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2.14 UNFAITHFUL

Maledetto me e maledetta soprattutto lei.

Lei, che mi stava rovinando la vita, giorno dopo giorno, e io non trovavo il modo per togliermi dal vortice inarrestabile che mi stava inghiottendo. Litigavamo, cercavamo di ferirci in ogni modo possibile, mi stringeva all'angolo con le sue parole, e allora io contrattaccavo con tutta la mia forza. L'uomo controllato, sicuro e forte che avevo creduto di essere diventato in anni era improvvisamente scomparso. Non mi ero mai sentito tanto debole in vita mia.

Layla mi aveva chiesto aiuto per le accuse di Pierce, ma io ero stato troppo accecato dalla gelosia per darle davvero ascolto e, riconoscendola debole in un momento tanto delicato, avevo colto l'occasione per affondare il pugnale proprio dove la sua guardia era rimasta più scoperta. Ci avevo provato gusto, ma era stata una soddisfazione solo momentanea. Così, la settimana successiva avevo tentato di fare ammenda, mettendomi in contatto con il suo avvocato per darle l'aiuto che le serviva.

Mi ripetevo che fosse tutto finito in ogni caso, ma la dura verità era che avessi il disperato bisogno di un segno, della dimostrazione che ci fosse qualcosa di più tra noi due e di non essere soltanto il giocattolo con il quale tanto si divertiva quando il marito era lontano e la noia la coglieva.

Nei giorni precedenti mi ero accontentato della compagnia di Madison per scacciare il volto di Layla, alla ricerca di un diversivo per sopperire alla sua assenza. Avrei dovuto immaginare che non sarebbe stato così semplice dimenticarla. Mi accorsi troppo tardi del suo ultimo contrattacco, quando cedetti una volta per tutte. Accadde il giorno in cui lasciò il quadro fuori casa mia. Nonostante il soggetto inaspettato e l'odore dei colori non del tutto asciutti sembrassero spingermi a raggiungerla di nuovo nel suo piccolo e lontano garage, quel dono non valse come segno sufficiente per me. Lei lo capì, quindi continuò la sua avanzata e la stessa sera seguì me e Madison nell'archivio. Non scappò come era successo la prima volta diversi mesi prima. Aveva invece goduto nell'averci interrotti, glielo avevo letto in faccia e sul ghigno incorniciato di labbra rosso fuoco.

Intenzionato a porre fine a quell'esasperante situazione una volta per tutte, avevo aspettato che ritornasse nel suo ufficio per l'arringa finale. «Sei patetica», sputai quando varcò la soglia.

Sobbalzò dallo spavento, ma si riprese in fretta e tornò a fingersi superiore a tutto quanto, me compreso. «Il patetico tra noi due non sono di certo io.»

«Perché non ci hai lasciato in pace giù di sotto? Lo hai fatto apposta, vero?»

«Dov'è lei?» rispose invece.

Le dissi di averla mandata a casa con un taxi. In tutta risposta, a braccia conserte e schiena dritta, Layla ebbe pure il coraggio di ribattere: «Non voglio che tu la veda.»

Volli riderle in faccia, e forse un po' lo feci. «E ora chi è il patetico tra i due?» la provocai.

«Tu sei il patetico, che devi scoparti una di cui non ti importa nulla per non pensare a me.»

Sempre un botta risposta, sempre litigi, sempre uno dei due che cercava in tutti i modi di prevaricare sull'altro. Mai un attimo di quiete con lei.

«Io scopo con chi mi pare e non lo faccio di certo per togliere dalla testa qualcosa che non c'è mai stato. Devi lasciarmi in pace. Ti ho aiutato con l'avvocato, ma l'ho fatto solo per l'immagine dell'azienda.»

Stanco di sentirmi sempre messo in dubbio, stanco di litigare, stanco della sua prepotenza e di quel cappio che si ostinava ancora a volermi mettere al collo, le voltai le spalle, pensando solo di volermene andare... e invece Layla mi corse incontro. Si piazzò tra me e la porta, chiudendola a chiave. «Tu non andrai da lei.»

«Smettila, mi stai facendo incazzare.»

«Incazzati quanto vuoi. Sempre meglio di tutto l'impegno che hai messo negli ultimi giorni per ignorarmi.»

Era così determinata che finii per maledire l'eccitazione che sentivo crescere dentro i pantaloni senza la mia volontà. Avevo aperto la gabbia della tigre io stesso mesi prima, e ora mi trovavo in balia dei suoi artigli e senza alcuna protezione.

