione era arrivata ai livelli massimi, non avevo sentito il distacco che con lui avevo già sperimentato. Con tutta probabilità era stato anche grazie al mio stesso comportamento, al modo con il quale mi ero approcciata a lui, di certo più rilassata della prima volta: ormai ero consapevole di quello che volevo e che stavo per fare, avevo capito che sarebbe stato inutile continuare a rifletterci sopra. Tra le braccia di Andrew mi ero abbandonata, lasciando andare anche i sensi di colpa al dopo indefinito.
Ma quel dopo alla fine era arrivato, insieme anche ai sensi di colpa inevitabili. Lo avevo fatto ancora una volta, e per di più questa volta non avevo alcun tipo di scusante: ero stata io a correre tra le sue braccia. Lo avevo desiderato ed ero riuscita a ottenerlo alla fine, e ora sbirciavo il suo profilo rivolto al soffitto e ascoltavo il ritmo regolare del suo respiro, e l'unica cosa alla quale riuscivo a pensare era l'abisso che esisteva tra l'amore per Michael e ciò che mi univa a Andrew. Quello che provavo mentre facevo l'amore con Michael, anche solo una minima carezza, le sue parole, la sola aura che gli vedevo intorno mentre dormiva, quando stavo lunghissimi minuti a guardarlo sospirare profondamente con il viso appoggiato al cuscino... solo quei minuscoli momenti mi davano un piacere immenso. Invece ora, vedere Andrew dormire non mi dava alcuna sensazione se non la voglia irrefrenabile di fuggire da quel letto e sparire dalla sua vista. Possibilmente per sempre.
La mia amica aveva avuto ragione: ne avevo avuto abbastanza di lui; mi ero tolta la soddisfazione senza troppi dubbi per la testa e ora, per la prima volta, mi sentii libera.
Sorrisi di soddisfazione mentre mi alzavo lentamente dal letto e ricercavo le mie cose per la camera; ero felice per lo meno di aver ritrovato il controllo di me e delle mie azioni: di aver ritrovato la vecchia Layla. Avevo sbagliato, ma almeno ero ritornata sulla retta via.
Mi concentrai allora sulle parole di Emilie, sul fatto di non farmi ritrovare nel letto con lui al risveglio, e ritornai con i ricordi al modo sprezzante con il quale Andrew mi aveva trattata a Miami e poi subito dopo. In quel momento, avevo io il coltello dalla parte del manico e avrei dovuto agire, iniziando a punzecchiarlo il più in fretta possibile.
Mi rivestii velocemente senza fare alcun rumore, pensando già a come comportarmi una volta che ci saremmo visti nella hall il mattino seguente. Trovai tutti i miei indumenti sparsi per la camera buia; tutti, tranne il mio perizoma. Lo cercai sotto le lenzuola, per terra, sul tavolo, sul comodino e fin sotto il letto, ma non lo trovai. Stavo già iniziando a imprecare mentre tentavo di prendere le chiavi della mia stanza dal comodino senza farle tintinnare, quando la voce di Andrew mi fece bloccare sul posto. «Cercavi questo?»
Si era tirato a sedere tra le lenzuola e ora faceva ondeggiare il mio perizoma sull'indice. Strinsi la mascella con forza. «Sì, ridammelo.»
Scrollò la testa e mi guardò. «Non hai mantenuto la parola. Te ne stavi andando e non è ancora mattina.»
Lo ignorai. «Non fare l'infantile, intanto ti eri addormentato... ridammelo.»
Si alzò di scatto dal letto completamente nudo e camminò verso di me, stringendo l'indumento nel pugno. «Altrimenti, cosa fai?»
Lo fronteggiai a testa alta, incurante di tutto. «Smettila, voglio tornare in camera mia e quello mi serve.»
Alzò soltanto un sopracciglio: la sfida era appena stata aperta. «Non ti do nulla, e non ti lascio tornare in camera tua.»
«E io invece ci torno lo stesso», risposi caparbia. «Credi che mi importi davvero qualcosa di te? Non ho voglia di stare ancora qui. Vuoi che lo faccia solo per darti il contentino?»
