CAPITOLO 6 - Rimpianti
C'è un odore strano. Stagnante, misto a terra. Quello che si sente poco prima di un temporale. Si era quello. Di acqua pronta a venire giù dal cielo.
Si era quello. Già era.
La guardo dal basso nello stesso modo in cui si guardano le statue.
Una mano. L'immagine scompare per un attimo. Chiudo gli occhi.
Leggere. Le prime gocce cadono tra l'erba.
Poi un suono. Una voce lontana, attutita dal frastuono del mondo. Mi chiede che cosa faccio, mi prega di aprire gli occhi, mi dice che dobbiamo andare.
No, non "noi" .
Mi sono sbagliato.
Mi illudo che se i miei occhi rimanessero così nulla cambierebbe. E respiro ogni secondo, sapendo che ogni secondo contiene il rammarico poiché esso è già trascorso.
Lo guardo passare prima di riaprire gli occhi.
Mi chiama scemo. Mi parla.
Il vestito è dello stesso colore degli occhi, dello stesso colore del cielo. Non ora però. Ora è grigio plumbeo. Grigio come l'asfalto, come New York.
Ma il mare alle sue spalle è calmo ancora. E brilla quando una lama di luce ferisce le nubi.
Non durerà a lungo, mi dico.
La guardo. Mi sorride. Le sue dita tra le mie.
Piange.
Acqua dal cielo a rendere più dolci le sue lacrime.
Il mondo vortica furioso. Confini indistinti che combattono per sopravvivere consci che l'unica salvezza è cambiare, ingrigirsi e andare avanti.
Come le nuvole. Come noi.
C'è qualcosa di sbagliato in tutto questo. Non sembra reale.
Non lo sembrava neppure allora.
Odio questa sensazione. Contare i secondi che restano come cercare di non precipitare. Un appiglio è tutto ciò che chiedo. Che le chiedo.
Mi risponde di no. Che è stato un abbaglio, che nulla dura in eterno, che è stato tutto come questo maledetto...
« Sogno! Vedete signori: spesso l'economia di mercato è esattamente come il viaggio onirico del vostro collega e molto spesso si interrompe bruscamente! »
Il professore mi indica mentre cerco a fatica di sollevare la testa da pagina due del libro "Macroeconomia 1".
« Lei è il signor? » mi chiede. Un classico che i professori non sappiano neppure a chi stanno insegnando. Se lo sapesse non mi metterebbe in ridicolo.
« Cobb, Aiden Cobb. »
« Vede signor Cobb: non è stato tanto il dormire ad infastire la classe quanto il suo rumoroso russare! » spiega nella risata generale.
Stai calmo Aiden. Solo altri tre anni.
« Mi perdoni... »
« E siamo solamente alla prima lezione. Alla decima cosa farà? »
« Le ripeto: mi dispiace. »
« Io la perdonerei pure ma il mondo sign... dove sta andando? » urla mentre spalanco la porta antipanico che apre sul campus.
O così o gli spaccavo la faccia con quella sua ridicola ventiquattrore. Il rettore ci metterà una buona parola ne sono sicuro.
Il prato, il vento.
Sì. Anche oggi c'è quell'odore nell'aria.
Lo sguardo a fissare il cielo. Anche oggi è così. Grigio e scuro.
Scelgo la Washington perché la strada più breve per uscire da questo posto.
So benissimo che quello che cerco non posso trovarlo qui. Cammino ancora ed ogni mio passo fa rumore sul tappeto di foglie che stranamente è già presente a fine settembre. Cammino con le mani in tasca sotto alti platani.
Era un po' che non mi succedeva. Un po' di tempo che non la sognavo. Ma l'inconscio ha la brutta abitudine di non obbedire alla volontà.
E allora queste foglie ricordano un po' me. Perso nel vento, perso nel mondo. Semplicemente perso.
Mi guardo nei finestrini delle macchine. Mi guardo scorrere veloce seguendo le forme dei vetri. La mia giacca di pelle nera che non avrei mai pensato di indossare almeno per altre tre settimane. I miei capelli dello stesso colore. La mia barba che stamattina non ho tagliato. Il perché non lo so neanch'io.
« Mi scusi: il pub ? »
Non ascolto neppure la risposta. L'uomo mi indica un'insegna. Per fortuna non è lontana. Mi sarà utile in futuro.
« "The grapes" » leggo tra me e me. Nome azzeccato direi.
Il suono di una campanella appena entro.
L'interno è deserto e buio. Le vetrate oscurate compiono il loro lavoro in maniera egregia direi facendomi sentire protetto dall'esterno e poco giudicato. Poco perché dietro al bancone il barista mi guarda in maniera sorpresa.
« Ehi ragazzino! Ti sei perso? »
« Un Jack on the rocks. Grazie. »
« Sì come no! Allora io vorrei un po' di cocaina, grazie! »
« Come? »
« Ah dicevi sul serio? Pensavo stessimo giocando a chiedere cose sbagliate a persone sbagliate. Esci da qui prima che ti insegni quello che non ti ha insegnato tuo padre! »
«Ahi! Questa fa male. » ironizzo. « Si limiti a fare il suo lavoro. »
Faccio scivolare la patente lungo il bancone fino a sotto il suo stupido naso da irlandese ubriaco.
La studia.
« E io dovrei credere che questa sia vera e che tu hai ventun'anni? »
« Non le ho chiesto di credere. » dico sedendomi su uno degli alti sgabelli del bancone. « Solo di servirmi un Jack Daniels con tre cubetti di ghiaccio. »
I suoi occhi azzurro ghiaccio mi fissano ancora con dubbio.
« Se preferisce chiamiamo la polizia e appuriamo chi di noi ha più da nascondere! »
Ricambio il suo sguardo finché le rughe ai lati degli occhi si distendono e un sorriso riempie il suo viso.
« Sei bravo figliolo, lo ammetto! » esclama facendo rimbombare la sua voce lungo tutte le pareti in legno di questo posto. « Va bene. Per stavolta farò finta di cascarci anche perché hai una pessima cera. Che cavolo ti è successo? »
La vita, le donne ma più di tutto...
« Rimpianti. »
© Giulio Cerruti (The_last_romantic)
Angolo dell'autore:
Lasciate anche solo una stella per coronare i miei sforzi o, se vi va, commentate consigliandomi costruttivamente come dovrebbe continuare o eventuali modifiche in modo da potervi offrire scritti sempre migliori. Grazie infinite a tutti!
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