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Sol | @tylago

di tylago

Petrosa, Anatolia, 3301 a.C.

Amara credeva che la bellezza fosse una miscela di rarità e simmetria.
Eppure, i pendii sabbiosi della Valle Perpetua mostravano una geometria deforme, sbagliata. Le irte dune dell'area cimiteriale avevano fascino, però; nascondevano ossa, ricordi e monili d'oro, la stessa sostanza che le colava dal viso al petto. Il materiale fuso simboleggiava il sangue del morto, veicolava la sua divina trasmutazione come parte del Tutto.
Solo all'oracolo spettava il privilegio di quel bagno metallico. Il contrasto tra il corpo d'ebano di Amara e la brillantezza della tintura la rendeva, agli occhi dei presenti, una statua vivente.
Un vento caldo spirava da est, prendeva in carico il denso fumo della pira funeraria. La cremazione dell'Alto si protraeva da ore, ormai; ogni granello di cenere sarebbe stato raccolto e custodito in un'ampolla di vetro meteoritico.
Uno scorpione bianco solleticò i piedi di Amara. Abbassò il mento per guardare e lo trovò splendido; da quella creatura albina veniva distillato l'allucinogeno rituale. Lo stesso che, in quell'occasione, possedeva l'oratore delle Onoranze e i membri del Corpo Sacro, riuniti in gruppi di tuniche setose. Amara stessa ne era preda e si sentiva sfinita; non poteva descrivere quello che pullulava nel retro delle sue iridi, ma, fortunatamente, quelle visioni erano silenziose: ombre vagamente antropomorfe, bagliori, flussi rallentati di pensieri inconsci. Amara doveva solo restare in piedi, una roccaforte di carne senza difetto.
Le orecchie degli spettatori erano invase dai toni grevi dei soffiati e dei risonanti, strumenti tipici dei popoli della Dea Madre. La musica pulsante e minimale sfiorava quelle corde mentali già tese dalle sostanze stupefacenti.
«Divina, Perfetta, Scrigno di ogni Scienza.» La voce del cerimoniere iniziava ad elencare gli appellativi della Dea, avrebbe finito entro un'ora.
Ancora non scendeva la notte su Petrosa, la metropoli scolpita negli strati sedimentari di ere passate. Dalla Valle Perpetua, periferica rispetto all'agglomerato urbano, si scorgevano le luci calde delle grotte metropolitane, un orizzonte di stelle abitate.
Amara quasi non si accorse della fine. Un novizio, sfilandole accanto, le sfiorò il braccio ingioiellato, invitandola a destarsi e seguire la processione di ritorno al tempio. L'effetto della droga non pareva affievolirsi, quei baleni pulsanti le creavano punti ciechi nel campo visivo e lei sopportava, convinta che fossero manifestazioni trascendentali. A metà strada alzò la testa verso i piani più alti della montagna scavata, poteva vedere i devoti affacciati dalle finestre ovoidali come occhi luminosi. La grande città-stato non aveva sistemi di difesa visibili, nessuna cinta muraria da attraversare. I popoli dell'emisfero baciato dal sole nascente vivevano in pace da millenni, dal tempo in cui la Dea Madre aveva camminato in mezzo a loro.
«Come ti senti?»
La domanda di un giovane sacerdote le colpì il timpano sinistro. Amara rispose con sguardo appannato: «Non è concesso parlare all'oracolo» ponendo fine alle poche libertà che quel ragazzo si era concesso in virtù della loro amicizia. Amara era in estasi, su un altro pianeta, non necessariamente doveva stare bene. I rituali al fine di metterla in contatto con la dea Sol si facevano sempre più disperati, dopo troppo tempo di assenza ingiustificata: la dea taceva in modo impietoso, nemmeno i divinatori più fedeli erano arrivati al perché. Sapevano solo che dovevano continuare a far credere che Sol facesse come aveva fatto per millenni: comunicare con la casta sacerdotale più alta. I cittadini non avrebbero accettato un governo dettato dagli uomini e non più dalla dea.
Dove sei, Madre Onnipotente? Dove sono rivolti i tuoi occhi bui?
Se lo chiedeva ogni notte, Amara, anche adesso, tra lenzuola di seta. I legni curvi del baldacchino erano costole oscure proiettate verso un soffitto concavo, come la volta stellata. Credeva che con la sola forza dello spirito l'avrebbe trovata.
E allora perché questo silenzio? Parla con me, Madre. Non l'hai mai fatto. Ti chiamo da tutta la vita, da prima del giorno della mia investitura. Sono stata scelta come oracolo per un solo motivo e, di fatto, non sono mai servita a niente.
Quel pensiero le faceva montare vergogna, un formicolio per la testa, allo stomaco. Era solo una figura accessoria di un sistema spirituale segretamente fallito.
Tu puoi tutto, Madre, tu che sei pura essenza spirituale, come ci hanno tramandato dal giorno della tua apparizione dai cieli e sparizione tra le nubi. Cosa ti costerebbe manifestarti a me, che ti dedico la luna e le stelle, ogni mio sorriso, il senso del mondo e del tempo che passa?
Si ritrovò a lacrimare di frustrazione e nostalgia di qualcosa che desiderava intensamente e non aveva mai avuto: un contatto con Lei, con Sol, con l'unico essere degno di un nome proprio; tutti gli altri, compresi i luoghi, venivano appellati esclusivamente con nomi comuni di accompagno ad aggettivi. Valle Perpetua, Landa Sabbiosa, Tempio Alacre, Varchi Alteri.
I Varchi Alteri, rifletté. A sud, la catena montuosa che divide il mondo civile dai popoli selvaggi... Lì dimorano i Santi. Forse tu, Divina, sei con loro, sono luoghi in cui i contatti trascendentali sono molto facilitati. Amara sparse i capelli sul cuscino mentre rifletteva intensamente, le onde nere erano tirate nervosamente. Nessuno oserebbe arrivare a tanto. Affrontare un viaggio simile, con i pericoli delle vie deserte... Sono sorvegliata giorno e notte. Ma cos'altro dovrei fare per dare un senso alla mia vita? Il tempo passa e soffro. Mi fa male il cuore. Ho bisogno di un contatto con Lei non solo per il mio popolo, ma per me stessa.
