Capitolo sette
Torno sulla strada piena di vetrine e negozi. Yuri è nella mia tasca, all'altezza del cuore, accanto all'inutile direzione spirituale del monaco. Solo un bacio, gli ho detto, e nel confessarlo l'ho rivissuto. Il sapore di aneto e cannella, il fuoco che mi lambiva e io che lo schivavo come un animale impaurito.
La carne non è debole, è forte. Oh sì, se lo è!
Il monaco mi ha letto tutto l'articolo, tornando indietro con pazienza tutte le volte in cui avevo paura di perdere il filo.
Ci sarà un concerto a New York, alla Carnegie Hall. Yuri ha detto al giornalista che spera tanto che quella sera sarà presente fra il pubblico una persona per lui speciale, una persona che non vede da molto tempo.
Mi copro gli occhi con le mani e scuoto la testa, metto insieme immagini e ricordi e sorrido, avvampo, sospiro perché amo e desidero. Se ci sono ferite da curare saranno curate, dovesse volerci una vita, e quando verrà il momento di amarci sarà solo impazienza e non rabbia. Se l'attesa peserà come una croce, la porterò, ma ora non mi importa di nulla, voglio solamente tornare da lui.
La vita riprende senza particolari scossoni.
Otabek si è completamente ristabilito e conta i giorni che lo separano dalla partenza per New York. Anche lui avrà il suo momento di gloria, il Circo si esibirà infatti a Central Park il giorno successivo allo spettacolo di Yuri. Gli acrobati, i danzatori, i musicisti, i cavalli in uno spazio immenso, al centro della città.
La Carnegie Hall dista solo due miglia a piedi, una distanza che vera distanza non è. Otabek è talmente emozionato all'idea di rivederlo da respingere in un angolo le difficoltà oggettive che dovrà risolvere.
La prima è che non potrà sicuramente permettersi il biglietto, la seconda è che se anche potesse permetterselo, con i vestiti che indossa non lo farebbero mai entrare in quel luogo così lussuoso - il monaco era stato chiaro in merito, descrivendo la magnificenza tutta terrena di quell'edificio.
La cosa lo incupisce al punto da rendere ancora più intense e spericolate le sue esibizioni a cavallo, sembra non gli importi nulla del pericolo o delle urla terrorizzate delle signore in prima fila.
Poi, la mattina della partenza, un uomo di nome Constantin si presenta nella sua tenda. Ha l'aspetto serio e solenne di un russo che si porta appresso ovunque le proprie origini.
"Siete Otabek Altin?"
Otabek non nasconde la propria diffidenza. Sono mesi che è in America ma è pur sempre un disertore e si è fatto sicuramente dei nemici quando ha portato via Yuri da Mosca. Il biglietto della nave lo ha pagato caro, sicuramente quel tanto in più che però è bastato a soffiare il posto a qualcun altro.
"Sì, sono Altin." Risponde con voce sicura.
"Devo consegnarvi questa busta da parte del Conte Yuri Plisetsky."
Il suono della parola Yuri si infila nelle sue orecchie come un falco in picchiata e si propaga veloce, sbattendo le ali sulle pareti della caverna vuota che è improvvisamente diventata la sua testa. È un rimbalzo frenetico che gli dà un lungo capogiro, si trasforma in una eco che lo tramortisce.
Deve accorgersene anche Constantin, che nel frattempo ha allungato la mano destra e attende con pazienza che l'altro si decida a prendere il plico che sta porgendogli - cosa che alla fine riesce a fare continuando a tremare come una foglia.
Constantin allora si congeda con un cenno del capo e sparisce nella polvere. Otabek neppure se ne accorge, sta litigando con la ceralacca del sigillo dei Plisetsky, sta litigando con piccole scintille che vede volare intorno a quel plico, sta sfiorando con le dita la carta che lui ha sfiorato e piegato e sulla quale ha scritto il suo nome.
Alla fine si riprende e con passo veloce si rintana nella stalla.
Otabek,
Sono almeno dieci minuti che fisso questo pezzo di carta e non so che cosa scriverci sopra. Non so come esprimere ciò che sento, non so se ne sono all'altezza. Forse, se potessi parlarti tramite uno spartito ci riuscirei con più facilità - ed è quello che intendo fare se vorrai venire ad ascoltarmi. Nella busta troverai un biglietto per il mio concerto presso la Carnegie Hall. Dopo mi troverai ad aspettarti a questo indirizzo. È casa di mia zia Ekaterina, è dove sono riuscito ad arrivare grazie a te.
Devo dirti una cosa importante. Anzi, due.
La prima forse già la sai ma non la sprecherò su un foglio di carta, devo dirtela con la mia voce. La seconda è una sorpresa grande, che ti meriti di avere per quello che hai sempre fatto: amare gli altri più di te stesso.
Ti aspetto
Yuri
E la mente va lontana, a ritroso, fra muri anneriti, neve sporca, angoli bui.
La sorpresa grande di trovarlo ancora vivo, nonostante chi lo aveva visto ne raccontasse la magrezza, il passo incerto, l'ombra sempre più piegata.
...È un fuscello, è un miracolo se non se lo è ancora mangiato qualche cane randagio!...
...Ma chi cercate? Il ragazzino biondo? AHAHAHAH! Quella bambola di stracci!...
