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L'Archivio | @im_m03

di im_m03

Prima parte

Lukas Verest tornò alle otto di sera, il lavoro all'officina lo aveva costretto a rimanere alcune ore in più per finire la riparazione di un veicolo di una signora anziana. Mentre la riparava, la vecchia gli raccontò dell'ennesimo caso di un giovane tra i venti e trent'anni condannato all'Oblio. Quelle storie gli facevano venire la pelle d'oca, si chiedeva cosa diavolo il significasse essere "condannato all'Oblio". Per tutta la durata del lavoro, quelle tre parole diventarono un pensiero fisso. Provava dispiacere per i genitori di quel giovane, i quali avrebbero pianto la sua dipartita con un dolore che nessuno avrebbe mai voluto sentire sulla propria pelle.
Entrò in casa, il silenzio assoluto lo accolse. Ripose la giacca in pelle marrone sull'attaccapanni e si diresse in cucina dove Lia, sua figlia, stava cucinando la cena.
«Dove sono Rory e Bruno?» chiese curioso guardandosi attorno alla ricerca dei due bambini di cui non vi era alcuna traccia.
«A letto» rispose Lia con voce esausta. «Oggi è stata una giornata pesante per loro.»
«La è stata anche per te?»
Sua figlia si volse verso di lui. Attorno ai suoi occhi verde scuri, le occhiaie grigie risposero alla sua domanda. Lukas si chiedeva perché continuasse a fare quel maledetto lavoro. Registrare le fatture per nove ore al giorno per sette giorni alla settimana la stavano prosciugando.
«Sì, come ogni altro giorno» rispose, infine.
Tornò a concentrarsi sulla padella, la carne si stava abbrustolendo, quindi la volse sull'altro lato. Il suo sguardo si fissò sul pezzo di manzo.
«Mi sono licenziata» disse come se avesse commesso un peccato gravissimo. «D-domani, ho un colloquio...»
Lukas non capiva se essere contento o essere terrorizzato dalle sue parole colme di paura. Insicuro chiese: «Dove?»
«L'Archivio» rispose senza accennare ad un minimo movimento.
A suo padre mancò un battito. Nella sua mente, un senso di terrore lo folgorò. Il formicolio si propagò in tutto il suo corpo robusto e dai muscoli sviluppati. Non riusciva né a muoversi né a dire una parola.
Lia prese la padella e mise la bistecca nei loro piatti, infine la ripose sopra i fornelli dietro di lei. «Buon appetito, papà.»

Il mattino seguente, Lia si vestì con una giacca e pantaloni blu scuri, si mise la camicia bianco latte che ha sempre tenuto dentro l'armadio per le occasioni di vitale importanza. Si sistemò in fretta e furia i capelli castani scuri, non poteva legarseli come faceva di solito, così optò di lasciarli liberi tirandoseli indietro. Si mise un pò di trucco sulle due occhiaie per nasconderle. Prima di uscire di casa i bambini le fecero i complimenti, specialmente Rory la quale le disse che era una musa.
I loro complimenti rimasero fissi nella sua testa per tutto il tragitto. Venendo dai quartieri esterni della città, Lia dovette usare una strada extraurbana secondaria che passava in mezzo a numerosi grattaceli bianchi e grigi. La zona che stava attraversando White Folder, una delle più grandi zone di Pentecost. Uscì alla prima rampa e andò verso New Order, il cuore pulsante della vita legale dell'Archivio. Le strade e i marciapiedi erano completamente vuoti, neanche un passante nei paraggi. Dopo essersi allontanata dagli uffici legali, si addentrò in un tunnel che collegava New Order a The Center, la sede centrale dell'Archivio. Fra non molto sarebbe arrivata.
A differenza di White Folder e New Order, The Center aveva un solo grande edificio che si elevava verso il cielo, dietro ad esso si potevano vedere gli edifici in lontananza di People's Signature, la parte dove la vita di Pentecost si concentrava maggiormente.

Lia scese dalla sua vettura nera, il suo sguardo perso cominciò ad osservare l'imponenza dell'edificio. Era quello il luogo dove avrebbe sostenuto il colloquio? Solo una piccola percentuale di persone ebbe l'onore di essere chiamati a The Center.
