Prova finale: E se domani ...
Il mio Paese è sull'orlo del collasso, nonostante l'apparenza di perfezione che siamo riusciti a mantenere in questi anni, e con noi lo è tutta l'Europa, chi da più e chi da meno tempo, chi più e chi meno a fondo.
Economia e politica precipitano nel baratro, problemi su problemi (burocrazia inutile) si accumulano (carta, carta, carta straccia), schiacciandoci sotto il loro peso che i nostri leader non sono riusciti a distribuire equamente tra loro (Europa Unita, mai stata Unita).
Noi, insieme a Regno Unito, Irlanda e Francia, siamo coloro che hanno resistito più a lungo soffrendo di meno, ma presto cadremo, come sono cadute la Grecia, l'Italia federata e la Spagna.
(Crollo imminente.)
(Pregate gli dei.)
Cadremo e allora dovremo ricominciare daccapo, cercando tra i detriti della devastazione le nuove speranze, nate dalla tragedia, necessarie per ricostruire tutto.
(I figli della desolazione si rialzeranno e rimetteranno insieme i cocci degli specchi infranti.)
Speranze (illusione o realtà?) ... unica luce dell'umanità perduta, ultima luce nel buio della decadenza, ultima come sono io.
Io sono l'ultima Volontà.
(Io sono la vostra bella Apocalisse, con i boccoli biondi e il visino da bambola.)
Nelle mie mani risiede il potere che può salvare o condannare l'umanità, un potere devastante che non ha paragone con alcun'altra magia conosciuta.
Con il dono della mia vita, posso permettere al mondo di tornare indietro di quanto desidera, mantenendo negli abitanti la memoria degli eventi passati (degli errori fatti), e concedergli così di cambiare, di migliorarsi.
Una vita per miliardi di vite.
Conveniente, non trovate?
So che me lo chiederanno, di sacrificarmi, ed io accetterò.
Ho paura della morte, dell'aldilà (ricompensa? punizione?), sarebbe strano se non ne avessi (vuoto? nero/bianco?), ma voglio che l'umanità capisca cosa sta facendo.
Io sono l'ultima Volontà.
Io sono l'ultima possibilità di redimersi.
Morta io, il mondo dovrà arrangiarsi e precipitare negli abissi che gli uomini stessi hanno creato (paradiso corrotto nel suo nucleo).
Non mi consegno di mia spontanea volontà, ma aspetto che qualcuno venga a trovarmi, nel mio bunker di cemento sotto il castello di Neuschwanstein, in Baviera.
La mia unica compagnia qui dentro sono una piccola televisione, che riceve un solo canale (essenziale, notizie dall'esterno, quasi sempre accesa), e un ritratto di Ludwig II (re di Baviera, il re pazzo, unser Kini[1], enigma per sé e per gli altri[2]), antico proprietario e creatore di questo maniero teatralmente antico (benedetta l'arte in ogni sua forma), che se ne sta appoggiato malamente in un angolo a fissarmi con i suoi occhi dipinti (scuri, luccicanti, confortanti, vivi).
Il ritratto l'ho portato io, l'ho sottratto al castello senza che nessuno se ne accorgesse (fattura scadente, autore sconosciuto, scarso valore), avevo bisogno di un familiare (zio in qualche modo, non so in quale) che mi sostenesse un po' in questa situazione.
Non che lo zio Ludwig sia di molte parole, però vedere il suo viso mi rassicura.
(Assomiglia a papà. Sguardo dolce, comprensivo. Sorriso fiero, sereno.)
A dodici anni sono rimasta sola con il mondo tra le mani, stretto tra le dita come un pallone, e con la tentazione di farlo (farmi) esplodere con un tocco (un ago, una freccia, una pistola, al posto giusto fanno lo stesso lavoro).