«Ti ho già detto che è finita. Basta. Smettila di tormentarmi.»

Mi fronteggiò facendo un passo in avanti. Nonostante le scarpe col tacco mi arrivava poco sopra il mento, eppure con tutta la sua tenacia nel riavermi sembrava un gigante. «Dimmi che non provi niente per me e ti lascerò andare.»

Avrei potuto spingerla di lato e aprire la porta, il tutto senza nemmeno usare un quarto della mia forza, ma i miei piedi sembravano inchiodati a terra e i miei occhi cardini dei suoi. La volevo, ma dovevo ferirla il più a fondo possibile per mettermi in salvo. «Non mi importa di te. Mi fai solo pena.»

Accusò il colpo, lo notai da come socchiuse le palpebre e irrigidì i muscoli volto, ma non feci altro che invogliarla ad attaccare di nuovo. Mi agguantò per il mento, avvicinandosi ancora, e mi trapanò con quei due maledetti laghi cristallini nei quali tanto avrei voluto annegare una volta e per sempre. Li detestavo, perché mi tentavano troppo. «Dillo con più convinzione perché io non ci credo ancora.»

«Non mi importa un cazzo di te e mai mi è importato. Torna da tuo marito: forse lui sa scoparti meglio.»

«Tu sei mio, e io non ti lascio andare.»

Per un istante si fece il silenzio, tabula rasa dentro e fuori dopo quella parola che valse come una pallottola attraverso la mia spina dorsale. Le dita prudevano, sentivo il disperato bisogno di farle male, di renderle tutto il dolore che mi stava facendo patire.

«Io non sono il tuo giocattolo.» La sua presa non allentava, conficcava le unghie nella pelle, e io mi obbligavo a trattenere gli occhi nei suoi per non abbassarli sulla sua bocca e rischiare di cedere alla tentazione. Ribollivo, ma ormai non più solo di rabbia.

Quella parola, lei la ribadì ancora, testarda, convinta, imperiosa, avida dei suoi possessi. Mi sentivo fluire verso di lei, senza controllo, come acqua che non poteva impedirsi di seguire il corso della cascata. Provai a togliermi dalle sue grinfie prima che chiudesse la gabbia con me all'interno, ma la sua bocca cercò svelta la mia, ricordandomi di quanto sapesse regalarmi ogni volta, quanto le sue labbra fossero morbide e perfette tra le mie...

Fu il mio orgoglio messo al tappeto a dare un ultimo colpo di coda. Forse impiegai troppa forza per renderle lo stesso trattamento quando la sbattei contro la porta. Sapevo di averle fatto male, ma lei non disse nulla, imperterrita, perché forse lo desiderava tanto quanto me. Sadica e masochista insieme.

«E tu di chi saresti? Mia? Di tuo marito?»

Disse che lei non era di nessuno con una naturalezza disarmante, mentiva e mi accarezzava le labbra con il pollice. Layla mi guardava... e mi guardava. Intrappolato in quella vicinanza, realizzai quanto lo sforzo di mantenere il controllo mi stesse esaurendo le energie, quando invece abbandonarmi sarebbe stato molto più semplice. Così cedetti, contro ogni mia aspettativa. Stanco, stremato, sotto pressione da settimane, non ero più riuscito a evitarlo.

Tutta la frustrazione che provai nel firmare la mia resa si trasformò in furia quando la feci scontrare ancora contro la porta, ma questa volta per plasmarmi nella sua bocca, quando gemette per l'irruenza con cui le strappai la camicetta. Dovevo vendicarmi in qualche modo e fu esattamente quello che feci con il suo corpo e, sperai, con una piccola parte del suo cuore.

********

I bottoni della sua camicetta tintinnarono sul pavimento, le sue grinfie cercavano di liberarmi della giacca del completo. La baciavo, la stringevo, le graffiavo la pelle immacolata fino a sentirla urlare nella mia bocca che le imprigionava i lamenti... e non avevo ancora incominciato con lei.