Il cuore le batteva forte. Non era come lo dipingevano quando era una bambina, non era il luogo dove i sogni divenivano realtà. Poteva essere anche la sua condanna a morte, se l'avevano chiamata lì doveva esserci un motivo.
Entrò nell'edificio dopo aver salito le scalinate in marmo rosa, l'atmosfera era cupa e l'illuminazione era gestita da blocchi di parallelepipedi immobili e sospesi in aria. In mezzo alla stanza vi era collocata una grande scrivania bianca, l'addetta (un pò più vecchia di lei) guardava lo schermo del suo terminale e batteva sulla tastiera senza mai fermarsi.
Lia si avvicinò al banco. L'addetta le diede un'occhiata veloce, poi si rimise a battere sulla tastiera i cui tasti erano consumati. Seguì un breve silenzio, poi la signora parlò con voce acida: «Nome?»
«Lia Verest.»
Riprese a scrivere sulla tastiera e si fermò dopo qualche secondo. «Prosegua dritto» le disse con lo stesso timbro di voce. «Le auguro una buona giornata, signora.»
Dietro alla scrivania si aprì un corridoio. Lia non l'aveva visto quando è entrata nella struttura, il corridoio era coperto da una porta di forma ovale illuminata da una linea retta di parallelepipedi come quelli che ha visto poco fa. Proseguì dritto, l'intensità delle luci diminuiva al suo passaggio per poi tornare al livello normale. Non aveva mai visto nulla del genere.

Uscì dal corridoio. Due scacchiere di scrivanie si mostrarono davanti a lei, uomini e donne che scrivevano su computer come quello che aveva la segretaria. Lia non vide alcun ufficio, né una sala d'attesa né un banco informazioni.
Possibile che la segretaria l'abbia mandata nel posto sbagliato?
Il pensiero svanì quando un uomo le venne incontro dal lato opposto della stanza. Alto con un poco di barba, occhi color nocciola chiari, capelli del colore del carbone dritti un pò sbiaditi. I suoi vestiti le ricordavano vagamente i suoi: egli indossava vestiti beige, usava una cintura in pelle nera per tenerli attorno alla vita e sul petto sinistro la spilla a forma di cartella, il simbolo dell'Archivio.
«Mi scusi se arrivo soltanto ora, signora Verest» si scusò l'uomo porgendole la mano sinistra. «Quando ho un compito da svolgere, concentro tutte le mie energie su quest'ultimo prima della pausa pranzo.»
Il suo orologio segnava le dieci appena scattate. Che abbia delle scadenze da rispettare, Lia lo aveva capito. Strinse la mano dell'uomo dosando la forza. Secondo un articolo di un'agenzia del lavoro che trovò in rete, una buona stretta di mano era fondamentale per decretare il successo di un colloquio di lavoro. Interpretò le nozioni che aveva letto alla lettera.
«Piacere di conoscerla, signor...» chiese cordiale.
«Benjamin Reyold, signora Verest» si presentò alzando e abbassando la stretta di mano a ritmo alternato.
Benjamin Reyold accompagnò Lia Verest nel suo ufficio passando in mezzo alle scrivanie dei suoi dipendenti. La donna studiò i lavoratori focalizzati ad adempiere il loro compito. Alcuni di loro non usavano il terminale che avevano sui loro tavoli, ma si servivano di penne e matite e un quadernino su cui scrivevano una serie di parole.
«Interessante, non trova signora Verest?» chiese il signor Reyold. «Per alcuni documenti, ci dobbiamo servire degli vecchi strumenti.»
«Interessante» commentò Lia senza mostrare emozioni.
Superate le scacchiere di scrivanie, il signor Reyold con accanto Lia, l'accompagnò nel suo ufficio in fondo a destra, subito dopo un breve corridoio. Lia perse il conto di quanti corridoi avesse percorso in tutta la mattinata.
Entrarono, l'ufficio dell'uomo non aveva nulla da invidiare a tutti gli altri uffici che Lia ha visto in diversi colloqui in diverse aziende. Si sedettero, lei su una delle due poltroncine dai cuscini rossi e Reyold dietro la sua scrivania dalla quale tirò fuori da uno dei suoi cassetti una cartella gialla. Sulla linguetta c'era scritto in stampatello "Verest L".
