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Capitolo uno



Ho freddo e fame. Mangerei anche patate crude se ne avessi qualcuna sotto mano.
E invece c'è solo questa brodaglia, un tè fatto con acqua di neve sciolta, su un fuoco che si spegnerà presto se non esco a raccogliere altra legna.
Devo farlo nonostante il pericolo, anche se dietro questo muro di pietra annerita si muovono i rivoluzionari che cercano, stanano, fucilano.
La spada mi pesa per via di tutto il sangue rappreso che porta su di sé.
Se mi trovassero mi giustizierebbero e avrebbero ragione. Quella notte di Natale c'ero anch'io tra coloro che hanno caricato i manifestanti, potrei benissimo aver passato sul filo della mia lama qualche loro familiare. Forse più di uno. E i loro amici, i loro tovarish.
Dopo, ho vomitato e pianto, la prima e l'unica volta da quando sono entrato nel corpo dei Cosacchi.
E resto un Cosacco, nato per cavalcare e uccidere.
Ucciderei anche adesso, se qualcuno si infilasse qui dentro per arrivare a lui. Niente deve toccarlo, niente che possa svegliarlo: i sogni sono merce preziosa al giorno d'oggi, come la legna, lo zucchero, un panno di lana che ti scaldi, un tetto che regga alla neve.
Un cuore che regga.
Il sogno di Yuri è più importante di qualsiasi cosa.
Se lo guardo, nonostante l'inverno e l'inferno, la sua immagine scivola tra le mie fibre come un balsamo. Le ammorbidisce, le distende una ad una. Solo Yuri ha questo potere. Vederlo partire mi ucciderà ma non ci sono alternative in questa vita, e io non credo in un'altra vita oltre a questa.
Fra poche ore prenderemo un treno e andremo negli Urali. Da lì, lo preleveranno e lo scorteranno a oriente, prenderà una nave e io avrò fatto il mio dovere di buon amico.


_____

Beka! Inchinati, sta passando il signorino!
Otabek obbediva sempre, e la sua prontezza gli impediva di guardarlo bene in viso. Il signorino restava così un fuscello biondo dai lineamenti indefiniti, le spalle dritte e il passo deciso, elegante e silenzioso.
Per lui parlavano solo le sue mani di piccolo musicista.
Dalle finestre della grande casa degli Urali, quella con le cupole d'oro, sin dalle prime ore del mattino si diffondevano all'esterno le note di un pianoforte. Otabek, che allora aveva tredici anni, giocava con la sua spada di legno nel cortile di servizio sul retro e ogni volta che sentiva la musica, finivano sia il gioco che la guerra. Rimaneva seduto sulle scale di pietra, con il viso all'insù e il tempo passava lento, scintillante di sole.
Il tempo era il signorino Yuri che si esercitava.
È diventato l'allievo prediletto di Rachmaninov! diceva sua nonna.
E io che cosa diventerò, äje? chiedeva allora Otabek.
Tu diventerai un Cosacco dello Zar, come tuo padre.
Quella stessa estate, a Otabek fu affidato il suo primo cavallo. Suo nonno lo conduceva tutti i giorni per i boschi e le radure in modo che prendesse confidenza.
Otabek cavalcava con la musica nelle orecchie.
Il cavallo danzava e lui anche.
Una mattina, il giorno prima che i Conti Plisetsky rientrassero a Mosca, trovò Yuri seduto sulle scale di pietra.
Si fermò di botto, il cavallo che scalpitava perché voleva rientrare nella stalla e rifocillarsi. Otabek non era neanche certo che i Conti conoscessero quella parte della casa, aperta solo al passaggio della servitù, come poteva conoscerla lui ?
Chinò il viso, come gli era stato insegnato. Se avesse potuto, avrebbe chiesto di inchinarsi anche al cavallo.
"Come si chiama?" La voce del giovane aristocratico suonava curiosa mentre indicava la bestia.
"Yuri." Aveva risposto Otabek.
L'altro sgranò gli occhi, sorpreso.
Otabek reagì nell'unico modo che conosceva: di impulso.
"Sei mai andato a cavallo?" gli chiese.
Il giovane scosse la testa, gli occhi sempre spalancati e la bella bocca aperta in un sorriso che tutto era fuorché aristocratico. Era il sorriso di un bambino di dieci anni davanti a una giostra.
"Allora? Vuoi salire?"
Otabek non ricorda bene come fu che qualche minuto dopo erano riusciti a sgattaiolare via mentre dalle finestre aperte del salone si udiva la Contessa Plisetsky che chiamava il figlio a gran voce.
Il cavallo correva nella campagna ormai secca, sotto il cielo che si scuriva accogliendo l'autunno.
Otabek pensava a un incantesimo, che faceva andare la bestia nonostante lui non la governasse affatto. Le sue mani stringevano le briglie come se fossero l'unico appiglio per non sprofondare in un vortice di sensazioni strane e incredibili.
Le altre, piccole mani che facevano piangere e ridere il pianoforte, che lo facevano esultare e deprimere, erano ora salde sui suoi fianchi e seguivano solo il ritmo del cavallo. Otabek allora non aveva le parole giuste per dirlo. Solo a distanza di anni sarebbe riuscito a esprimersi, utilizzando i concetti di beatitudine, felicità, piacere, dolore, attrazione, paura.
A distanza di cinque anni lunghi come cinque secoli avrebbe capito che quella era stata la scintilla di un incendio lento chiamato semplicemente amore.