... Il biondino? Quello della Via Tverskaya, quello del sottoscala che si è attaccato con le unghie e con i denti al suo pianoforte e si è beccato una bella lezione...
Giorni appesi agli angoli delle strade, negli scantinati e nei ruderi, con l'idea che non poteva essere andato lontano: la casa dei Conti era ormai occupata ed estranea ma rimaneva pur sempre la sua casa, e in un primo momento Otabek aveva sperato con tutto se stesso che la sua intuizione fosse giusta.
Ma nei dintorni della una volta lussuosa via Tverskaya di lui non c'era traccia.
Aveva chiesto, pregato, pagato, frugato nelle chiese a suo rischio e pericolo, negli ospedali fra gli appestati. Poi, un vecchio con lo sguardo da martire, togliendosi anche il cappello (Voi siete un Cosacco e lo era anche mio figlio) gli aveva detto che c'era un giovane bianco come un lenzuolo, a cui aveva dato una patata bollita, che stava rintanato come un gatto selvatico in un magazzino del cementificio. Otabek era volato sul luogo che gli aveva indicato il vecchio, trovandosi davanti due occhi verdi ed enormi che fiammeggiavano come quelli di una belva.
"Yuri... non mi riconosci?"
Ma no, non poteva riconoscerlo, con la divisa logora e il viso sporco di carbone. E, soprattutto, non mentre emergeva lentamente da una pozza d'ombra: chissà come doveva apparirgli minaccioso.
"Yuri?..." aveva sussurrato ancora una volta.
Si era chinato davanti a lui, che stava invece raggomitolato in un angolo.
"Sono io, Otabek."
"O...tabek?"
"Sì."
E Yuri era scattato come una molla, con l'ultimo grammo di forza che possedeva.
Otabek si era trovato di schiena sul pavimento, le falde del cappotto aperte e lui sdraiato sopra, freddo come una nuvola carica di neve, che piangeva.
Il primo gesto spontaneo era stato quello di afferrare le falde e richiuderle su di lui. Era talmente magro che stava perfettamente nello spazio fra la stoffa e il suo corpo. Gli aveva passato le mani fra i capelli, che erano morbidi e umidi, le dita sulle orecchie gelide per scaldarle. Era rimasto a lungo sdraiato a terra, a isolarlo dal mondo perverso che lo aveva stritolato.
"Ora ci penso io a te, non ti devi preoccupare, ce ne andiamo di qui."
E altre cose che non ricorda più se le ha davvero dette o solo pensate, perché il peso dello scricciolo gelato che aveva addosso lo ubriacava di tenerezza e affetto e lo distraeva di continuo da ciò che doveva dire di sensato: programmare, pianificare, trovare da mangiare per due e qualche vestito asciutto e pesante. Pensare a dove passare la notte, non farsi accoppare perché era vestito da Cosacco, furioso come un Cosacco, nonostante la beatitudine che lo stava piano piano pervadendo, e solamente perché lo aveva ritrovato e ora lo aveva di nuovo accanto a sé.
"Yuri... dobbiamo andare via da qui ma aspetteremo il buio. Vieni, cerchiamoci un posto il più possibile nascosto."
"Dietro... i... sacchi..."
"Va bene. Vieni."
Lo aveva preso in braccio e se lo era sistemato addosso, proteggendolo con il cappotto. Yuri si era addormentato quasi subito, la prova era il suo respiro sottile regolare.
Quella stessa notte, se lo era caricato sulla schiena e con un po' di fatica era riuscito a sistemargli il cappotto sulle spalle.
Si era trascinato fino alla vecchia taverna dove era stato "battezzato" come soldato. Al piano di sopra c'erano delle camere, ovviamente già piene, ma salendo le scale una donna lo aveva riconosciuto: Sofja, la vecchia tenutaria.
Lo aveva ascoltato e accolto con simpatia e gli aveva dato qualche vestito rimediato e una branda da dividere con Yuri ma solo per un paio di notti, non di più, perché poi avrebbero destato sospetti senza farsi registrare dal Commissario del Popolo - e Otabek era pur sempre un disertore.
Aveva aiutato Yuri a lavarsi e a rivestirsi e poi lo aveva messo a letto sdraiandosi accanto a lui.
Avevano passato la notte a bisbigliare, in una camera in cui erano stipate almeno quindici persone.
Fronte contro fronte, Otabek a tranquillizzare Yuri, Yuri a raccontare lo strazio della sua famiglia e a ringraziarlo.
La fronte di Yuri scottava, scottavano le mani, la febbre lo aveva acceso subito come un fiammifero.
Due giorni dopo stava ancora male e Otabek lo aveva lasciato lì pregando Sofja di tenerlo al caldo per un'altra notte.
Fortunatamente, era bastata a farlo sfebbrare.
E così passavano i giorni, e le notti, in giro di tugurio in tugurio, a rimediare tè e patate, a volte pane, e Otabek non aveva tralasciato nulla per mettere Yuri al sicuro.
Finché, dopo un lungo viaggio in treno erano arrivati finalmente negli Urali, nella casa che conoscevano bene entrambi, per poi separarsi subito dopo.
Ora che si sono ritrovati, Otabek è convinto che dietro al rimprovero del monaco ci fosse in realtà una grande benedizione.
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