Non c'era più dolcezza, passione nei suoi occhi; non trovai nemmeno freddezza o altezzosità. Riconobbi soltanto rabbia. Gettò il perizoma sul letto e mi prese per le spalle, schiacciandomi violentemente alla parete.
Accusai il colpo inaspettato, che fu forte e quasi mi spezzò il respiro, e lo guardai sconvolta. «Ma sei impazzito?!»
«Tu non te ne vai da qui», sibilò a un centimetro dal mio volto.
Mi lasciò andare, ma io restai cocciutamente davanti a lui. Se mi voleva sfidare, io ero pronta. «Io vado dove cazzo mi pare. Ho avuto quello che volevo da te, ora non mi servi più a niente.»
Invece di rispondermi, premette con forza le labbra sulle mie, provando a baciarmi e cercando un modo per la sua lingua di entrare, ma io riuscii a divincolarmi e lo spinsi con forza all'indietro. «Sei solo un bastardo. Lasciami andare e non toccarmi mai più.»
Alla mia rabbia, però, lui rispose con una mezza risata nervosa. Si fece di nuovo più vicino e mi prese il viso per il mento, stringendo forte le dita. «Ti ho detto che da qui non te ne vai. Devi mantenere la tua promessa.»
Non avevo paura perché il suo sguardo non era minaccioso: mi faceva solo infuriare vedere come cercasse di controllarmi. «E io ti ho detto di lasciarmi andare, o mi metterò a urlare.»
Stavolta, scoppiò del tutto a ridere e si avvicinò fino a sfiorarmi il naso con il suo. «Lo hai fatto per tutto il tempo prima e non mi sembra che sia venuto qualcuno ad aiutarti.»
«Brutto pezzo di merda», gridai prima colpirlo con forza sulla guancia, uno schiaffo ben eseguito che lo prese in pieno, palmo e cinque dita insieme.
Il colpo lo sorprese tanto che mi lasciò andare, così sfilai via dalla sua presa e corsi verso la porta.
«Sarà contento tuo marito quando gli farò vedere questo. Chissà che scusa del cazzo gli inventerai in quel caso.»
Restai raggelata con la mano sulla maniglia e lo vidi con ancora quel maledetto perizoma appeso alle dita. Pensai che Andrew non si sarebbe spinto così in là... ma ne ero davvero sicura?
Assolutamente no.
Tornai allora a lunghi passi da lui; ancora mi stava aspettando davanti al letto, ancora nudo e ancora con quel sorriso irritante che gli deformava il volto. «Non lo faresti.»
«Oh, sì che invece lo farei. Tu sei venuta meno alla parola data e a me non importa un cazzo se tuo marito scopre che ti sei fatta scopare da me. Volevi andartene via mentre dormivo, fare la superiore del cazzo... ma io non te lo permetto.»
Ero furiosa, avrei potuto dargli fuoco soltanto con lo sguardo... ma non era abbastanza. Afferrai il telecomando della televisione e glielo scagliai addosso, ma Andrew fu più veloce: lo evitò e arrivò ad afferrarmi i polsi prima che riuscissi a prendere il bicchiere che avevo appena puntato. Tentai in tutti i modi di divincolarmi, ma mi ritrovai di nuovo premuta contro la parete, schiacciata dal suo peso e annullata dalla sua bocca che atterrò con prepotenza sulla mia. L'unica cosa che riuscii a fare fu di mordere con tenacia il suo labbro inferiore, allora si staccò con una smorfia di dolore. Ma questa si tramutò subito in desiderio e tornò a baciarmi con più foga di prima, facendomi sbattere la testa contro la parete... e il cuore nel petto.
Mi teneva le mani bloccate dietro la schiena per i polsi e con la sua mano libera arrivò a strapparmi la camicetta, facendo saltare i bottoni in un unico gesto secco.