Se la Volontà muore prima del tempo (papà) senza Rito e senza aver passato il Potere a qualcuno (papà, perché?), ogni miglioria conquistata grazie alle precedenti scompare: questo significa decadimento totale di ogni struttura sociale, politica ed economica, degrado completo di ogni cosa, disperazione, panico.
Follia.
Morte.
Caos.
(Soluzione finale. Bisogna pur finire.)
L'intera esistenza aggrappata disperatamente all'orlo dell'abito logoro di una sola vita, la pace in equilibrio sul filo del rasoio tra le mani di un barbiere che è un essere umano come tutti e anche un dio come pochi.
Un dio (io) barbiere. Metafora affascinante.
Devono solo sperare che non sia lo Sweeney Todd della situazione.
Sorrido all'idea di essere Todd e pensando alle conseguenze delle agili mosse del rasoio idealmente in mio possesso (il mio braccio è finalmente intero[3]): sarebbe la giusta punizione per tutti quanti, anche se ne pagherebbe le spese anche chi non c'entra niente (c'entriamo tutti, in qualche modo, mai illudersi).
Ma forse sto correndo troppo: è probabile che l'umanità abbia compreso la gravità dei suoi errori e stia cercando di migliorarsi.
Io aspetto, ascolto la tv e poi il silenzio di queste mura (cemento, ruvido, freddo, polvere, non respirare), sbircio il mondo dall'unica finestrella che c'è (alberi a perdita d'occhio, nessuno), la notte non sempre dormo (guardo le ombre innalzarsi, mosche sul muro), aspetto.
Tanto sanno come trovarmi, ci sono fior fiore di maghi già pronti con i "GPS" appositi.
Stanno solo aspettando che la situazione sia talmente disastrosa da non poter fare altrimenti (menomale) (sanno che sono l'ultima).
«Sai, zio, non ho molta voglia di morire.» dico al quadro, che alla mia affermazione sembra guardarmi in tralice (nota: raddrizzare zio Ludwig).
La mia certezza oscilla, la decisione cambia, a volte voglio, a volte no, ma, ehi, si sta parlando di morire, mica di scegliere un vestito per una festa (per qualcuno è più importante, non per me).
Mi alzo da terra, spolverando i pantaloni (scuri) con le mani; prendo il cellulare (vecchio, sempre spento) poggiato sul comodino e lo accendo.
Voglio vedere le foto di papà.
Mi manca.
"Ricorda sempre che non sei sola."
(Maledette parole.) (Pugnalate alla schiena.)
Certo, come no.
(La tua malattia. Il tuo, il nostro potere.)
E adesso cosa sono?
(Perché non mi hai detto niente?)
Sola come un cane abbandonato sull'autostrada (ma senza fiducia, senza speranza nel tuo ritorno) in attesa di essere investito dalla prossima auto che sfreccerà rasente il guardrail.
La luce dello schermo mi trafigge gli occhi (agopuntura nel posto sbagliato) (è buio qui dentro), appare lo sfondo blu (standard, anonimo) con la data e l'ora (sbagliati); le mie dita (febbrili) si muovono sui tasti disegnati alla ricerca delle immagini di quella vita passata (sei anni fa e più, una bambina, innocente, occhi limpidi).
Le trovo, le apro, le guardo.
Quella non sono io (sì, lo sono, vorrei esserlo ancora), con in mano il palloncino attaccato ad un filo, con il sorriso sincero sulle labbra piccole e soffici (rosa, lucidalabbra alla fragola per sentirsi grande), gli occhi chiari e felici: non sono più io, quella bambina nella foto.
Mio padre alle mie spalle: sorride, la mano (grande, forte) sulla mia spalla (esile, libera da qualsiasi peso).
Ritratto di una famiglia felice, anche senza la mamma (la ricordo a malapena).
Altra foto, scenario simile: io e papà al mare (Italia. Calabria? Sicilia?), le guance rosse, lui con la maglietta, io con un costumino giallo e rosa (sei anni, niente top), la foto ce l'ha fatta un vicino d'ombrellone (papà amava le foto, amava cristallizzare gli istanti sfuggenti, gli arcobaleni nelle iridi).