Pregò la Madre tutta la notte, le dita intrecciate in adorazione. Prese la sua decisione.

A destarla furono le viscere della terra.
Quel suono, un rombo basso e strisciante, le sarebbe rimasto dentro. Amara aprì gli occhi con il cuore in fibrillazione, terrorizzata dalle crepe che spaccavano i soffitti e dal campo visivo che si spostava in continuazione, al ritmo sconnesso del moto terrestre. Si tirò a sedere, sentiva le urla della servitù e dei sacerdoti che si precipitavano fuori dalle loro stanze, giù per le tortuose scalinate del tempio.
«L'oracolo, mettete in salvo l'oracolo!» da lontano a vicino, ebbe luogo un passa parola.
Qualcuno sfondò l'ingresso del suo appartamento privato, Amara si strinse la vestaglia al petto.
«Sacerdotessa, state bene?»
«Via, via da qui» Amara boccheggiò e anche se non era concesso dal Protocollo si aggrappò al braccio della guardia templare. «Il mondo... Il mondo sta finendo?» disperò, ma subito dopo se ne vergognò. Lei era l'oracolo, lei avrebbe dovuto sapere cosa stava succedendo. Invece, quell'evento stava cogliendo tutti impreparati.
L'uomo che la stava guidando si fece strada tra i corpi concitati. Si riunirono alla base del tempio, un'area a semicerchio con portici, aperta verso il cielo tinto d'aurora. Amara si trovò insieme a innumerevoli sfollati, non solo ospiti del tempio, anche gente comune riversatasi come un fiume turbolento. I volti erano laceri di terrore, cercavano l'oracolo, così la prima cosa che fecero i sacerdoti fu coprire con le loro stesse vesti il corpo di Amara, nascondendola al pubblico. Ma quelli che l'avevano già individuata non tardarono a gettarsi al suolo e ad aggrapparsi alle sottili caviglie di lei.
«Oracolo, vostra grazia, diteci, diteci cosa...»
Un paio di guardie si frapposero e calciarono sui denti lo sventurato, che guaì ritirandosi tra le gambe della gente. Allora qualcuno si imbestialì: «I palazzi di arenaria stanno crollando! Ci vivono centinaia di persone, anziani, bambini! Dobbiamo fare qualcosa!»
«Hanno ragione» Amara tirò un sacerdote per un polso. «Radunate e inviate scavatori e gruppi di recupero, subito!»
«Altissima, purtroppo non è l'oracolo ad avere potere esecutivo» la riprese il vecchio, pallido. «Dobbiamo attendere il via della cerchia politica. Inoltre, la scossa è passata da poco, dobbiamo anche attendere che la terra si assesti, per la sicurezza dei soccorritori stessi.»
«Ma guardati intorno» lo rimproverò la ragazza, severa. «Tutti cercano me. Devo parlare, dire loro qualcosa, ma io non so niente. Come risolviamo?»
Se fossero stati politeisti, avrebbero faticato a capire quale fosse il dio responsabile. Non potevano non attribuire quella calamità al volere di Sol.
«Perché la Dea è adirata? Fino a ieri annunciavate il suo benvolere!» gridavano altri.
I sacerdoti del Tempio Alacre non sapevano cosa dire. Non credevano nella forza della natura, credevano alla forza di Sol. Ma non avevano la minima idea di cosa si agitasse ai piani divini.
Allora Amara si spogliò e mostrò a tutti la sua nudità. Era un gesto forte, nella loro cultura significava che qualcuno stava per fare un giuramento solenne, che offriva la propria morte per la causa.
«Ascoltate, perché il tempo è cambiato» Amara salì su una scalinata e si fermò accanto a una statua, divenne quasi indistinguibile dalla pietra nera. In quei momenti la sua paura spariva, si sentiva pervasa da una forza sovrannaturale. Era la sua stessa forza, ma non lo sapeva, preferiva attribuirla a qualcosa più grande di lei.
«Tutto è cambiato. Lei, nostra Madre Onnisciente, per la prima volta sembra mutare la sua volontà in pericolo!»
«Perché? Che cosa abbiamo fatto di male?» vagì il popolo.
«Intendo scoprirlo!» Amara alzò la voce, il suo ventre piatto si ritrasse, gli addominali si tesero per l'emozione. «Io sola posso parlare con lei, ma non qui. È chiaro che a Petrosa l'equilibrio è compromesso. Offrirò a Lei un pellegrinaggio e raggiungerò il Suo spirito nel luogo più energetico del mondo, i Varchi Alteri!» e il popolo gioì nella speranza.
L'oracolo aveva lasciato a bocca aperta il resto del clero. Qualcuno della casta più alta la guardava con rabbia: Amara aveva legittimato un permesso che non aveva nemmeno chiesto. Lei, la giovane più sorvegliata del sistema, si era appena presa quella libertà con violenza, con una sollecitudine inammissibile. Ormai la promessa era stata fatta: Amara era nuda e la sua pelle glabra splendeva come un cielo di comete.
Petrosa tremava ancora. Il sole sorgeva sui volti attoniti, sui pianti di madri e padri che stavano assistendo all'agonia dei loro cari sotto alle macerie. La direzione politica aveva finalmente inviato i soccorsi, corpi appartenenti ai lavori più gravosi, ma Petrosa non aveva veri e propri apparati di emergenza: dalla fondazione della città-stato non ce n'era mai stato bisogno. Quando c'era Sol tutto era perfetto e ora lasciava sgretolare il suo impero. Questa ed altre riflessioni tormentavano il cuore degli adepti e dei cittadini.