Lo aprì. «Devo dire che il suo curriculum è di tutto rispetto, signora Verest.»
«La ringrazio.»
«Laureata in economia e giurisprudenza con il massimo dei voti, esperta di aziende specializzate nella manipolazione dei dati e... sostenitrice dei diritti individuali delle personalità giuridiche? Potrebbe dirmi che cosa intende quest'ultima voce?»
Lia si schiarì la voce. «Un'azienda non è una proprietà dell'Archivio. Non viviamo in un'epoca storica dove il comunismo detta le regole e tutti si devono adeguare. Le leggi attuali impediscono a tutte persone giuridiche di possedere diritti per le quali sono fondamentali per la vita economica e sociale; come possesso di un patrimonio personale, obbligazioni» Reyold alzò la mano e Lia tacque immediatamente. Avrebbe potuto continuato per ore.
«Credo che abbia reso l'idea» disse soddisfatto. Proseguì «Mi è stato riferito che ieri si è licenziata. Da quello che ho letto nei fascicoli, l'azienda in questione non era il luogo adatto per mettere alla prova le sue conoscenze e capacità, dico bene?»
Lia annuì.
«Il fatto che lei sia un'esperta di economia può giocare un ruolo fondamentale per massimizzare la produttività del processo di immagazzinamento dell'Archivio» disse con tono professionale Reyold. «Ecco la ragione per cui uno dei miei superiori mi ordinato di farla venire qua.»
«Non la seguo» parlò Lia confusa.
«Stiamo cercando una figura che possa cambiare le carte in tavola, signora Verest» la illuminò Reyold con sguardo deciso «Il suo predecessore ha fallito nel suo intento.»
«Il m-mio... predecessore?» continuava a non capire.
«Questo non è importante, signora Verest» la sua risposta fu istantanea, il sorriso che aveva in volto sembrava fasullo. «Un nessuno. Prima un numero, ora uno zero... anzi un numero negativo!»
Lia non sapeva più cosa pensare. L'Archivio l'aveva chiamata per rivoluzionare il loro modo di immagazzinare i dati di tutta la conoscenza dell'uomo, sapeva bene che il meccanismo dell'Archivio era semplice e, allo stesso tempo, difficile da comprendere e, tantomeno, da manipolare. E poi perché necessitavano di una laureata in economia e in giurisprudenza? Questo era il lavoro adatto per un informatico, un esperto di algoritmi e di sequenze di stringhe.
«Signor Reyold, cosa dovrei fare esattamente?» chiese Lia per l'ultima volta, dal suo tono si intuiva che fosse smarrita.
«Rivoluzionare, signora Verest. Rivoluzionare l'Archivio.» dopodiché Reyold si alzò. «Lunedì prossimo, i miei superiori le spiegheranno tutto nel dettaglio. Fino d'allora, si rilassi.»
Si alzò anche lei, incredula di quanto ha sentito uscire dalla bocca dell'uomo.
Le porse di nuovo la mano. D'istinto, il braccio di Lia si mosse per una frazione di secondo, poi lo fermò. Nella sua mente regnava il caos e nulla sembrava avere senso. Vedendola indecisa, Reyold le strinse la mano, cogliendola di sorpresa. I loro sguardi s'incontrarono, il volto pallido dell'uomo la metteva a disagio.
«L'Archivio ripone la sua infinita fiducia in lei, signora Verest. Veda di non deluderlo.» disse accompagnandola all'uscita.

Parte seconda

Il tragitto di ritorno permise a Lia di calmarsi e riorganizzare i suoi pensieri in maniera tale da capire che tipo di lavoro l'Archivio le aveva incaricato di eseguire. La voce sicura e tagliante di Reyold è stata chiara sin dal primo momento che i due s'incontrarono. Per tutta la durata del colloquio, Lia ebbe la strana sensazione che Benjamin Reyold stesse recitando un copione. La sua risposta alla domanda sui diritti individuali delle persone giuridiche è stata inutile; se avesse risposto senza essere stata interrotta, Reyold si sarebbe addormentato. Anche le ultime frasi che uscirono dalla sua bocca erano blande e banali, un altro punto a favore della sua ipotesi.
