Capitolo quattro
Gli acrobati del Circo Nazionale Cinese sono creature senza peso. Non appartengono a questo mondo ma a quello incorporeo degli spiriti.
Sul palco di legno, Serpente Bianco e Serpente Verde si fronteggiano attraverso onde di seta, sembra davvero che sia il vento a scuoterne le squame e non, invece, mani sapienti e nascoste che si muovono in perfetta sincronia al suono dei campanelli e del bambù.
Il loro piedi non fanno rumore eppure evocano eserciti in movimento, le braccia evocano la tempesta, le maschere illusioni che appaiono e scompaiono. I volti dipinti di bianco e bistro, le labbra rosse. Passerei ore e ore a guardarli.
Anche le mie mani sono sapienti, il cavallo vi si affida totalmente. Una impercettibile trazione dei finimenti e gli zoccoli rallentano. Uno scostamento leggero e il cavallo si inclina per rientrare in asse con il mio corpo, un colpo secco sui reni e il moto si arresta. Una carezza lungo il collo sudato, un sussurro all'orecchio e le zampe si piegano docili.
La realtà è ai miei piedi e ansima, stanca e soddisfatta di avermi portato in trionfo ancora una volta, fra gli applausi del pubblico.
E così, una serata dopo l'altra, montiamo e smontiamo le nostre tende, attraversiamo le terre americane desolate e desertiche, verso le città a Est.
Le mie mani, le sue.
Le sogno la notte.
I tasti bianchi e neri schiacciati con puro trasporto, il battito leggero delle sue unghie, il volume, gli alti e i bassi che trionfano e che mi investono come una valanga.
Spartiti volano come gabbiani. Onde maestose mi atterrano, labbra morbide mi baciano.
Tutto va a fuoco in questo povero corpo. Allora mi sveglio di soprassalto, con la sensazione di una mano che mi ghermisce il polso, come quella notte. Esco, cammino per i campi, conto le stelle come in estate negli Urali. Conto i secondi, i minuti. Conto i miei anni, i suoi. Entrambi non siamo ancora abbastanza cresciuti per l'amore. Lui ne ha solo sedici e io diciannove.
Per l'odio e la vendetta, forse siamo già grandi, sì. Per le lacrime versate sulle nostre famiglie, sì. Ma per l'amore, per il suo ritmo, la sua fame, l'ostinato peso che schiaccia e soffoca, per quello, ancora no.
È presto per noi.
O forse è già tardi.
Sono passati sei mesi dal giorno in cui Otabek è sbarcato in America.
La California è un Paese enorme, ma c'è troppa polvere, troppo sole. Mentre la Russia promette la steppa e la foresta, questa terra è circondata dal deserto, rovente di giorno e gelido di notte.
Otabek non conosce l'inglese. Xi-Lun Li, Serpente Bianco, lo parla invece abbastanza bene e ogni sera passa del tempo con lui a insegnargli qualcosa.
È la figlia del direttore del circo.
Ha la sua stessa età, è bianca come l'alabastro e sottile come il bambù.
La sorprende spesso a guardarlo mentre si allena con i cavalli.
Gli occhi di Xi-Lun sono verdi come giada e magnetici. ll suo passo è sempre leggero e silenzioso, sembra non smettere mai di danzare.
Otabek prova la strana ed inquietante sensazione di averla sempre dietro di sé e la cosa lo spaventa, anche, perché se si voltasse e la afferrasse sa bene che si tratterebbe soltanto di un colpo di testa.
Perderebbe il lavoro e la stima che ha di sé. Gli rimarrebbero solo la solitudine e la vergogna.
È andato con una donna solo una volta, dopo aver ricevuto la divisa e la spada. Una specie di rito di iniziazione obbligatorio, consumato nelle stanze equivoche al piano superiore di una taverna. Consumato solo da lei, per l'esattezza, lui aveva solo bevuto, spento la luce ed era rimasto come staccato dal suo corpo.
Il giorno dopo era andato comunque a confessarsi e il sacerdote era stato molto diretto: la carne non è debole, è forte. Solo il sacramento del matrimonio la reprime*.
Avrebbe voluto rispondergli che le femmine non gli interessavano - e neanche i maschi che non fossero Yuri. Che Yuri era una specie di altare, intoccabile, incorruttibile, che lo amava perché era figlio come lui dell'estate negli Urali, sempre uguale a se stessa, brillante di sole, gravida di profumi, avvolta nelle note del pianoforte.
Erano le estati delle corse a cavallo di nascosto da tutti, dei frutti di bosco mangiati a sazietà, delle ore passate ad ascoltare musica sotto le sue finestre.
Fino a un certo punto era stato piuttosto facile affidarsi a quel convincimento. Continuava a inchinarsi di fronte a lui quando lo incrociava in carrozza sulla Via Tverskaya, oppure quando si recava nella grande casa dei Conti Plisetsky a trovare sua nonna - e Yuri sembrava sempre saperlo in anticipo perché appariva come dal nulla sulla porta carraia, con i suoi due cani.