Altri terremoti sarebbero giunti nei giorni successi, dicevano i geologi delle prestigiose caste sacerdotali, e così accadde. L'imminente partenza dell'oracolo era la sola cosa che teneva a bada il popolo, che lo teneva ancorato alla fede, collante della società.
Gli inquilini del tempio erano spaventati, qualcuno temeva che l'oracolo sarebbe andato perduto; nessuno, da millenni, aveva visto i Varchi Alteri. Solo la mitologia aveva tramandato qualcosa a singhiozzi. Ma la necessità di speranza era un motore potente, bastava per rischiare tutto per il nulla.
«Naturalmente, avrai una scorta al tuo seguito.»
Ai piedi ingioiellati di Amara, l'Alto Sacerdote, giovane e nuovo in carica, sapeva appena cosa fare. Non c'era tempo per redigere un nuovo protocollo, l'oracolo doveva partire quanto prima. Petrosa aveva appena subìto una nuova scossa e qualche gruppo di civili aveva già cominciato a battere contro le porte del tempio.
La sala grande accoglieva in cerchio le massime autorità religiose, quelle dei più alti appartamenti della piramide templare. Dai soffitti irregolari il sole entrava attraverso le celle ovoidali delle finestre, sfiorava le spalle nude di Amara, avvolta in una semplice toga bianca. Vederla in quel modo faceva pensare che forse era solo una ragazza coraggiosa e nient'altro.
«Anticamente ci è stato proibito di solcare i cieli, esclusiva proprietà degli dèì» cerimoniò l'oratore. «Tuttavia, siamo in possesso dell'energia della levitazione, il prezioso dono che gli angeli della Dea Sol ci hanno trasmesso millenni or sono. La carovana sfreccerà nel deserto senza fatica, rasenterà il suolo. Tre uomini scelti saranno la vostra ombra, oracolo... Io sarò tra loro.»
Quella dichiarazione fece trasalire i membri più anziani; non si aspettavano che anche la più alta carica religiosa volesse intraprendere quell'impresa folle, totalmente improvvisata.
Amara si sentiva avvolta da uno strano torpore, piacevole, pervasa da una fede cieca. La colazione a base di fichi sciolti e pancaldo le aveva sistemato lo stomaco; stava comoda nei suoi sandali intrecciati. Era pronta per partire.

Cilicia meridionale, base marittima eloha

L'essere cadde floscio al suolo, il guazzo rumore delle sue viscere non disgustò gli spettatori, abituati a quello scenario.
«Non va» la scienziata scosse la testa, esasperata. «Nemmeno questo prototipo riesce ad essere vitale.»
Il tirocinante, un giovane studente di genetica sintetica, era anch'egli angosciato. «Dottoressa, a volte penso che questo nuovo progetto sia troppo anche per noi...» provò a dire, ma gli uscì poco fiato, intimorito da lei come se fosse ancora al primo giorno di alternanza studio-lavoro. «Ecco, glielo dico: dato che dopo la generazione adàm non siamo più riusciti a fare passi avanti, mi domando se il corredo genico su cui lavoriamo sia davvero biocompatibile con la creatura che stiamo...»
«La creatura che sto manipolando» lo corresse la mentore, poggiando sul bancone più vicino gli occhiali da vista «e che deve necessariamente superare le prestazioni degli adamiti. Ordini dell'altissimo Elyon, lo sai.»
L'altro annuì una sola volta, teso, chiese una pausa. Mentre l'addetto alle pulizie toglieva i resti umani dal mattonato, il ragazzo andò e torno nel laboratorio con un bicchiere di latte e miele per la dottoressa. Il calore della bevanda le scivolò giù per la gola, rabbonendola.
«Ninurta, vuoi ancora lavorare con me?» chiese a bruciapelo, con voce stoica.
Il tirocinante alzò di scatto la testa per guardarla: la donna era altissima, scura e magra come una palma da cocco. Le disse sicuro: «Dottoressa, lei è la miglior genetista del continente. Continuerei a lavorare anche se mi chiedesse di smembrare un eloah per ricavarne massa sperimentale.»
«In passato lo abbiamo fatto, per dare origine agli adàm, le genti della Cappadocia» rimembrò lei, sorseggiando l'ultima goccia di latte caprino. «Abbiamo versato molto del nostro sangue e del nostro sperma per mettere in piedi l'adàm. Erano i tempi d'oro, per noi eloah, tempi in cui le razze erano ancora sotto controllo.»
Ninurta le diede ragione, poi si lasciò distrarre dal proprio stomaco. «Ha fame, dottoressa? Oggi c'è la grigliata con gli ingegneri dell'edificio Affari Nucleari, ci stanno aspettando.»
«Oh, amo l'agnello scottato, andiamo.»
La pausa pranzo era vicina, così spensero le luci e, insieme agli altri tecnici del laboratorio, lasciarono vuoto il settore di fecondazione artificiale. La struttura discoidale del polo scientifico era una delle poche rimaste al mondo; il più degli eloah aveva smesso di tenere i piedi a terra: avevano trasferito i loro apparati principali in orbita, da qualche parte nel sistema solare. Erano in contatto con i loro colleghi terrestri, ma tra questi ultimi i rapporti si facevano tesi decennio dopo decennio; ogni eloah di alto rango voleva sempre di più: terre, prestigio, popoli da assoggettare.
«Ecco il duo più pericoloso della base marittima!» Uno dei tecnici aerospaziali li accolse com'era solito, insieme ad altri sguardi di ammirazione e rispetto; la dottoressa era una delle personalità di spicco tra gli eloah mediorientali. I volti scuri dei suoi colleghi non erano molto diversi dagli umani che li servivano, trasportando mucchi di carne scelta sulla megalitica griglia circolare.
La dottoressa, mettendosi comoda su una sdraio di canapa intrecciata, fissò assorta le schiene curve degli schiavi. «Da dove vengono questi uomini?» chiese allora. «Dalle fattezze si nota immediatamente che non sono adamiti.»