Rivoluzionare l'Archivio
Suonava più come se fosse la prescelta che avrebbe salvato il mondo dalle tenebre. Questo le riportò alla mente la trama di un libro che prese a Bruno qualche mese fa per il suo compleanno, il bambino si metteva a leggerlo dopo essere tornato da scuola.
L'orologio in cucina segnava mezzogiorno e cinquantatré minuti. Oggi era venerdì, ciò voleva dire che suo padre sarebbe tornato a casa per pranzo assieme ai bambini. Il colloquio le aveva fatto perdere la cognizione del tempo e le sue preoccupazioni l'avevano distolta dal fare da mangiare.
Prese una pentola dal cassetto sotto i fornelli, la riempì d'acqua e la mise sui fornelli accesi. Si diresse verso la dispensa e prese un sacchetto di spaghetti. Sicuramente, suo padre sarebbe stato entusiasta di mangiarli dato che lui mangiava soltanto quelli.
Buttò la pasta nel pentolino con l'acqua che bolliva, con la coda delle orecchie sentì la porta aprirsi: Lukas e i ragazzi erano tornati. Le voci squillanti di Rory e Bruno non passarono inosservate, inoltre, sentì suo padre a cazziarli per aver alzato la voce.
Tipico di lui, pensò sorridendo.
«Il pranzo è pronto! Sbrigatevi, prima che diventi freddo!» mentì Lia.
Dall'altra stanza sentì i "sì" dei bambini.
Gli altri tre membri della famiglia vennero in cucina. Vedendo il tavolo vuoto, Lukas prese in mano la situazione e chiese ai due bambini di aiutarlo ad apparecchiare. Rory andò a prendere le posate, Bruno tirò fuori dalla dispensa quattro piatti fondi e quattro piattine e Lukas a prendere la tovaglia e la distese sul tavolo, dopodiché andò a prendere i bicchieri. Il trio posizionò come si deve tutto l'occorrente per mangiare, mancava solo il mangiare e il bere che arrivarono subito dopo.
I bambini mangiarono a quattro bocche, Lukas non riusciva a pensare in credulo alla piattina vuoto di Bruno, erano rare le volte che il ragazzino lo svuotava. Guardò sua figlia e glielo fece notare, si aspettava una sua risposta, invece ricevette un sorriso contento. Finito di mangiare, Rory e Bruno riposero i piatti nel lavandino e andarono a fare i compiti, lasciando mamma Lia e nonno Lukas al tavolo da soli.
«Vuoi qualcos'altro?» chiese Lia alzandosi.
«No, sono a posto.» rispose l'uomo. «Sei silenziosa.»
Lia aprì l'acqua e si mise a lavare i piatti che c'erano nel lavandino. «Non sono mai stata una grande chiacchierona, papà.»
«Come è andato il colloquio?» chiese speranzoso di sentire che l'avevano assunta.
Sua figlia smise di strofinare la spugna e lasciò scorrere l'acqua. Tecnicamente, il "colloquio" è andato bene e avrebbe iniziato lunedì, giusto? Fece un respiro profondo.
Chiuse il rubinetto e si girò verso di lui con volto inespressivo. «Lunedì cominciò e dovrò incontrare i piani alti dell'Archivio.»
Lukas aprì la bocca esterrefatto. «C-che cosa?!»
«Un loro dipendente mi ha riferito che mi stavano cercando per...» si fermò. Doveva dirlo? O poteva mentire?
«Per?»
«Rivoluzionare l'Archivio» rispose.
«Che cosa significa?»
«Non lo so, lo scoprirò lunedì» disse ritornando a pulire i piatti.

L'ufficio dei vertici dell'Archivio era molto grande e spaziosa. In mezzo alla stanza vi era un tavolo circolare in legno pregiato che Lia riuscì a vedere da lontano. Accanto a lei, Benjamin Reyold l'osservava ricolmo di meraviglia, da un occhio scese una lacrima e Lia non perse l'occasione di passargli un fazzoletto di stoffa.