Il mio cervello era di nuovo entrato in black out, perché mentre tra le sue labbra urlavo quanto lo odiavo e quanto io lo disprezzassi, il mio corpo stava reagendo in un modo soltanto, un modo che lui sembrava riuscire a percepire chiaramente: mi stavo eccitando di nuovo. E in qual preciso istante, mentre la sua mano stringeva i miei polsi tanto da provocarmi sicuri lividi in vista del giorno seguente, mentre sentivo i suoi denti alternarsi alla lingua sulle mie labbra, io mi sentii più viva che mai.
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«Lasciami andare», sibilai nella sua bocca.
Nonostante tutto, non riuscivo a stare ferma, non riuscivo a impedirmi di lottare e provare a sfuggirgli, anche se forse era l'ultima cosa che avrei voluto. Desideravo disperatamente cedere ai suoi modi rudi, ma senza logica volevo anche resistergli il più a lungo possibile. Mentre scendeva a mordere con forza il collo per sentirmi gemere, tentavo comunque di divincolarmi. «Sta' ferma.»
«Vaffanculo.»
All'ennesimo insulto, ecco che Andrew mi buttò sul letto, ma non feci in tempo a rialzarmi che lui fu su di me. Io, però, fui più veloce: riuscii a colpirlo di nuovo in volto, di nuovo uno schiaffo sulla stessa identica guancia. E avrei voluto farlo ancora e ancora, perché colpirlo mi dava una sensazione di forza inaudita, di soddisfazione profonda, ma questa volta Andrew parve arrabbiarsi sul serio. Mi bloccò le mani sopra la testa e restò per un istante immobile a guardarsi intorno, fino a che non individuò la cravatta ripiegata sul comodino. L'afferrò e prese a legarmi i polsi.
«Te la farò pagare», sibilai a denti stretti mentre tentavo di muovere anche le gambe, ma erano bloccate dalle sue. Nonostante tutto, lui rideva soltanto dei miei modi irruenti, e rise ancora di più una volta che assicurò la cravatta alla testiera in legno del letto.
Andrew non arrivò a baciarmi sulle labbra, di certo memore del morso di pochi istanti prima. Scese rapidamente sul mio corpo e afferrò la mia gonna per sfilarla via e lasciarmi senza più nulla che non fosse il reggiseno in pizzo bianco e la camicetta ormai sgualcita, aperta del tutto sul davanti. Boccheggiai quando le sue labbra atterrarono improvvisamente su di me, tra le mie cosce dischiuse, quando la sua lingua prese a muoversi con decisione mentre io ormai avevo alzato bandiera di resa per il piacere intenso. Gemetti e sospirai, e poi ripresi da capo mentre Andrew restava lì, a torturarmi con la lingua e le dita. La sua voce soffiò sulla mia pelle umida quando riprese a parlare. «Vuoi ancora andartene?»
«Stronzo», riuscii a esalare in un soffio di voce, e la sua risatina malefica in risposta valse come ricevuta dell'insulto.
Andrew continuò fino a zittirmi del tutto, ma non mi liberò nemmeno quando si fece strada dentro di me con foga e impazienza, come se nelle ore precedenti non avessimo fatto altro.
Lasciò gli occhi arpionati ai miei mentre si muoveva, mentre spingeva con sempre più intensità da darmi il capogiro, e io non volevo togliere gli occhi da lui, dai suoi muscoli tesi sull'addome, dai pettorali che facevano su e giù per il respiro accelerato, dai tatuaggi che iniziavano a mostrarsi lucidi per il sudore che gli imperlava i bicipiti. Mi godetti quella vista a lungo, odiandolo e desiderandolo, fino a quando mi resi conto che il nodo che Andrew aveva fatto alla cravatta era allentato. Non mi chiesi se lo avesse fatto apposta o se si fosse allentato con i miei continui movimenti, ma quando riuscii a liberarmi, lui afferrò le mie mani al volo per impedirmi di colpirlo di nuovo. «Uh, uh, è inarrestabile stasera, signora Martinez.»
Continuava ostinatamente a prendermi in giro.
«Sei un pezzo di merda», rigirai le mani nella sua presa e spinsi le unghie con forza nella pelle più sottile dell'avambraccio interno, fino a vederlo stringere i denti.