Le rispose Ninurta, piegando le gambe tozze su un panchetto accanto a lei: «Li hanno prelevati dal continente bruciato dal sole. Rispetto all'assertività degli adamiti hanno, però, un'eccezionale resistenza fisica e meno fenotipi difettosi.»
«Certo, hanno molti più geni selvatici» ricordò la scienziata, accettando un antipasto di capra allo spiedo. «Tuttavia, anche loro sono stati generati dagli esperimenti dei nostri antenati, decine di migliaia di anni fa. Molto meno modificati dei successivi adamiti, comunque, e quindi meno adatti alle nostre attuali esigenze.» Sembrava che stesse facendo un discorso fra sé, come se avesse costantemente bisogno di convincersi che il suo progetto fosse cosa buona e giusta. Forse, nemmeno lei ne era più così convinta.
Da quella distanza ridotta il tirocinante poteva osservare ogni poro della sua pelle, come il viso nero della dottoressa sembrava farsi addirittura più scuro alla luce rovente del sole, sfidando ogni legge cromatica. Solo il diadema autoreggente che aveva al centro della fronte splendeva di mille colori. La testa rasata della scienziata era come uno spillo a monte di un corpo sottile, una spiga di grano impossibile da eradicare. Sentendosi osservata, le labbra spesse di lei si piegarono in una smorfia di disappunto. «Questa carne è troppo secca. Sospetto che non abbiano rispettato la tradizione dei nove mesi prima del macello e della vaporizzazione adiposa.»
«A proposito di vapori» un collega intercettò la lamentela, gridandole da lontano: «il grasso da bruciare è pronto! Dottoressa, fuma con noi?»
«Perché no. Cambiate le braci e alzate le fiamme» confermò lei, facendo un gesto imperioso con la mano. Alcuni pensavano che fosse troppo abituata a comandare, ma le critiche servivano solo a renderla più forte. La dottoressa spostò lo sguardo verso la fascia scintillante del mare e disse: «Ci sono novità sulla questione centro-anatolica?» si rivolse al gruppo di eloah del tavolo accanto, le bocche piene di maiale e capra arrosto.
Le rispose il vecchio Chemosh, che non era un geologo, ma per incarichi di mediazione frequentava spesso quel polo di ricerca: «Solo dati di caratterizzazione eventuale, mia signora, nessuna predizione è fattibile in questo campo. Un sisma al quarto grado su una scala di cinque non è poca cosa. I siti centro-anatolici sono danneggiati, le perdite umane aumentano di ora in ora.»
«Le perdite umane non sono un problema,» rifletté ad alta voce la genetista «quelle bestie si riproducono come conigli. Questo è il principale problema del mondo: la tendenza alla sovrappopolazione. La creatura che sto progettando è sterile, risolverà il dramma.»
Chemosh mantenne la pazienza, mal sopportando l'egocentrismo della scienziata. «Ne siamo al corrente, dottoressa. In verità, a proposito di questo, ci chiediamo come avverrà l'impianto dei tuoi nuovi esseri umani in Anatolia.»
Lei finse di pensarci, poi rispose rilassata: «Otterrò il permesso delle cerchie governative interne per eradicare gli adamiti difettosi
Si creò un momento di silenzio, un buco cosmico in quella parte di terra remota, dove nessun uomo libero poteva mettere piede. Chemosh era esterrefatto; i metodi della dottoressa ricordavano quelli di un altro eloah estremamente pericoloso e chiacchierato: Yahweh, un giovane militare senza coscienza né scrupolo, che operava in una striscia di terra devastata da ogni tipo di violenza. La pulizia etnica era la sua attività preferita, e la genetista sembrava condividere quel tipo di mentalità.
«Ne sei certa, mia signora?» a Chemosh venne la pelle d'oca e la nascose. «Gli adamiti sono radicati nella terra, ormai. In passato hanno stretto patti con te, lavorano per te vivono per te.»
Anche Ninurta era sbigottito; la sua mentore non gli aveva mai rivelato il disegno finale così, di getto, come se stesse cercando di impressionare i colleghi e basta. Ne fu deluso e anche spaventato. L'entità di lei gli parve immensa e pericolosa.
Il clima si fece torrido. Il suolo arroventato scottava i piedi dei lavoratori fasciati da sandali bassi. Gli eloah inalarono il vapore di grasso animale e rimasero a rilassarsi per altri minuti, poi si alzarono per tornare nei loro uffici. Nella piazza dove si era tenuta la grigliata rimase solo il mobilio di vimini e la griglia scoppiettante. Prima di andarsene, però, Chemosh zoppicò fino alla figura di spalle della dottoressa. Voleva parlarle in privato, il tirocinante lo capì e si allontanò verso i laboratori.
L'anziano decise di mettere da parte i formalismi e chiese alla genetista, con l'amaro in bocca: «Che cosa stai facendo, Sol? Noi eloah non abbiamo forse massacrato abbastanza umani?»
Allora Sol si voltò a guardarlo. «Cosa c'è, Chemosh? Hai vissuto troppo a lungo tra gli uomini da dimenticare quello che siamo per loro? Noi siamo i loro dèi, abbiamo sapere e tecnologia: apriamo il palmo e loro vivono, chiudiamo il pugno ed essi muoiono.»

Deserto Illune, Anatolia centromeridionale

La carovana procedeva senza animali da traino, spedita e carica di beni necessari.
Erano in viaggio da un giorno e tutto andava bene, si chiedevano chi mai avesse inventato le storie sull'assoluta pericolosità di quelle terre: c'era nient'altro che desolazione. Avevano fatto una sosta per attingere acqua potabile a Fonte Criptica, considerata una benedizione tra le profonde formazioni rocciose del deserto. Amara e la sua scorta avevano cessato ogni formalismo, dandosi del tu.