«Grazie, signora Verest» disse prendendo lo straccetto e si pulì l'occhio. Dopo averlo usato, lo passò alla legittima proprietaria. «Non sono mai stato qui, è il sogno di quando ero un bambino, camminare nel cervello dell'Archivio.»
Lia ascoltava, ma non esalava ad alcuna parola. Perché non teneva a freno la lingua?
«Se posso chiedere, qual era il suo sogno da bambina?»
Ci pensò prima di rispondere. Nella sua infanzia ne aveva di sogni come diventare un'astronauta o un'importante imprenditrice che avrebbe reso tutti felici. Crescendo, però, si rese conto che il suo vero sogno era di lavorare nell'officina di suo padre. Un sogno che lui e sua madre non condividevano, iscrivendola alla facoltà di economia.
«Volevo lavorare nell'officina di mio padre, ma lui non volle» rispose fredda, nascondendo la sua rabbia che provava per quel rifiuto.
Reyold non poté non mostrare il suo dispiacere. «Se la fa stare meglio, i miei genitori mi iscrissero a legge. Mi laureai col massimo dei voti e uno studio legale mi prese... l'odiavo quel posto.»
Per la prima volta, Lia era interessata da Benjamin Reyold. In fondo, loro due avevano un passato simile e ciò li accomunava. Una parte di lei era schiva, voleva allontanarsi il più possibile da lui preferendo la solitudine. Continuò ad ascoltare la sua storia.
«Le cause che le persone muovevano contro l'Archivio scomparivano nel nulla dopo aver presentato la denuncia. Ho passato notti insonni a leggere che... quelle persone furono condannate all'Oblio» raccontò senza scomporsi.
«Condannati all'Oblio?» chiese insicura.
«Secondo il Codice delle Leggi dell'Archivio, la condanna all'Oblio equivale alla cancellazione dall'esistenza stessa. Ovvero smetti di esistere. È un meccanismo che si serve l'Archivio per eliminare i piantagrane e di ottenere un quantitativo di informazioni inimmaginabile.»
«Perché lo fa?»
Reyold la guardò dritta negli occhi. «Non lo so...» rispose tentando di trattenere le lacrime «lo fa e basta, senza che nessuno se ne accorga.»
Una donna si allontanò dal tavolo dirigendosi verso i due richiamati. Il suo andamento era sensuale, Reyold distolse lo sguardo svariate volte pur di non farsi infatuare da quella strana figura. I suoi vestiti erano neri come la pece, non aveva capelli e il colore della sua pelle era bianca come la neve. I suoi occhi dalle iridi azzurre ipnotizzarono Lia.
«I signori la stanno aspettando, signora Verest» annunciò a Lia con voce vellutata, poi si rivolse a Reyold con il medesimo tono. «I signori la ringraziano per i suoi servigi, signor Reyold. Ora può tornare alle sue mansioni quotidiane.»
Reyold salutò le due donne e s'incamminò verso l'ascensore. Quando non si vide più la sua sagoma, la donna dalla voce vellutata parlò di nuovo: «Venga Lia Verest, come ho detto poco fa, i signori la stanno aspettando. Vediamo di non farli attendere ancora un minuto di più.»
Camminarono verso il tavolo a velocità moderata. Lia non sapeva cosa aspettarsi dai "signori" che la donna le aveva menzionato tre volte. Il tavolo aveva dieci sedie di cui solo cinque erano occupate. La luce sopra di loro non aiutava a vedere meglio i volti delle cinque figure losche.
Appena furono vicine abbastanza, una voce proveniente dalla sinistra parlò: «Le diamo il benvenuto, signora Verest,» era la voce di un uomo molto roca «si sieda.»
Si sedette nel posto in mezzo. Ora che si era seduta poteva vedere chiaramente il volto dei cinque "capi" dell'Archivio. Partendo da sinistra, l'uomo che aveva parlato poco fa era un uomo sulla settantina, senza capelli in testa e aveva le fattezze di un docile nonno affettuoso con i suoi nipoti; seguendo verso destra, una donna dalla carnagione scura che l'osservava con il mento alzato e schiena dritta, i suoi capelli scuri le ricordavano uno sgabello; al centro nella direzione opposta a Lia, un'altra donna di carnagione più chiara con le mani unite la scrutava con un sorriso malizioso, aveva una capigliatura normale rispetto alla sua collega; l'uomo alla sua destra era mingherlino e rugoso, le sue mani continuavano a pulire le lenti del suo monocolo color oro, le iridi dei suoi occhi erano di un arancione acceso che fulminarono Lia all'istante, aveva capelli e barba lunghi grigi forse lui era il più vecchio dei cinque, ma non poteva dirlo con certezza; infine un volto familiare: Samuel Worton, un trentenne come lei con i capelli ricci castani e sguardo compassionevole, il "buono" della combriccola ipotizzò Lia.