Le immagini scorrono sotto i miei occhi, sotto i miei occhi che si riempiono di lacrime, che scorrono sul mio viso, che bagnano lo schermo, che mi appannano la vista; ma io devo vederle, perché sono l'unica cosa che mi resta, perché non ho nient'altro a parte i ricordi di quella vita felice (sei anni, troppi per me, troppi anni rubati) per poter sopravvivere alla solitudine (all'idea di morire per un mondo che con me non c'entra niente).
Lancio via il telefono, inutile torturarsi, inutile farsi male.
(Papà è morto.) Lui ci credeva, nella salvezza.
(Io muoio.) Io non ci credo affatto.
Ma lo faccio, lo stesso, perché lui si aspetta questo da me (è la nostra missione); io gli voglio bene e non voglio deluderlo (mi guarda dal paradiso dei guerrieri) (aspettami papà).
Dimentichiamo per un attimo tutto questo.
Guardiamo la foresta, che è tranquilla, vuota e piena di alberi che ti fissano senza proferire parola.
Salgo al piano di sopra e mi avvicino alla finestrella (non esco, assolutamente no) e guardo: il solito bosco, scaldato da un tiepido sole autunnale.
Due figure, in lontananza.
Si avvicinano.
Mi hanno trovata? (Non voglio morire.)
Apro la finestra, devo sentire.
Due uomini, due ragazzi (vent'anni a testa, direi), dalla pelle candida e i capelli biondissimi, identici, indossano piumino, jeans e scarponi da trekking; camminano di fretta, si rivolgono sguardi furiosi, si scambiano parole rabbiose in una lingua sconosciuta (svedese? norvegese? di quelle parti, insomma?).
Improvvisamente si fermano.
Posso quasi vedere l'elettricità che sprigiona dai loro occhi (scheggie di ghiaccio) e dalle loro anime furibonde (cliché grafico da fumetto giapponese), elettricità che pervade ogni fibra del loro corpo facendoli tremare (se le daranno, lo sento).
Tiro fuori il binocolo.
Godiamoci lo spettacolo (qualcosa di nuovo per i miei occhi sofferenti).
Uno dei due, quello più basso, sfodera un bastone nodoso (è un druido?) e lo punta contro il petto del suo compagno (il fratello, sicuro), che in risposta impugna una lancia con fare minaccioso.
«Non metterti in mezzo, Rasmus!» esclama quello con la lancia, digrigna i denti.
(Cercano me.)
«No, Måns! Non ti permetterò di ucciderla!» risponde con altrettanta convinzione il druido Rasmus, premendo più forte la punta del suo bastone (pietra rossa perfettamente sferica incastonata nel legno) contro il petto del fratello.
Cercano me.
Non so che fare.
Neanche il tempo di elaborare una risposta semplice come un sì o un no che i due biondi fascinosi (molto fascinosi), dopo un breve scambio di stoccate, si sono gettati l'uno addosso all'altro, mettendosi le mani al collo (hanno abbandonato le armi) e rotolandosi nell'erba (attenti ai sassi, sono taglienti).
Se le danno di santa ragione, i movimenti e i colpi sono impacciati a causa della loro posizione (idioti) ed io non so se essere divertita dal siparietto che ho davanti o essere spaventata.
Spaventata dalle conseguenze, ovvio.
Distolgo lo sguardo dalla finestra, affiancandomi ad essa: quei due mi annoiano e mi spaventano.
(Ho già detto che sono idioti?)
Da quel che ho capito (credo di aver capito), Måns vuole uccidermi. Uccidermi e basta, senza Rito.
Rasmus, invece, vuole probabilmente passare per il suddetto (carino da parte sua, dovrò soffrire come un cane prima di tirare le cuoia), ma non sembra molto convinto.