«Una volta arrivati ai Varchi Alteri non potremo prevedere il comportamento dei Santi» diceva il Gran Sacerdote, Fasto, piluccando formaggio di cammello da una ciotola. «Ammesso che siano ancora lì.» Vedere il religioso fasciato da poche e semplici vesti incuriosiva i presenti all'interno del convoglio. Ammirare il corpo scolpito di un sacerdote non era sconveniente; culturalmente era convinzione che l'estetica dovesse riflettere la qualità dell'anima.
«In effetti, gli ultimi racconti sui Santi risalgono a millenni fa, addirittura prima dell'Età Dorata con la Grande Madre tra gli uomini» convenne Vitrèo, una delle guardie templari, legando rozzamente i rasta alla base della nuca.
«Ricordo che i primi esploratori furono anche gli ultimi. L'unico sopravvissuto tornò a Petrosa raccontando di un attraversamento: quelli che erano con lui sono spariti dopo essersi avvicinati troppo ai Varchi. Passare attraverso i Santi potrebbe essere come morire, chi lo sa. O magari, il coraggio sarebbe ripagato con l'arrivo nel Regno dei Cieli» commentava Plumbeo, la seconda guardia del tempio, un uomo di mezza età dallo spirito giovanile e la zazzera crespa. La sua fede nell'aldilà era gioiosa e pura, a differenza di molti uomini profondamente timorati della Dea.
Amara ascoltava in silenzio, le gambe incrociate sotto al vestito. Giocherellava con gli anelli di ottone intrecciati alle dita, aveva lo stomaco chiuso. Sebbene l'interno della carovana fosse quanto di più comodo cuscini di piume e coperte di pecora potessero garantire, l'oracolo si sentiva costantemente scomoda. Cambiava posizione più spesso degli altri e questi lo notavano, ma non osavano disturbarla con domande inopportune: non volevano sapere dell'abisso di quegli occhi scuri, dalle palpebre calate a metà. Le guardie credevano che l'oracolo portasse in sé verità esclusive, segreti al di sopra del volgo. Solo Amara e il Gran Sacerdote sapevano che non era affatto così: la ragazza non sapeva nulla più di quanto sapessero le caste religiose più basse; le leggi e il sapere pratico che la dea Sol aveva lasciato era sintetizzabile in un unico tomo comprensibile ai più. Nel tempo, il clero aveva innalzato una cortina di mistero mettendo insieme i più disparati contorsionismi teologici. Amara era cresciuta pregna di quello: gomitoli di discorsi volti a celebrare il mistero della dea, la sua divinità cosmica. Nei secoli dei secoli, i teologi della dea Madre avevano astratto il suo essere e le sue eredità, volutamente. Così avevano unificato il popolo in un eterno monoteismo.
«So che siete tesi» Amara prese parola; voleva tirare fuori l'argomento che gli altri tre evitavano. «So cosa pensate sui rischi di questo viaggio. Ma finora è andato tutto bene, significa che la Dea Madre ci protegge, che è con noi. No?»
Gli uomini reagirono diversamente. Fasto le prese la mano e iniziò a pregare con lei, Vitrèo guardò in faccia Plumbeo, che si era unito al salmo, ma non volle partecipare; la guardia più giovane nutriva uno scetticismo malcelato, quasi irrispettoso nei confronti dell'oracolo. Quest'ultima stringeva il piccolo ciondolo d'oro al collo, l'incisione della figura mistica di Sol: l'aureola di santità e le fattezze negroidi erano all'apice del gusto estetico dell'etnia. I suoi devoti avevano scavato intere montagne solo per riempirle di Lei, della figura dell'Altissima.
«Oh, Eterna. Tu che sei il sole, la luna, il varco per l'aldilà. Unica speranza dopo la morte, il principio e la fine. I Tuoi occhi percorrono distanze siderali, Tu che tutto sai e tutto muovi, sostienici. Proteggi il nostro viaggio» recitarono all'unisono. «Guarda i tuoi figli, stendi il Tuo manto di stelle, oh Regina, Madre, stella nel mattino e faro nella sera...»
«Eccoci ai Solchi Sabbiosi» disse Vitrèo, mettendo gli altri sull'attenti. «I Varchi sono vicini.»
Il piccolo convoglio levitava a pochi centimetri da suolo, appesantito dal carico umano, di cibo e di armi da difesa. La rotta era preimpostata con una programmazione magnetica; la navetta non poteva sbagliare, era quanto di più tecnologico possedessero i nobili di Petrosa: uno dei pochi superstiti dell'antica tecnologia divina. Tuttavia, non era un mezzo di trasporto a prova di insidie.
«Plumbeo, tu sai come si guida questa cosa, no? Dobbiamo rallentare, vedo una macchia in lontananza» annunciò Fasto, spingendo la guardia più anziana verso la plancia di comando.
Quello che sembrava un miraggio si fece sempre più vicino, i contorni si fecero nitidi in ciò che erano proprio figure di uomini, strutture, macchine da scavo.
Increduli, i viaggiatori fecero fermare la carovana nei pressi; nessuno li aveva segnalati o fermati, per un attimo sembrò che volessero ignorarli, poi gli uomini accerchiarono la navetta levitante. Non sembravano ostili, ma Amara tremava lo stesso.
Il sole accecava i volti arsi degli stranieri. «Dove state andando?» chiese uno, vestito di una tunica dalla fattura aliena, per un abitante di Petrosa.
Parlò Fasto, scendendo dalla vettura alzò una nuvoletta di sabbia: «Voi, piuttosto, cosa state facendo? È pericoloso sostare in queste terre. Cosa sono quelle macchine?» indicò incroci metallici dotati di ruote che non aveva mai visto, una tecnologia sconosciuta ma quasi arretrata, rispetto alle opzioni che offriva la levitazione.
«Fratello, che cosa stai dicendo?» l'omone scoppiò a ridere, sebbene fosse nero come i viaggiatori la stazza era sensibilmente maggiore. «Non c'è nessun pericolo, qui. È una terra di mezzo, non c'è nessun eloah ad amministrarlo. Noi veniamo da Uruk, ma estraiamo rame per gli dèi gizi di Saqqara. Si dice che abbiano in mente un glorioso progetto piramidale.»