La donna centrale parlò per prima. «Lia Verest, davanti a lei ci sono le cinque cariche più alte dell'Archivio. Alla mia destra, ci sono Ludwig Boresson e Siko Naewevlya.»
«Signora Verest» disse Ludwig Boresson abbassando leggermente il capo.
«Kuat'zing, mademoiselle Verest» disse Siko Naewevlya con voce altisonante.
La donna del centro riprese con le presentazioni: «Alla mia sinistra, ci sono Sir Howard Galahad Leightinton e Samuel Worton, di cui scommetto che lo conosca.»
«È un onore incontrarla, signora Verest» la salutò Sir Leightinton mettendosi il monocolo sull'occhio sinistro.
«Lia» disse Samuel quasi imbarazzato e alzando la mano per salutarla e Lia fece altrettanto.
La donna centrale riprese: «Io sono Joanne D'Asteri, colei che presidierà il nostro incontro.»
Finite le presentazioni, nella stanza cadde un silenzio tombale. Lia si chiese se poteva fare domande o aspettare che intervenisse uno dei alti funzionari dell'Archivio. Scrutò i loro movimenti e le loro espressioni: Siko e Sir Howard erano imperturbabili della sua presenza; Joanne e Samuel si guardarono per un secondo prima di riconcentrarsi su Lia; l'unico a non partecipare in questo scambio di sguardi era Ludwig Boresson, il quale stava leggendo dei documenti riposti uno sopra l'altro sul tavolo.
Fu lui ad interrompere il silenzio con la sua voce anziana e piena di conoscenza: «Signore e signori, chiedo di incominciare la nostra seduta. Il tempo non è dalla nostra parte.»
«Richiesta accolta» pronunziò Joanne D'Asteri e tutti i presenti si misero in doveroso ascolto. «Oggi siamo riuniti qui, assieme a Lia Verest, per discutere di una questione delicata. Prima di addentrarci nel dettaglio, è obbligatorio mettere al corrente la nostra ospite della situazione attuale dell'Archivio. Chi vuole esporre per primo?»
Siko girò alla sua sinistra puntando i suoi occhi al collega con il monocolo, lui incrociò le mani sul tavolo e si schiarì la voce. «Vorrei aprire le danze, se mi è concesso.»
Joanne annuì e, con lei, tutti gli altri tre membri. Lia non mostrò alcun minimo movimento, la sua attenzione era rivolta a Sir Howard Galahad Leightinton.
Si alzò sistemandosi la giacca in maniera consona. «Dato che la signora Verest non conosce i nostri... ruoli all'interno dell'Archivio, incomincerò a spiegare il mio scopo per poi introdurre il problema, da cui i miei colleghi, proseguiranno con i loro interventi. Il mio compito è di assicurare che tutti gli enti del pianeta facciano quanto ordinato dalla sede centrale, qualora non lo facessero intervengo personalmente nella questione. Per ora tutto chiaro, signora Verest?»
Ora poteva parlare, si sentì lievemente sollevata. «Lei è il garante dell'autonomia, dico bene?»
Annuì. «Qui ci porta al problema con cui abbiamo a che fare negli ultimi cento anni: l'inadempienza e il rivoluzionarismo. L'inadempienza verso l'Archivio è un crimine grave quanto condividere informazioni secretate; negli ultimi cento anni questo fenomeno ci è fuggito di mano, e... innumerevoli sono in nomi obliterati e un elevato numero di informazioni sono andate perdute.» infine, si sedette.