«E tu sei una stronza e bisbetica del cazzo.» Si fermò per un istante per incurvarsi verso di me, fino a prendermi di nuovo il mento con le dita. «Non puoi venire qui, farti scopare come ti pare e andartene via. Non te lo permetto, hai capito?»
Penetrò più a fondo con un movimento secco mentre mi afferrava il labbro inferiore tra i denti, dosando la forza abbastanza per ripagarmi con la mia stessa moneta. Stavo letteralmente perdendo la ragione, il misto di rabbia ed eccitazione mi stava dando alla testa e io non riuscivo più a capire che cosa volevo. Così, quando Andrew spostò il pollice fino a premerlo sul mio labbro inferiore arrossato e gonfio dai suoi baci e dai suoi denti, mi ritrovai a intrappolarlo nella mia bocca per succhiarlo appena prima di morderlo. Ma lui, nonostante tutto, lo lasciò lì, rapito da quella vista, aumentando gli affondi di velocità e insistenza per portarci reciprocamente al limite... e io aspettai, fino a quando la sua presa si fece più debole nel momento in cui stava per perdere il controllo, e riuscii con uno scatto dei fianchi a ribaltare le nostre posizioni e prenderlo alla sprovvista. E questa volta fu la mia mano a stringergli il mento e a costringerlo a guardarmi; fui io a dettare il ritmo che volevo, a rallentarlo a mio piacimento per vederlo soffrire e poi godere. All'inizio tentò di riportare la situazione come al principio, ma alla fine lasciò perdere e restò fermo sotto di me, tenendomi i fianchi, le cosce, la vita, stringendo con più forza la carne sotto le dita per farmi gemere più intensamente.
A volte sospirava il mio nome, altre volte erano solo parole confuse che si mescolavano alle mie.
Andrew si sollevò infine per aiutarmi a togliere del tutto la camicia e il reggiseno e mi strinse con un braccio in vita, tenendo il mio ritmo mentre raggiungevo infine il massimo del piacere e lui mi accompagnava qualche istante dopo.
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Quella notte furono graffi e morsi, una prepotenza al limite della violenza. Forse Andrew, la sera del ballo, aveva detto quelle parole solo per conquistarmi, per fare colpo e farmi cedere. Forse è davvero il sogno di ogni donna quello di potersi liberare dalle catene della quotidianità e del matrimonio, trovare uno spiraglio di libertà dalla propria gabbia nella quale ci si era illuse di poter vivere... ma quella notte, dopo i lividi che mi si erano formati sulla pelle per la sua irruenza, dopo le strisce rosse che le mie unghie avevano lasciato sulla sua schiena e sul torace, dopo il dolore che sentivo alla mandibola per quanto avesse cercato di tenerla bloccata... io quella sera avevo finalmente visto che cosa ci fosse oltre la mia gabbia.
Uscii dalla sua stanza molto più tardi, mentre Andrew era chiuso nel bagno. Avevo finalmente ritrovato il perizoma e tutti i miei vestiti sparsi tra le lenzuola, ed ero fuggita via. Erano le sei e la città al di fuori si stava svegliando con l'arrivo del mattino. Ormai Andrew non avrebbe più potuto trattenermi.
Mi odiai per il mezzo sorriso che non riuscii a togliere dalle mie labbra mentre camminavo per il corridoio tenendo la camicetta chiusa con le dita, e mi odiai soprattutto per il fatto di non sentirmi così in colpa come avrei creduto, così come era successo poco prima. Il cuore batteva ancora forte, e se ripensavo a quei graffi e ai morsi, lo faceva ancora di più.
Dovevo ridimensionare i miei pensieri e tornare alla realtà dei fatti.
Mentre restavo sotto la doccia a godermi il getto di acqua bollente, mentre mi asciugavo i capelli, mentre mi vestivo e truccavo in vista dell'inizio della nuova giornata, mi costrinsi a chiedermi che cosa avrei fatto se avessi scoperto che Michael aveva trascorso la stessa notte con un'altra donna. Come mi sarei sentita se avessi saputo che, durante uno dei suoi innumerevoli viaggi di lavoro, avesse passato del tempo con un'altra così come io avevo appena fatto con Andrew. Per poco non ruppi il piegaciglia da quanto lo stritolai nella mano.