Allora Amara barcollò fino a lui, sentiva la bocca secca. «Ma di quali dèi vai parlando, empio? Esiste una sola dea, Creatrice dell'universo, ed è Sol.»
Un silenzio surreale calò tra i presenti, che si raccolsero ancora più vicini. Anche Vitrèo e Plumbeo erano scesi dal convoglio e tacevano, fissando i minatori. Questi avevano la fronte aggrottata e sembravano irritati. «A lavoro» ordinò il capo dei manovali, «ignorate questi poveri pazzi.»
Amara accolse l'offesa con sdegno. Il vento del deserto le scompigliava i capelli corvini, i pendenti dei bracciali tintinnarono furiosamente quando fece cenno ai suoi accompagnatori. «A bordo, svelti! Andiamo avanti» disse.
Eloah? Uruk? Che significano queste parole? Chi erano quegli uomini? Dove sono le creature mitologiche che dovrebbero abitare questi posti? Pensò, sconvolta. Quello fu l'inizio della malattia che l'avrebbe corrosa: il dubbio.
Il gruppo procedette per pochi minuti, finché fu investito da una nube grigiastra: proveniva da una delle macchine in lontananza degli estrattori di rame. Quella colonna asfissiante invase il piccolo ambiente della navetta, i viaggiatori iniziarono a tossire spasmodicamente. Nessuno ebbe il tempo di parlare. Vitrèo allungò una mano, appena in tempo per aumentare la velocità del convoglio, poi collassò, seguito dalla guardia più anziana. Non avevano mai sperimentato un simile evento di asfissia, ma Amara e Fasto ebbero l'istinto di coprirsi naso e bocca con un doppio tessuto filtrante. Non erano attrezzati per quello, ma lino e lana svolsero il compito di salvare loro la vita.
Rinvennero al tramonto. Si accorsero che la navetta si era fermata, una strana luce biancastra proveniva da fuori. Sembrava viva, si muoveva in fasci come un'aurora boreale.
«State... State tutti bene?» chiese sommessamente Amara, strizzando gli occhi e tossendo.
Rispose solo Fasto: «Li ho buttati giù. Ora sono con la terra.»
«Cosa hai fatto?» scattò l'oracolo, ma il sacerdote le rivelò che erano morti nell'invasione di fumo e la navetta aveva viaggiato per troppo a lungo con quel peso. Appena destato, Fasto li aveva fatti rotolare fuori, tra le sabbie del deserto.
Amara rimase svariati minuti con una mano davanti alla bocca. Non aveva la forza di pregare, così cercò negli occhi scuri di Fasto una speranza. «Dove siamo arrivati?»
Lui le fece cenno di guardare fuori. «Ai Varchi Alteri.»

Nessuna speculazione teologica avrebbe potuto spiegare quella visione.
Amara e Fasto si prostravano con le ginocchia nella sabbia, affondavano le mani nei sottili granuli e sentirono venir meno il coraggio di guardare. Lembi delle vesti leggere di Amara fluttuavano al vento, irradiandosi a fasci dietro di lei. Anche l'oracolo, agli occhi di Fasto, faceva parte di quel paesaggio onirico, come se fosse in un posto adatto a lei.
I Santi non vedevano, perché non avevano occhi, né parlavano, perché non avevano bocca, né orecchie. Non avevano mani, né un corpo. I Santi erano pura energia distribuita in modo sferico, deformativo. Non si aspettavano che fossero tridimensionali, luminosi sì, ma non così silenziosi. Non emettevano alcun suono, aldilà di questi nulla sembrava importante.
Oh, mia Dea, dove sei? Non ho forze per continuare a chiamarti. Ti supplico... Fatti vedere. Amara si lasciò andare allo sconforto.
Fasto non sapeva cosa dire. Anch'egli aveva intonato le preghiere più lusinghiere, più stancanti, ma a nulla era servito. Tutto quello che si aspettavano di trovare nei Santi – connessione, spiritualità, contatto diretto con la dea – non c'era. Ma una cosa era chiara: i Santi erano porte per qualunque luogo ci fosse aldilà.
«Uno di noi deve entrare» disse allora il Gran Sacerdote. «E uno deve restare per tornare indietro a rassicurare il popolo, o a Petrosa scoppierà il caos.»
Amara lo guardò con le palpebre gonfie e le labbra viola, secche di sale e tristezza. Fasto intercettò nei suoi occhi la paura di una ragazza semplice, di un oracolo finto, buono solo per l'immagine.
Amara chinò la testa, facendola quasi ciondolare. «Vado.»
«No, andrò io» dichiarò l'altro, con i muscoli delle gambe tremanti. Aveva la fronte imperlata di sudore, e Amara capì che quella sarebbe stata l'ultima volta che l'avrebbe visto. Non tentò di fermarlo.
Nulla era distinguibile all'interno dei Santi; le distorsioni nel loro centro erano insondabili. Insieme, essi si presentavano come sfere sospese sulle ultime dune prima della cresta montana che divideva il deserto dalla costa.
«Amara,» Fasto le venne incontro e le afferrò le mani. Le giunse in preghiera e le spinse contro il petto di lei «siamo arrivati a destinazione. Dopo questo... Solo la Dea sa cosa mi aspetta. Ma qui finisce ogni umana comprensione. Io non so se la troverò, in verità, nessuno sa perché Sol sia sparita. Il clero finge di saperlo; astrae motivi inesistenti per confondere Petrosa.» Quella confessione balbettata, quelle parole disperate, gettarono Amara nella più totale costernazione. La ragazza iniziò ad ansimare per l'angoscia, le sclere le divennero iniettate di sangue.