Basta scherzare, Theresa, sii seria per un attimo.
La faccenda è grave.
Se sono qui, è perché qualcuno gli ha chiesto di venire a cercarmi (il loro governo? Il Parlamento Europeo di Bruxelles?).
Rasmus è il Cercatore, Måns il Battitore, per così dire (fila via, Potter![4]): inizialmente partiti con un intento comune, il viaggio li avrà fatti riflettere ed ecco il risultato.
Il momento della scelta è più vicino di quanto credessi.
Consegnarmi, non consegnarmi ... strappare petali ad una margherita servirebbe a poco (amo o non amo vivere?).
Maledizione! Ho la testa che mi scoppia!
Crollo a terra, il mio fondoschiena impatta sul pavimento duro (male, dolore, tanto dolore).
Non ce la faccio.
Non ce la faccio.
Per gli dei, aiuto!
Aiuto!
Ma vi sembra normale che una persona debba decidere di morire di sua spontanea volontà senza che la causa che lo richiede le stia particolarmente a cuore?
Ah, ma la scelta è ora ancora peggiore: se gli scandinavi fascinosi mi trovano, dovrò decidere se scappare o mettermi sotto l'ala di uno dei due.
Sto per esplodere.
Un momento ... perché questo silenzio? (tralasciando il rumore di fondo della tv accesa al piano di sotto, ovvio)
Mi alzo lentamente e mi volto verso la finestra, sto tremando.
(Ti prego, ti prego, ti prego.)
I due si sono rimessi in piedi (i visi pieni di lividi, idioti) e stanno guardando nella mia direzione (hanno abbassato lo sguardo alla giusta altezza!) perplessi e in parte orgogliosi.
...
Porca miseria.
Devo essermi lasciata scappare qualche imprecazione a voce alta.
«È lei!» esclamano all'unisono, precipitandosi di corsa verso la finestrella. Inciampano e cadono.
Decisamente non hanno mandato i migliori che avevano (mi scappa da ridere).
Prendo un bel respiro e decido di uscire allo scoperto: che posso fare ormai?
Salgo le scale e apro la porta, chiusa da troppo tempo (cigola).
Il sole, caldo, accecante, sulla mia pelle bianca, di porcellana, fredda. Chiudo gli occhi, facendomi strada per uscire senza guardare.
È come tornare alla vita di nuovo.
Aria fresca (i miei polmoni bevono assetati), calore vero (le mie ossa si riappropriano della vitamina D mancante), luce.
Vita.
Meraviglioso. Resterei volentieri così in eterno.
...
Se non fosse per quei due baldi giovani che mi hanno raggiunta (beh, hanno buon fiuto) e che mi stanno innanzi, coprendo in parte gli scarsi (eppure devastanti) raggi di sole che mi raggiungono.
Sospiro e apro gli occhi piano, sbattendo più volte le palpebre per abituarmi alla luce.
«Sei tu Theresa Krämer, la Volontà?» domanda Måns solennemente, indicandomi.
(Maleducato.)
«Sì, lo sono. Sono l'ultima Volontà.» rispondo con voce atona e volto inespressivo.
Ci tengo a ribadire il concetto di "ultima", devono sapere a cosa vanno incontro se perdono me.
«Vieni con noi.» ordina ancora, facendomi segno con la mano di avanzare, la lancia stretta nell'altra mano.
Annuisco, faccio un passo e mi blocco.
Måns insiste, ma io non riesco a muovermi. Rasmus non dice nulla, guarda, osserva, studia, ma tace.
«Vieni, sì o no?» chiede ancora il Battitore, si sta arrabbiando (di nuovo).
Perché non mi afferra per un braccio e mi trascina via? Perché non fa in modo che io vada con lui senza opporre resistenza?
Perché mi permette di stare ferma qui, nel limbo tra la vita e la morte?
Lui trema, mi guarda, non osa avvicinarsi.