Non riuscivo a capacitarmi dei miei pensieri; il fatto di sentirmi in colpa non diminuiva in alcun modo la sofferenza che provavo al solo pensiero delle mani di Michael che toccavano il corpo di un'altra donna. Era egoista, insensato, illogico e irrazionale, ma era anche la pura e semplice verità delle cose.
Quel giorno avrei preso l'aereo nel pomeriggio e sarei ritornata a casa, e l'unico pensiero che mi diede forza fu soltanto uno: con Andrew era finita.
Avevamo passato la notte insieme, lo avevamo fatto più volte e avevamo dato sfogo a tutto quello che avevamo trattenuto da tempo. Ora era arrivato il momento di chiudere la questione. Eravamo persone adulte, io avevo fatto un errore madornale, ma ero determinata a tornare alla mia vita quotidiana, ormai più forte nella consapevolezza di essermi liberata dell'influenza di Andrew. Michael non lo avrebbe mai scoperto e io, con il passare dei mesi, mi sarei dimenticata di tutta quella faccenda.
Al mattino, lo trovai ad aspettarmi accanto all'ascensore, di nuovo indovinando l'orario in cui sarei uscita. Non mi capacitavo di come fosse possibile. Mentre camminavo verso di lui, tenni bene a mente Emilie e le sue parole, ricordai il modo in cui Andrew mi aveva guardata quel mattino fuori dall'hotel di Miami. Non avrei saputo fingere bene come aveva fatto lui, ma avrei saputo inscenare di sicuro la mia parte.
Lo salutai con un sorriso cordiale ma distaccato, fermo in testa il mio obiettivo: fingere che non fosse accaduto nulla e ritornare alla normale routine quotidiana, trattandolo come l'ultimo dei miei pensieri. «Buongiorno, Stevens. Dormito bene?»
Parve sinceramente divertito dalla mia battuta e si passò la mano sul mento mentre io premevo il pulsante per richiamare l'ascensore. «Dovrebbe coprirli, quelli» suggerì invece di rispondermi.
Seguii il suo sguardo, diretto alle macchie violacee che mi arredavano i polsi lasciati scoperti dall'abito color vinaccia che indossavo. Tirai appena le maniche per coprirli.
A debita distanza da lui mentre scendevamo piano dopo piano, controllai il telefono per leggere le e-mail. Andrew fece lo stesso. «Dall'aeroporto hanno detto che l'aereo sarà pronto per decollare alle tre di oggi pomeriggio», mi informò.
«Non vedo l'ora», il sarcasmo era ben evidente dalla mia voce.
«Ancora non capisco perché lei si ostini a volare con l'aereo quando da qui a New York impiegherebbe due ore e mezzo di macchina.»
«Perché volare fa parte anche del mio lavoro e devo abituarmi a farlo. Se mi fermo nelle mie paure, non andrò mai avanti e io preferisco allenarmi su questi brevi voli nella speranza che un giorno mi passerà del tutto la paura.»
C'era un'aria diversa tra di noi quella mattina, più calma e serena; forse eravamo semplicemente appagati, forse avevamo capito che cosa volevamo l'uno dall'altra; o forse, più verosimilmente, eravamo in una temporanea pace dopo la guerriglia inscenata in camera.
«Per lo meno, non si ferma davanti agli ostacoli», fu il suo commento.
Lo guardai di sfuggita. Nonostante la mia indifferenza, mi stava sorridendo... e io non riuscii a impedire alle mie labbra di prendere di riflesso la stessa inclinazione.
«Io gli ostacoli non li supero: li asfalto», affermai sicura.
Mi sorrise ancora di più in risposta, quasi fosse soddisfatto dalle mie parole, e uscimmo insieme nella hall, mai immaginandomi di ritrovare Michael ad aspettarmi accanto alla reception.
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