«Buon viaggio, trova la via del ritorno» pianse Amara, vedendolo avvicinare incerto a uno dei Santi. Uno qualsiasi, scelto senza criterio, come l'intero viaggio.
Il Santo sembrava qualcosa di vivo e di morto allo stesso tempo. Silente, la sfera luminosa esibiva nella sua immobilità e simmetria. Ingoiò il corpo del sacerdote. Amara lo vide scomparire nella luce; sembrava che quel trapasso succhiasse via la carne e la vita. Fasto urlò di dolore durante il passaggio, poi il silenzio.
Amara rimase sola nel vento. Si tirò all'indietro il cuoio capelluto, strappandosi qualche lungo capello. L'ansia la pervase.

Perché non ti sento, Madre? Perché non ti ho mai sentita davvero? Perché hai lasciato morire i miei compagni di viaggio?
Allora Amara fu tentata di salire sulla navetta e non tornare indietro, bensì andare avanti, oltre la bassa catena montuosa.
I popoli selvaggi... Forse loro sanno qualcosa in più dell'ignoranza in cui vive Petrosa! Rifletté rabbiosamente. Io a che servo, arrivata a questo punto? Dovrei tornare tra la mia gente e continuare a fingere? Mi farebbero certamente continuare a mentire, dire che la Dea ha parlato e che andrà tutto bene. No... Io mi rifiuto di tornare senza aver tentato qualcosa in più.
Tremava di paura. Non era mai stata sola, mai così isolata. Arrivata a quel punto, sentiva affievolire il suo istinto di sopravvivenza, ed era proprio quello che la spingeva ad osare.
Salì sulla navetta e viaggiò in linea retta. L'energia giroscopica del mezzo riuscì a risalire e ridiscendere la catena attraverso un passo sicuro, così si lasciò alle spalle le cime a calanchi, erose da antiche piogge acide.
Amara si rese conto di essersi addormentata solo quando il mezzo si fermò senza motivo. Il sole stava sorgendo. Scese a tentoni, colta da una stanchezza misteriosa. Se davanti ai Santi non le erano cadute le gambe, le forze la abbandonarono in quel momento di fronte a quello che vide. Il convoglio levitante si era fermato al limite di una via spianata di grigio, larga, poteva accogliere quindici carri fianco a fianco. All'orizzonte, Amara vide un'opera mastodontica, come una piramide a gradoni, ma a pianta circolare, ergersi scura alla base e metallica ai piani alti. Lastre di quel materiale da rivestimento si avviluppavano in un'architettura sconosciuta, che mise in crisi il senso etico ed estetico di Amara.
Questi non sono popoli selvaggi. Anche questa era una bugia del tempio, per tenere il popolo soggetto al potere clericale?
Iniziò a correre a perdifiato verso quelle strutture, articolate in edifici ovoidali più piccoli, disposti in semicerchio rispetto al monte artificiale. Tutto brulicava di attività, si distinguevano figure e mezzi in movimento.
Amara correva e sentiva il petto bruciare, stretto dalla paura e dall'adrenalina. Stringeva alla coscia l'unica arma più utile che aveva recuperato dal vano bagagli della navetta, un lungo pugnale di ossidiana. Non sapeva che sarebbe servita a meno di niente, contro le più avanzate tecnologie di quelli che si credeva fossero selvaggi.
Il complesso non aveva sistemi di difesa visibili, Amara correva e vedeva persone farsi sempre più vicine: erano indaffarati, chi alla guida di mezzi ignoti, chi a mezz'aria su palchi di ristrutturazione, chi a piedi diretto verso porte e porticati. Soprattutto, vi erano nuvole di piccoli dispositivi levitanti, come insetti da ricognizione, in circolo sulle varie cerchie concentriche verso l'alto.
«Ferma.»
Amara si arrestò, con occhi sbarrati. Una voce metallica e impersonale le aveva ordinato di restare dov'era, a poche centinaia di metri da quello che sembrava uno dei tanti ingressi alla megastruttura. La ragazza guardò verso il drone, paralizzata. Una spia luminosa precedette l'arrivo di quelli che dovevano essere i guardiani dell'ala est.
Amara, scompigliata e con le vesti leggere e sporche, si trovò al cospetto di due esseri altissimi, di età differenti, vestiti con stoffe aderenti, a maglia strettissima, che mai avrebbero raggiunto Petrosa. Erano a piedi e non sembravano ostili.
«Chi sei, creaturina?»
Amara esitò. «Sono l'oracolo di Petrosa. Sacerdotessa della dea Madre.»
«Dea madre?» fece uno, grattandosi una barba ispida. Poi sembrò avere un'illuminazione. «Sol? Cerchi per caso Sol?»
«Come osi pronunciare il Suo nome,» si affannò la ragazza, con gambe tremanti «io... io sola ho il diritto di comunicare con Lei. Ma non so dov'è, non so...» si confuse. Gli sguardi divertiti dei suoi interlocutori, due eloah del dipartimento infrastrutture, la misero in crisi. Allora uno di loro prese parola e non fu delicato.
«Sol è ai laboratori del sesto piano. Solitamente a quest'ora fa il cambio turno, seguimi.»

Amara credeva che la bellezza fosse una miscela di verità e certezza.
Credeva in dogmi millenari, Amara credeva in molte cose. Eppure, le era bastata una semplice frase, una porta scorrevole. Una donna curva su una scrivania. Tutte le sue verità e certezze erano crollate, un castello di sabbia.
«Non sapete leggere gli schermi? Non sono ammessi visitatori.»
«Dottoressa, quest'umana è sconvolta, ha fatto un lungo viaggio solo per vedere lei. Le conceda qualche minuto» la introdusse un eloah frettoloso di tornare in ufficio.
Rimaste sole, Sol si tolse gli occhiali da vista e guardò Amara. «Bene, ma disattivate quell'allarme corpo estraneo, mi sta snervando» l'eloah scomparve per il corridoio e la dottoressa si massaggiò l'attaccatura del naso, si pulì le mani affusolate sul camice. «Allora?»