(Dimmi cosa vedi.)
C'è compassione nei suoi occhi quasi trasparenti.
(Fa male.)
(Non voglio essere guardata così.)
Stringo i pugni; vorrei avanzare, anche di un solo passo, ma non ci riesco.
(Non riesco, non riesco, perché?)
«S-sì ... sì, voglio ... voglio venire ... con voi ...» rispondo, la voce rotta da un pianto nato senza che me ne accorgessi; le lacrime scorrono come fiumi roventi sulle mie guance color neve, sembra quasi che vi lascino, indelebili, i segni del loro passaggio (dolorosi come graffi di artigli, può una lacrima fare male?).
Perché non mi muovo?
L'ho promesso a papà, che mi sarei sacrificata per questo mondo a pezzi!
Ma adesso ... perché esito?
Perché?
Esito ...
Non ho la forza di andare avanti.
Non ho il coraggio di fronteggiare la morte, è questo?
Questa prospettiva mi svuota anima e corpo e mi immobilizza qui, mi inchioda a terra (possibile che la forza di gravità sia tutta concentrata su di me?), non mi permette di scegliere, mi distrugge dentro.
Io ... io ... cosa voglio?
Rasmus, Måns, aiutatemi voi. Trascinatemi via, costringetemi a morire, vi prego. Non fatemi scegliere. Non fatelo, per favore.
Vorrei gridare loro in faccia queste parole, ma non riesco, sono bloccata, svuotata di ogni cosa (parola, anima, vita).
Aiuto.
Aiuto!
«A ... aiu ... aiuto ... aiuto!» esclamo a fatica, la gola riarsa, la mia voce sempre spezzata dalle lacrime che mi annegano nel loro continuo flusso (ininterrotto fiume in piena, quando smetterà?).
I due mi guardano senza capire, poi distolgono lo sguardo, mossi da profonda pietà nei miei confronti.
Specialmente Måns. Ha gli occhi lucidi, o così mi pare. È difficile interpretare degli occhi trasparenti, se tutto li attraversa e tutto riflettono.
«Perché ... perché non ... non mi portate via?» chiedo, tremando, i pugni chiusi lungo i fianchi (stringo talmente forte che mi tremano le braccia).
«L'Europa vi ... vi ha chiesto di trovarmi, vero? Eccomi qui ... portatemi via!»
Loro rimangono immobili, scintille di pietà negli occhi.
Faccio pena.
Non mi portano via perché faccio pena.
Vogliono lasciarmi vivere, questi due stupidi.
Se solo il mio corpo (la mia disperata voglia di vivere senza uno scopo) non mi tenesse bloccata qui, sarei già partita e li avrei trascinati dietro di me.
«Io ... voglio che mi ... portiate via. Io voglio ... essere sacrificata.» insisto, la mia voce si fa più sicura, anche se le lacrime continuano a colare giù dai miei occhi grigi (gli occhi della mamma, diceva papà).
«Vi prego.» sussurro, le corde vocali mi tradiscono e queste due piccole parole escono dalla mia bocca come l'ultimo rantolo di un moribondo.
Non riesco neanche a tendere le braccia verso di loro, non riesco a fargli capire che lo voglio davvero (è la mia unica possibilità).
Rasmus abbassa lo sguardo, si mette una mano sulla bocca (commosso?), Måns si gira verso il fratello (stesso sguardo/commosso?), si passa una mano tra i capelli (lunghi fino alle spalle).
Il Cercatore si fa avanti, infiggendo, nel passo, il bastone nel terreno.
Pur essendo più basso di due o tre centimetri rispetto a Måns (alto poco meno di due metri, io credo), mi sovrasta con la sua figura imponente, da guerriero (braccia muscolose sotto la giacca, gambe altrettanto sotto i pantaloni), circondata come da un'aura solenne (dovuta al fascino della magia, molto probabilmente).