Obliterate. Intendeva che quei funzionari sono stati condannati all'Oblio, pensò Lia. Il signor Reyold le aveva detto che le informazioni ottenute dai condannati erano maggiori rispetto al raccoglimento quotidiano di informazioni dalle pubbliche e private istituzioni. Perché sono andate perdute? Ciò creava ambiguità nella sua testa, era confusa da tale affermazione.
Siko si alzò e prese la parola: «Il mio compito è di creare leggi e regolamenti che possano rendere più... pacifica la vita di tutti i giorni, anche più giusti i processi e più leali verso l'Archivio.»
Lia capì che era la garante delle leggi.
Proseguì. «Conosce il moto dei rivoluzionari?»
«Ne so qualcosa. Ostili verso ogni istituzione, odio incondizionato verso la visione dell'insieme dell'Archivio. Non sarebbe meglio chiamarli "anarchici"?» affermò Lia con un pizzico di perplessità. «Il loro modo di pensare e di agire ricordano vagamente quelle di un qualsiasi anarchico.»
«Non sono anarchici, signora Verest. Quella gentaglia impedisce il progresso di avvenire con le loro idee sciocche e senza fondamenta di conoscenza. Il fenomeno del rivoluzionarismo è per certi versi un qualcosa che non sappiamo nemmeno noi cosa sia. Molti intellettuali appartenenti a quei moti parlano di una rivoluzione necessaria per il bene di tutti noi»
«Karl Marx» interruppe Lia «Invocano il pensiero del padre del comunismo sovietico.»
«Esattamente. L'Archivio stesso era nato come miscuglio del capitalismo americano e il comunismo sovietico. Ma loro vogliono un qualcosa di diverso che va contro al nostro volere, ecco da dove proviene l'inadempienza. Molti dei dipendenti facevano parte di questo moto, abbiamo provato a rieducarli, ma...»
«Avete preferito condannarli all'Oblio, dico bene?»
«Hanno preferito togliersi la vita prima, incrementando il tasso del suicidio del settanta percento. Negli ultimi mesi, il tasso sta scendendo ma non basta per tenere aperti alcuni degli enti pubblici» si sedette e Ludwig si alzò.
«Io mi occupo della sanità e dell'istruzione. In questo settore, non ci sono tantissimi problemi se non quello giovanile che sta prendendo una brutta piega. Sta subendo l'influenza del moto rivoluzionario.»
Lia guardò Boresson torva. «Non capisco il nesso tra i due problemi e i giovani.»
«Lei ha dei bambini, giusto?»
«Sì.»
«Supponiamo che i suoi figli siano amici con un bambino i cui genitori siano appartenenti al moto rivoluzionario. A volte i genitori insegnano ciò che è sbagliato ai figli, così nasce la sfiducia verso le autorità. Inoltre, il loro modo di pensare può contagiare altri bambini come una vera e propria epidemia di ignoranza. Corremmo ai ripari con una legge anti-scuola genitoriale. Nel giro di un anno, il tasso di alfabetizzazione diminuì ugualmente del dieci percento.»
Le tornò alla mente di Nico, un amico di Rory e Bruno che fu ritirato dalla scuola, non lo rivide più quel povero bambino ne tantomeno i genitori. Il motivo combaciava dalla motivazione appena enunciata da Boresson. Ma il fatto che il tasso diminuì era senza senso. Come fosse possibile che una legge porti un effetto contrario a quello sperato? Siko doveva saperne la risposta, ma il suo pensiero le diceva che lei non doveva rispondere al suo dubbio.
«C'è qualcosa che mi sfugge, come è possibile che la legge non abbia funzionato?»
Ludwig Boresson si sedette e si alzò Samuel Worton. Il cerchio era in dirittura di arrivo.
«Io gestisco la difesa e gli affari esteri» seguì un breve silenzio e guardò i colleghi in cerca di approvazione, poi riprese «Il sistema è malato. Non gli rimane tanto da vivere, per rispondere alla tua domanda dobbiamo prima fare un passo indietro: ti ricordi le lezioni di geografia politica alle superiori? O quelle di diritto estraneo all'Archivio?»
«Sì.»
«Dimmi, sapresti dirmi il nome di una guerra nel Medio Oriente?»
Ora sì che era smarrita.
«Guerra? Non c'è...» si fermò istintivamente.