Lentamente, Amara poggiò le ginocchia sul pavimento. La testa le pulsava, i pensieri erano una massa in fiamme. «Non sei spirito. Sei viva... Sei carne... e ossa.»
La genetista realizzò improvvisamente il senso di quella lamentazione e si morse un labbro, impietosita. «Tu sei un'adamita. Da quale città?»
Amara non rispose più. Aveva gli occhi pieni di patimento, tremava come un ramoscello nella tempesta. Un boato di emozioni le sconquassava il petto. Da quel momento, trovò in sé una forza sconosciuta per iniziare a fare domande. «Perché... Perché ci hai creato e poi abbandonato?»
La luce del giorno tagliava il volto nero di Sol, una luna a metà. Tra le varie differenze fisiche, il cranio dolicocefalo di Sol confermava l'appartenenza a una razza superiore, la progenitrice. La dea rimase seduta, in piedi avrebbe sovrastato il corpo minuto di Amara.
«No, piccola, "creato" non è il termine esatto: direi "sintetizzato". Nozioni di ingegneria molecolare ignote a voi adamiti; non ho avuto modo di trasmettervi la concretezza e ripetibilità della genetica applicata. Ti trovi a Babele, ragazza, polo scientifico e spazioporto. Sai cosa significano questi termini?»
Amara scosse piano la testa, Sol rinunciò a spiegarglielo. La invitò a sedersi, le braccia lunghe della dea entrarono nel campo visivo della sacerdotessa, indebolita come un pesce nel suolo secco.
«Credevo che avessi poteri... sovrannaturali» disse allora la ragazza, con una semplicità esausta.
La dottoressa scrollò le spalle, orientandosi verso un bancone pieno di provette e attrezzi del mestiere. «No, mia cara, noi eloah non c'entriamo. La geologia del pianeta è solo osservabile, anche da quelle che voi chiamate "divinità".»
«Voglio il senso di tutto questo, perché sono nata e cresciuta e vissuta in una bugia» Amara traboccò, le brocche dei suoi occhi colarono acqua e sale. «Che... Che razza di persone siete? Da dove venite?»
Sol si fermò, a disagio. Si voltò nuovamente a fissarla, appoggiò il bacino sulle piastrelle della cappa aspiratrice. «Sei sicura di volerlo sapere? Potrebbe costarti la vita. Noi eloah non amiamo che la nostra natura mortale sia rivelata ai sottoprodotti
«Non m'interessa,» dichiarò l'altra, pervasa da una rabbia grande quanto il mondo e da una curiosità cosmica. «Dimmi le tue verità e poi uccidimi. Non voglio vivere un secondo di più nella menzogna.»
Le labbra di Sol si schiusero di ammirazione. Da sempre aveva avuto che fare con umani troppo attaccati alla vita per i suoi gusti, a volte l'istinto di sopravvivenza non era che un mero difetto di fabbrica. Invece, quella piccola femmina mostrava una saggezza rara.
«Betelgeuse, si chiama» rispose Sol, calma. «Noi eloah veniamo da una costellazione vicina, abbiamo colonizzato questo pianeta dalle immense risorse. In questo momento, altre storie simili si intrecciano sul pianeta; uomini che parlano con altri eloah e prendono ordini da loro. Voi umani, con tutte le vostre varianti, siete stati fabbricati per servirci.»
Qualcosa si spezzò nel ventre di Amara. Forse una vena, o un flusso di pensieri, quell'alito di vita che la teneva lucida. Si strofinò le mani contro la faccia.
«Che cosa puoi fare, Sol? Cosa puoi fare per proteggere la mia gente?»
«Niente.»
La giovane avvertì una sensazione tremenda, come lo sciogliersi indolore dei suoi organi interni. La delusione, l'onta, il disprezzo: una zuppa penosa, un boccone bloccato in gola. Il respiro arrivava spezzato nei suoi polmoni quando chiese: «Cosa sono i Santi?»
«Santi?»
«I Varchi,» insistette Amara. «A est della catena. Quelle dannate sfere, dove portano?»
Sol si pulì la maglia sporca di terreno di coltura liofilizzato. «Capisco... Intenti le distorsioni spaziali? Sono buchi neri generati da eloah scellerati, quegli incapaci dell'acceleratore di particelle subatomiche. Meglio stare lontani da quegli inutili esperimenti falliti.» A quel punto, dato il silenzio e l'immobilità della ragazza, Sol riprese parola: «Sei un pezzo interessante, comunque. Una femmina adamita... Ricordo i tempi dei primi cloni: Adamo, Lilith ed Eva. Io lavoravo nella cupola di sintesi, ero co-responsabile insieme a Inanna, ora regina nelle terre d'oriente. Loro erano imperfetti, utili, passionali e disubbidienti come voi discendenti. Finché non venne Yahweh a interferire con la ricerca scientifica, il Gan Eden era una delle serre migliori per sfruttare umani e animali.»
«Basta,» Amara strinse le sue logore vesti «non voglio sapere più niente. Basta.»
Sol tacque.
Così trascorsero minuti che parvero millenni. Nel luminoso laboratorio, il pulviscolo in sospensione danzava nei raggi solari come infiniti mondi in un universo del tutto privo di senso, dominato dalla sola casualità delle cose. Era quella la verità sulla quale gettare l'ancora: l'entropia era l'unica entità trascendentale. Né Sol, né gli altri eloah sarebbero vissuti in eterno. Nel lungo arco della loro vita, però, gli antichi astronauti avrebbero continuato a regnare sugli uomini, ad accoppiarsi con loro, a massacrarli a piacere.

Dio ammonì la popolazione che, qualora non lo avessero ascoltato, avrebbe inviato loro bestie feroci: "che vi rapiranno i figli, stermineranno il vostro bestiame, vi ridurranno a un piccolo numero, e le vostre strade diventeranno deserte."

Levitico, 26:22 

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