Come stai, Otabek?
Bene, signorino Yuri.
Non puoi chiamarmi solo Yuri?
No, non poteva. Erano Yuri e Otabek solo quando dividevano lo stesso cavallo.
Poi una sera, poco prima che la Rivoluzione franasse sulle loro vite, il Conte Plisetsky, che aveva saputo del suo arruolamento, aveva voluto complimentarsi con lui di persona e lo aveva invitato a una serata di gala nella quale Yuri si sarebbe esibito. Otabek aveva avuto un permesso speciale per parteciparvi e sarebbe rimasto a dormire nella foresteria invece di rientrare in caserma.
La prestigiosa magione dei Plisetsky era affollata di notabili, nobili, politici, artisti. Il caldo era soffocante nonostante il gelo esterno. Yuri, come ovvio, era stato preso d'assalto dalla massa dei suoi estimatori, attratti da lui come falene da un lampione.
Otabek, che non era riuscito a parlargli prima dell'inizio del concerto, era finito ben presto schiacciato contro la parete finemente decorata della sala musica, fra due candelabri accesi il cui odore di grasso e cera lo stordiva. Si trovò a sbottonarsi il panno pesante dell'uniforme, pensato per essere indossato durante le lunghe ronde a cavallo, di notte, non in una casa di velluti e legname pregiato, tappeti persiani e pelli d'orso.
Il brusio si era fatto assordante, tuttavia quando Yuri aveva fatto la sua comparsa nella sala era calato un silenzio religioso.
Aveva esordito con un brano intitolato " Riguardo l'amore: Agape".
Lo accompagnava un noto soprano, il cui canto in latino risultò subito ipnotico alle orecchie di Otabek, distillato com'era dalle note del piano.
Yuri intanto non guardava nessuno, né il pubblico né la donna, i suoi capelli biondi che gli nascondevano il viso. Si vedeva solo la sua bocca delicata, tesa nella concentrazione.
"Di cosa parla questo canto?" Chiese una dama con una tiara zeppa di gioielli all'uomo che le sedeva accanto.
"Parla di agape, amore inteso come sentimento totalizzante, disinteressato, spirituale."
Otabek non seppe mai quando fu esattamente che le lacrime iniziarono a colare lente sulle sue guance. Agape, aveva dunque quel nome ciò che provava per Yuri?
Sconvolto, si era defilato e congedato dal Conte, per rifugiarsi nella sua stanza.
Aveva ascoltato a lungo lo scalpiccio degli invitati che lentamente lasciavano la casa, le voci della servitù e il piano che continuava a suonare, finché fu notte fonda.
Poi silenzio.
Poi, dei passi verso la sua porta.
Qualcuno che bussava, una mano leggera.
Otabek sapeva che si trattava di Yuri.
Non sapeva però che fosse ubriaco.
Aprì solo uno spiraglio, il tanto che bastava per osservare i suoi occhi verdi spiritati, il corpo tremante, le guance arrossate e sentire l'alito che pungeva. Per un unico, doloroso istante, appuntito come una pioggia di spilli, Otabek si era visto dall'esterno, vestito solo da mezza uniforme, la camicia semi sbottonata, che apriva la porta come farebbe un amante che attende un amante.
La casa dei Plisetsky diventava un altrove, un enorme e vuoto deserto nel quale rimbombava il sangue.
Agape, agape, pensava Otabek come una specie di mantra.
Fece un passo indietro.
"Otabek... è vero che ti spostano sul fronte?..." gli aveva chiesto Yuri con voce malferma.
"Sì."
"Quindi non verrai più d'estate?"
"No. Non verrei comunque, ormai sono nell'esercito."
"Chiederò a mio padre di farti restare qui!"
"Sono un Cosacco dello Zar."
"E io sono un nobile! Lo hai dimenticato? Mia zia è amica dello Zar, ci aiuterà lei!"
Ci aiuterà...
"Yuri..."
"Sarei disposto a suonare anche solo per far ballare tutti i cani di corte."
"Yuri, no..."
Era difficile supplicarlo con il cuore gonfio di una gioia incontenibile.
Agape
Yuri allora aveva sospirato con dolore, aveva spalancato la porta e gli si era gettato addosso. Otabek non aveva barcollato, tutt'altro. Era lui che si reggeva grazie a Yuri.
"Se vai al fronte morirai."
La voce era flebile, soffocata contro il suo petto.
"Non morirò."
"Io non voglio che tu muoia."
La dita, strette sulla camicia. Unghie. Tasti neri e bianchi. Il volume del mio cuore nelle orecchie.
"Non morirò."
"Lo prometti?"
"Lo prometto sul mio cavallo."
Sul mio amore, anche.
"Non morirai."
"No. Non morirò."
Otabek era già al fronte, completamente solo. Stringendo Yuri fra le sue braccia, aveva appena vinto la guerra contro se stesso.
(Continua...)
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