Le sue labbra mi inseguivano con la smania di festeggiare la vittoria mentre io cercavo vendetta per la mia disfatta. Le esploravo il seno con le mani scostando il reggiseno in pizzo fino a strapparlo in parte. L'afferrai per le cosce all'improvviso quando mi tirò i capelli alla radice, la caricai di peso sulle braccia per portarla sulla scrivania. Fu lei a spostare tutti i fogli e il portapenne, lasciando precipitare una pioggia frusciante che ricoprì il pavimento tutt'intorno. Gettai il suo corpo sul legno senza alcuna delicatezza e con la stessa ferocia la spinsi giù. Mi inginocchiai per farmi strada tra le sue gambe con impellenza, cieco e senza ombra di autocontrollo. Assaggiai il suo sapore, che già riuscivo a sentire con la lingua attraverso il pizzo dell'intimo, che prese a inumidirsi in fretta alle mie carezze.

La liberai della gonna e del perizoma solo minuti più tardi, quando fu lei a pregarmi di farlo. Leccai quelle dolci e umide labbra che mai mi avevano rifiutato, le accarezzai con le dita e giocai dentro e fuori come se sfogliassi le pagine di un libro che tanto amavo. Abbandonata su quella scrivania e alla mia completa mercé, Layla era stato il mio sogno per mesi, fin dal primo giorno in cui l'avevo incontrata in quegli stessi uffici. Ora stavo vivendo le mie innumerevoli fantasie con tutta la rabbia e l'eccitazione che il mio corpo poteva contenere. La spinsi fino al limite massimo, ma seppi fermarmi appena un istante prima. La mia frustrazione doveva diventare la sua, perché quella sera non avevo alcuna intenzione di fare l'amore con lei. Perché ancora Layla non si era meritata ciò che mi aveva costretto a provare per la sua anima tratteggiata a colori a olio che non riuscivo a dimenticare.

Guidato solo dall'istinto, mi sollevai in fretta e la presi così, entrando in lei con forza, entrambi con ancora i vestiti parzialmente addosso. Perché non riuscivo ad aspettare oltre, perché non sopportavo più l'attesa di stare dentro di lei e viverci per tutto il tempo possibile. Mi bastarono solo pochi affondi per portarla al limite ultimo, e di nuovo mi fermai, e di nuovo ricominciai lo stesso percorso dal principio. Disarmante come ormai conoscessi il suo corpo alla perfezione, come fosse mio. A ogni orgasmo negato, Layla gemeva di frustrazione e cercava le mie braccia per stringermi i polsi e incarcerarmi, ma io mi allontanavo e doveva accontentarsi di aggrapparsi al bordo della scrivania. Mi godevo il dolore sul suo volto, la portai quasi alle lacrime, perché doveva saperlo che quello che provava in quegli istanti era il mio stesso cuore ogni notte in cui lei tornava da Michael dopo avermi usato, quando io restavo solo con il profumo dei suoi capelli sul cuscino e il suo sapore sulle dita.

«Ti prego...» Muoveva le labbra, mi cercava con le mani, ma io fingevo di non ascoltare.

Non sapevo quanto avrei potuto resistere ancora, ma mi sforzai di non terminare la sua agonia... aspettai il più possibile. La feci bagnare ancora di più nel tormento. A ogni affondo le rendevo la rabbia che faceva nascere in me, e dentro di lei mi assorbiva completamente, in ogni modo possibile.

Non avevo più fiato quando le permisi infine di raggiungere l'apice, e mentre si lasciava andare con la testa abbandonata all'indietro e la gola scoperta, mi afferrò i polsi con entrambe le mani. Quelle manette calde strinsero la presa mentre il suo corpo tremava a causa mia. Tutta la furia svanì in un singolo ticchettio dell'orologio a muro.

Le mie mani trovavano appoggio ai lati del suo corpo, flettevo le braccia per chinarmi su di lei e guardarla da vicino. Osservai il suo respiro placarsi, i muscoli che ancora mi circondavano stavano ancora contraendosi, appena percepibili. Fu come svuotata. Il suo sguardo era vacuo quando riaprì gli occhi. Non mi fece domande e non oppose resistenza quando la feci scendere, ma le tremavano le gambe. Il tacco delle scarpe riecheggiò sul pavimento, le tolsi la camicetta senza che lei muovesse un muscolo e la spinsi di nuovo sulla scrivania in posizione inversa. Ora la sua schiena chiara riluceva dei bagliori della città che arrivavano dalle vetrate, tutto buio intorno tranne la sua pelle come neve nella notte. Le divaricai le gambe e con le dita le bagnai l'accesso con cura. Dovette intuire subito quali fossero le mie intenzioni, ciò che non mi aveva mai permesso di scoprire di lei e che mai, nemmeno a suo marito, aveva concesso. In quel momento non pensai, non mi importò... e quella sera non importò nemmeno a lei perché non tentò di fermarmi in alcun modo.