«Mai stata nessuna guerra?» chiese Worton. «Una bugia. Il Medio Oriente non si era mai unito all'Archivio dichiarandogli guerra cent'anni or sono. Abbiamo mantenuto segreta la guerra per non allarmare la popolazione. Sottovalutammo la loro intelligenza, corrompendo l'intero sistema dell'Archivio con le loro idee folli. La guerra è finita ieri, lo stesso giorno in cui tu dicesti addio al lavoro da impiegata.» si sedette e Joanne si alzò.
«Sono tante informazioni da apprendere, Lia. Siamo consapevoli che queste rivelazioni possano sconvolgerla, ma abbiamo bisogno della tua conoscenza per rivoluzionare la nostra società» disse Joanne con tono speranzoso.
Ancora quel termine. Rivoluzionare.
Un cambiamento era necessario, ora che la guerra si era conclusa. Il mondo aveva bisogno di un nuovo asset per continuare la permanenza del genere umano sul pianeta. Le vecchie organizzazioni internazionali si sciolsero molti anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, poi nacque l'Archivio con il compito di riunire tutti gli abitanti del mondo e catalogare tutti pezzi sparsi di qua e là che sarebbero state usate per imparare e istruire le nuove generazioni a non ripetere gli stessi errori fatti dalle generazioni venute prima.
Anche esso aveva fallito, l'ennesimo fallimento di un mondo globalizzato diventato, ormai, un'utopia.
Lia osservava intensamente Joanne, l'unica dei cinque a non intervenire durante il dibattito. «Posso chiedere, signora D'Asteri, qual è il suo ruolo?»
«Collegare tutte le istituzioni e farle cooperare senza distinzioni e in modo corretto.»
«Quindi sei la garante della Costituzione?»
Joanne annuì e seguì un lungo silenzio.
Lia ripensava all'incontro di venerdì scorso con il signor Reyold. L'uomo aveva mentito dal primo momento, il colloquio era solo una scusa per prepararla all'incontro della settimana successiva. Cinque persone sedute ad un tavolo in una stanza buia nel piano più alto dell'edificio per dirle che il mondo in cui ha sempre vissuto era solo una maschera o, come aveva detto Sam: "una bugia".
«Mi avete fatto venire qua per dirmi che l'Archivio è morto?»
Tutti annuirono contemporaneamente.
«È ora che il mondo torni alle radici. Gli Stati devono tornare» disse Sir Howard. «Pentecost diventerà uno stato dell'Europa. Tutti altri paesi, futuri neo-stati, verranno dopo di noi.»
«E io cosa cosa dovrei fare?» chiese Lia perplessa.
«Subentrerai a Joanne e diventerai la Presidente dello Stato di Pentecost» rispose Ludwig Boresson.
«Ecco perché abbiamo ti abbiamo chiamata, Lia. Joanne non può più sostenere una tale pressione quale quella di rappresentare e rispondere degli errori di noi organi» rispose Siko con la sua voce importante.
Lia abbassò lo sguardo sulle sue mani, non stava accadendo realmente. Stava sognando e doveva svegliarsi. «S-sono il vostro capro espiatorio?»
Tutti la guardarono perplessi.
«No» rispose Samuel. «Sei l'unica che conosce, al meglio le leggi.»
«Anche Siko le conosce, perché non glielo fate fare a lei?»
«Io devo prendere il mio posto nel neo-organo a difesa della Costituzione di Pentecost. Dopo che l'abbiamo scritta, ovviamente» rispose Siko diretta.
Silenzio. A Lia stava quasi per mancare il fiato.
«Vorreste dirmi che voi non avete ancora la Costituzione pronta?!» esclamò allibita Lia.
Joanne rispose per tutti: «È incompleta.»
Alzò la testa a tutti loro. «Cosa manca?»
Ludwig rispose esitante: «Mancano i diritti del singolo individuo, le disposizioni transitorie e... le questioni riguardanti una possibile guerra.»
Lia sospirò. Il suo cuore rallentò, battito dopo battito, raggiungendo il ritmo ottimale.
«Da dove volete partire?» chiese Lia desiderosa di iniziare.
In quella stanza, l'Archivio diventò un ricordo e lo Stato di Pentecost un dato di fatto.

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