Mi osserva, scruta il mio viso, scandaglia le profondità dei miei occhi, della mia anima in essi, per capire cosa fare, cosa io voglio fare.
Gliel'ho detto: voglio che mi portino via e mi trucidino per mezzo del Rito a cui anelo (inconsapevolmente?) da sei anni.
Sospiro, tiro su con il naso, sospiro di nuovo: perché hanno mandato questi due? Si vede che sono dei novellini appena usciti dalla scuola, dall'addestramento o da qualunque altra cosa. Serviva qualcuno di più esperto, un uomo più adulto e con meno scrupoli e pietà di questi due rammolliti con i muscoli per bellezza.
Poi mi ricordo: anche un adulto avrebbe esitato, anche a lui avrei fatto pietà.
Tutta colpa del mio visino da bambola di porcellana, con gli occhi grandi, il nasino carino, le labbra a cuore e i boccoli biondi e perfetti.
(Nota: la prossima volta, munirsi di maschera. Qualunque genere.)
Dai, gambe, muovetevi, questa situazione è imbarazzante, prima muoio e meglio è.
Sto quasi per muovere il primo passo, quando Rasmus si getta improvvisamente ai miei piedi implorando perdono, il fratello si accoda qualche secondo dopo.
Ok ...
Non posso fare a meno di guardarli con una faccia perplessa, contorta ai limiti della plasticità dei miei muscoli facciali.
Che razza di pivelli hanno mandato? Sono così disperati da inviare due bambocci qualunque a compiere una missione del genere?
(Raccomandati, senza dubbio, unica spiegazione plausibile.)
Non so se hanno capito che qui stiamo parlando di salvare l'Europa!
«Di cosa vi scusate? Non avete fatto niente, purtroppo.» chiedo sbuffando, al pensiero che la mia vita e il destino del mondo siano nelle mani questi incapaci mi sono passati il pianto e i tremiti.
«Noi non vogliamo farti questo! Ma ci obbligano! Ce l'hanno ordinato!» piagnucola Rasmus, l'aura solenne di prima si è pateticamente dispersa in un soffio di vento.
Oh Wotan, aiutami.
«Ma perché ti scusi anche tu? Tu eri favorevole al Rito!» domanda sorpreso e infastidito al fratello, anche lui intento a borbottare scuse su scuse ai miei piedi (in entrambi i sensi).
Sul serio, Wotan, aiutami.
(Thor, fulminali, per favore.)
Quindi era Måns a volere il Rito, non Rasmus.
Ah beh, è lo stesso.
L'immobilità ha abbandonato i miei arti e mi consente di muovermi nuovamente (forza della disperazione la chiamano, vero?), così mi accovaccio, afferrandoli per i capelli e facendo cozzare i loro crani pieni di sentimentalismi l'uno contro l'altro.
Vediamo se così la finiscono, questi mocciosi piagnucolosi.
I due, mentre si massaggiano la testa dolorante, alzano lo sguardo verso di me: sono piuttosto confusi.
Poveri bimbi.
«Lasciate che vi dica una cosa, carini: se mi fate ammazzare con il Rito, mi fate solo un favore, va bene? Quindi smettetela con questi piagnistei inutili e alzatevi: dovete portarmi a Bruxelles, o sbaglio?» ordino con voce severa.
Questa frase sigilla la mia decisione: lo faccio, stavolta sul serio.
È inutile che continui a vivere nell'angoscia della scelta: hanno deciso, facciamo quello per cui siamo stati creati!
I biondi si mettono in piedi, dandosi un contegno, ma sono ancora visibilmente confusi dalle mie parole e dai miei atteggiamenti cambiati repentinamente (lo sarei anch'io al posto loro).
Dopo averli avvisati, vado un attimo giù nel bunker a spegnere la tv e prendere il cellulare (e a salutare zio Ludwig), tuffandomi nell'entrata e scendendo le scale di corsa.
Sono stranamente elettrizzata: fa questo effetto la morte imminente?