Spinsi il bacino in avanti e mi feci spazio dentro di lei, questa volta con cautela in una lenta avanzata, proprio lì dove le sue pareti mi resistevano con più tenacia. Un'ondata improvvisa di brividi le alzò ogni centimetro di pelle. Mi fermai quando un sospiro diverso le trapassò le labbra. Volevo darle il tempo per abituarsi alla mia presenza, ma lei ricercò la mia mano alla cieca e, quando la trovò, mi chiese di non fermarmi. La sua presa non allentava e mentre ammiravo il suo corpo inerme, mentre mi costringevo a dosare le spinte e intanto impazzivo di desiderio insano e fuori controllo... realizzai una verità. Che Layla aveva avuto la piena ragione. Ero davvero suo ormai, in tutta la mia misera totalità: corpo e non più soltanto quello... ma compresi che l'appartenersi era un legame reciproco. Perché i capi che ci tenevano uniti erano due dello stesso filo e se io ero di sua proprietà, allora significava che anche lei era mia in ogni sua articolata sfaccettatura. Era questo ciò che realmente volevo, appartenersi, perché nella mia vita nessuno mi aveva mai reclamato con tanta veemenza, e mai prima lo avevo desiderato io stesso. Con la sua improvvisa e sconvolgente remissività, quello che mi concesse quella sera mi lasciò comprendere davvero la parte più confusa di me stesso. Volevo essere suo, disperatamente, abbandonando il controllo e la ragione per lasciarmi risucchiare dentro di lei una volta e per sempre.

L'avevo sentita contrarsi intorno a me con sempre meno resistenza, mi aveva tenuto la mano e io avevo trattenuto la sua mentre mi spingeva ad avvicinarsi e mi lasciava un bacio sulle nocche, chiedendomi in cambio solo una debole carezza sulla guancia. Piagnucolò qualcosa tra le labbra socchiuse, mi chiedeva di non fermarmi, e allora il mio nome ritornava ad accarezzarle la lingua mentre io spingevo fino in fondo, scendendo su di lei per bagnarle la schiena di baci umidi, creando una strada lungo la colonna vertebrale fino alla nuca. La sua pelle si trasformò in un deserto di minuscole dune, le sentivo alzarsi sotto la lingua e accendevano ogni mia singola fibra nervosa.

I nostri respiri finirono per intonarsi l'un l'altro, stesso ritmo, stessa tonalità, fino a quando non riuscii più a resistere oltre. Forse le feci del male con l'irruenza dei miei ultimi spasmi, ma lei non lo confessò mai.

Layla si era presa ogni cosa di me, tutto quanto, anche ciò che ora vedevo rilucere sulla sua schiena dopo essermi liberato su di lei perché non ero più riuscito a resistere, perché il prossimo passo sarebbe stato la pazzia.

«Layla», esalai in un sospiro tremulo quando mi accasciai su di lei, la fronte sulla sua nuca alla ricerca di ossigeno e controllo.

Tremava ancora, e io con lei. Riportò la mia mano alle sue labbra, ne baciò il dorso in un gesto così intimo e potente che portò qualcosa ai miei occhi, qualcosa che avrei dovuto nascondere al più presto. Sollevai il suo corpo debole per stringerla tra le mie braccia, per averla tutta solo per me, per asciugare in segreto quelle piccole traditrici tra i suoi capelli: ciò che lei mai avrebbe dovuto scoprire del debole essere in cui mi aveva tramutato.

Si annullò nella mia stretta e in quel piccolo mondo fatto di braccia, calore e respiri esausti, io mi dissolsi lentamente insieme a lei.

«Andrew... non mi lasciare mai più, ti prego.»

*******

Spazio Dory:

.....................

spero che non ci siano dubbi sulla meccanica del fatto...

Ripenso ancora ai commenti lasciati sul capitolo-fattaccio di Secretly, tipo: ma se lì davanti c'è Will, Edward cosa sta facendo nel frattempo?

A parte tutto, aspetto con ansiaaaa i vostri commenti. Spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto e di essere riuscita a trasmettere tutto quello che loro hanno condiviso, e non solo l'aspetto più carnale.

A presto!

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