_____

Scivolo nel letto di Otabek nonostante sappia benissimo che non vuole. Si sveglia e si irrigidisce ma si lascia coprire la bocca con la mano e nel mentre mi guarda e scuote la testa.
È uno sguardo disperato, lo sguardo di chi è stato sorpreso in un'imboscata.
Alza lentamente la sua mano e mi accarezza il viso. Sfilo via la mia.
No, dice.
Perché? Decido solo io, per me, replico.
E io per me. E non lo farò.
Mi guarda convinto di ciò che dice, ma io lo sento che sta lottando contro se stesso.
Posso almeno darti un bacio?, chiedo di nuovo, ma la mia voce è tesa e brusca. È un ordine il mio.
I tuoi occhi sono quelli di un soldato, risponde lui.
La sua mano è ancora sul mio viso. Se resta lì, allora vuol dire che posso davvero.
Mi chino su di lui e accade qualcosa che non so descrivere, qualcosa che mi fa venire una irresistibile voglia di suonare.
Se questo è un bacio, non oso figurarmi cos'altro potrebbe esserci oltre.
Otabek mi abbraccia forte. Restiamo così finché non si riaddormenta.
Io invece non dormo. Suono senza tasti, le dita in aria.


_____

Yuri osserva dalla finestra il bosco che inizia a cedere le sue foglie.
Il battito del suo cuore insegue quello degli zoccoli che sente rimbombare nelle distanze. Otabek è uscito all'alba per recuperare del cibo in qualche misterioso posto noto solo a lui, poi si è allontanato di nuovo, senza dirgli una parola, senza guardarlo, profondamente a disagio.
Non riesce a perdonarsi di aver ceduto a quell'unico bacio, lo sa. È per questo che corre in perfetto equilibrio sul cavallo, corre per esercitarsi a non cadere più.
È uno spettacolo da ammirare. Riesce a stare anche in piedi, sembra nato per domare l'aria e la terra, elementi più sublimi e maestosi di un pianista quindicenne senza più famiglia e pianoforte, sballottato dal velluto dello studio di Rachmaninov ai sottoscala marci di Mosca, in mezzo a folle promiscue e disperate. È lì che Otabek lo ha trovato, strappandolo dalle grinfie di ombre pronte a dilaniarlo solo perché colpevole di essere fatto di vetro soffiato e porcellana, di essere un nobile suo malgrado.
Lo ha raccolto sottopeso, sporco e umiliato.
Lo ha lavato e vestito, lo ha ricoperto di quel minimo di rispetto che trasforma un animale in un essere umano.
Ha brigato, corrotto, scavato, trovato, pagato: un salvacondotto per farlo uscire dalla Russia e mandarlo in America da una zia sfuggita alla repressione, un'amica particolare dello Zar.
Yuri, che già lo amava, sa di amarlo anche di più, dopo la notte che ha passato sveglio addosso a lui. Ha fatto bene a non dormire, così può ricordare tutto e meglio. Potrà suonare di lui, soprattutto.
Lo vede rientrare, inizia a fare buio. Non lo dimenticherà mai, il suo amico a cavallo.



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