Forse solo nel mio caso.
(Sarò pazza? Probabile. Certo)
Una volta arrivata di sotto, raccolgo le poche cose che ho (soldi, qualche vestito, il telefono, la pistola di papà) e spengo la tv.
Prendo lo zio Ludwig, gli lascio un bacio sulla guancia dipinta (solo a me sembra che abbia sorriso?) e gli sussurro:«Questo è un addio, mio carissimo zio. Non tornerò più. Vado a morire, ma già lo sai. Ti lascerò all'ingresso, così qualcuno ti troverà e forse potrai tornare al castello. Io non ti ci voglio portare, lì non ti guardava nessuno. Ti voglio bene. Te ne vorrò sempre.»
(Le lacrime bussano, spingono gli occhi fuori dalle orbite.)
Dai, mi sto commuovendo! È solo un quadro, un quadro di un morto che non mi ha mai conosciuta e io mi commuovo nel dirgli addio! Ma abbiamo passato tanti anni insieme, il suo sguardo fisso è stato la mia roccia nella solitudine e io gliene sono grata (a Ludwig, al pittore, al quadro).
Mi metto lo zainetto in spalla e mi stringo il ritratto al petto, i battiti del mio cuore accellerano ad ogni gradino (non per la salita) e le lacrime mi pizzicano gli occhi (volete lasciarmi stare?).
Esco, appoggio il quadro sulla soglia e lascio la porta socchiusa (speriamo che nessuno lo calpesti entrando) (entrerà qualcuno?).
Prendo un bel respiro profondo, caricandomi i polmoni di ossigeno senza polvere di cemento, e finalmente faccio un passo avanti, verso la mia morte, verso il mio destino, lo scopo per cui sono stata creata.
I due biondi mi seguono incerti, al punto che dopo pochi metri li afferro per i polsi e li trascino di viva forza per convincerli a camminare più spediti.
(La fretta, la paura, mi masticano piano piano, piano piano.)
(Fanno il solletico.)
Ho paura, ma sono felice, o meglio, serena, tranquilla.
Ad ogni passo che faccio vi avvicino sempre di più alla mia fine, alla mia inevitabile realizzazione, ma ho capito che è l'unica cosa che posso fare.
Un altro, al mio posto, si sarebbe ribellato, dicendo al mondo di arrangiarsi, ma io no.
Non voglio rendere la vita più facile ai governi, dandogli la gomma con cui cancellare i loro innumerevoli errori, sia chiaro.
Li sto mettendo in guardia.
Io sono l'ultima Volontà.
Io sono l'ultima speranza di questo mondo devastato (promessa di grazia sotto cieli grigi).
Io muoio, voi nascete a nuova vita.
Ma questa è l'ultima volta.
Per sempre.
Spero che possa servirvi davvero, stavolta, spero giocherete questo jolly come si deve, perché non ne avete altri.
E se domani il mondo sprofonderà di nuovo nel caos ... beh ... io ci ho provato, a salvarvi, adesso è il vostro turno.
Che dire?
Vi auguro buona fortuna.
Possano gli dei avere cura di tutti voi.
Il mio ultimo messaggio per voi sull'altare di morte sarà:
"La guerra è finita. Andate in pace."
[1]Unser Kini, ovvero, "il nostro re" in bavarese. Così gli abitanti del regno chiamavano Ludwig II.
[2]"Voglio rimanere un eterno enigma, per me e per gli altri." è il detto più citato di re Ludwig II.
[3]Una citazione dal film/musical "Sweeney Todd" di Tim Burton.
[4]Ho utilizzato i ruoli del Quidditch per rappresentare a grandi linee i compiti di Rasmus e Måns.
Colonna sonora (by Kamelot :)) in ordine di apparizione nel testo:
"Beautiful Apocalypse"
"Insomnia"
"Liar Liar (Wasteland Monarchy)"
"Under Grey Skies"
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