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Prologo

Londra, 1885

Stesa sul letto, con il braccio curvo e scomposto sul cuscino, riposava immobile. Il volto coperto da una pelle trasparente e un reticolo bluastro, aveva le labbra schiuse, un po' secche. Pareva che dormisse, circondata dalle lunghe onde brune, o perlomeno così continuava a dirsi Arthur; eppure era morta.

Nessuno, in quella stanza, aveva più pronunciato una sola parola dopo il "Che diavolo sta succedendo?" del capofamiglia al seguito del grido della cameriera. Erano tutti sconvolti, soprattutto Suzette che, con la bocca di una maschera greca e gli occhi sgranati, iniettati di sangue, non riusciva a muoversi dal capezzale di sua figlia.

Arthur, afono, si sentiva come un passo dietro se stesso. Osservava quella che ormai era una madre distrutta e puntava le sue mani tese, le dita nodose che scattavano e quasi si grattavano le guance in un moto di disperazione. E mentre singhiozzava come una bambina, lui non poteva sottrarsi al camminare in bilico su una corda tesa. Meno uomo di altri giorni, ma immutabile nell'espressione come uno schizzo a china, si annotò ancora come la gente fosse famosa per essere ingiusta.

Dunque fece marcia indietro e si bloccò in corridoio, tese le braccia lungo i fianchi. Uno spasmo lo attraversò da capo a piedi, perdendosi dietro la nuca riccioluta. "Forse il freddo", si disse, "o forse...", e si voltò per osservare le lenzuola, il letto di Lisa, i piccoli piedi esposti. Con le narici larghe, cercò un po' d'aria e, pavido, affannò nell'idea di poter avere di fronte uno spettro.

Sollevò lo sguardo bruno, velato di lacrime, e deglutì per farsi coraggio in una postura più consona, prima di cercare il ritratto posto sulla parete di fronte. Le labbra gli tremarono appena d'incertezza e si chiese se fosse uno scherzo, se Lisa si sarebbe alzata di colpo per raggiungerlo alle spalle e mormorare qualcosa come: "Ci avete creduto davvero, Artie?", o "Sorpresa". Tenne le palpebre rigide, si sforzò di non muoverle e contrasse la fronte mentre la vista si faceva liquida. Percepì i polmoni ribellarsi contro le costole, il cuore rimbalzare veloce e poi lento, pesante, in un boom boom consecutivo. Ma non riuscì a trattenersi e cedette, quando gli occhi presero a pizzicare più del dovuto. Le ciglia s'inumidirono, si lasciarono valicare, e le lacrime scivolarono lungo le guance, verso il mento, laddove Arthur si sbrigò a raccoglierle con il dorso di una mano.

Alle sue spalle, Suzette. Discinta nella veste da camera, cadde in terra e batté le ginocchia al suolo. I capelli scomposti, i singhiozzi, i tremiti: sembrava preda di un attacco di crepacuore mentre artigliava le lenzuola e piangeva sul corpo di Lisa. Strusciava il viso contro di lei, sul suo ventre, e diceva: «Ti prego, torna da me», o, «Non è vero, ditemi che è un incubo», ma anche, «Alzati, Lisa».

Una visione così brutta e dolorosa che Arthur non riuscì a sopportare per più di qualche istante. "Non ce la faccio", si disse, prima di distogliere l'attenzione. E in men che non si dica trovò conforto altrove: suo padre, Randal Griffen, era accanto alla finestra, con le spalle ritte e un palmo posato sul montante; i muscoli della schiena tesi, vibranti, e i denti serrati in un profilo statuario. Arthur desiderò raggiungerlo, e forse provò anche a farlo, ma fu come se il pavimento lo avesse inghiottito sulla soglia della stanza di Lisa. Quindi, a disagio com'era, prese a tormentarsi il naso tra indice e pollice, ad accumulare tensione e pensieri nocivi. "Sciocco", "Vigliacco", "Inutile". Raggiunse Suzette dopo essersi schiarito la voce e le posò le mani sulle spalle; ma lei non se ne accorse nemmeno.

Continuò a chiamare Lisa, a sbraitare paonazza: «Ti prego, torna da me», diceva, perché mai un genitore vorrebbe sopravvivere a un figlio.

Seduta su quella sedia e con le palpebre sollevate, Lisa era ancora bellissima: aveva le mani giunte in grembo e la schiena dritta come tutte le signorine perbene; educata anche nella morte, sarebbe diventata una leggenda. E mentre Arthur la guardava, mentre superava la soglia per fermarsi al centro della stanza, si rese conto di non poterla eguagliare in nessun modo. Sentì la gola serrarsi e il profumo dei fiori che gl'invadeva le narici in un'ondata dolce, soffocante. Allora finì con il serrare le labbra in una linea retta e tornò a concentrarsi su di lei, che sembrava aria pura: il volto gentile, dai tratti delicati, e le guance scavate, gli zigomi alti, sporgenti, tinti di un vago alone tubercolotico.

Per un attimo si chiese se i becchini avessero prestato la giusta attenzione alla spalla, ma poi capì che, qualsiasi cosa fosse successa, Lisa non se ne sarebbe mai accorta. Ne ebbe la certezza quando, avanzando verso di lei, notò nei suoi occhi un velo pallido, lattescente, che non c'era mai stato e che copriva quelle vallate verdi con un vitreo strato di morte.

Allora deglutì amaro. Si lasciò invadere dal borbottio di Suzette, che scorreva i grani del rosario come fosse in trance, e la guardò di tralice, pieno della sua stessa pesantezza, prima d'inspirare a fondo l'aria della camera ardente. Nelle narici il fastidioso odore dei fiori, sul viso il fresco dell'aria che scivolava dalla finestra aperta. «Sarete stanca», disse d'un tratto massaggiandosi le tempie con i polpastrelli, «perché non andate a riposare? È tardi, non avete neppure cenato».

«Lisa non può restare da sola», mormorò Suzette interrompendo la litania. Roteò appena il capo e, contrariata, lo fissò. Sollevò un sopracciglio, poi aggiunse: «Non c'è nessuno qui: né amica che venga a trovarla, né un giovane innamorato di lei... nemmeno Randal entra nella sua stanza per una preghiera».

«Papà è fatto così, o almeno credo», disse, lo sguardo chino in terra, «temo che non accetti la cosa, quantomeno che debba ancora rendersene conto». Attese qualche istante, ricordando il silenzio in cui aveva cenato e il borbottio dello stomaco, il suono delle posate contro il piatto, perfino quello del coltello che affondava nella carne. «Forse non vuole essere visto mentre la saluta, chissà», azzardò.

Suzette emise un suono strano, più simile a un sospiro strozzato che ad altro, e fissò Lisa con il cuore in gola. «Non è così che ci si comporta».

«Non potrete continuare a biasimarlo per sempre, so che non volete farlo».

Scosse la testa e serrò le dita ormai pallide, giallognole, attorno ai grani del rosario. «Io non biasimo nessuno, Arthur», iniziò, la voce tremula, «è solo che non riesco a capirlo». Gli occhi arrossati, cerchiati da una notte insonne, contrasse le sopracciglia in un'espressione turbata e poi si morse il labbro inferiore.

Lui non rispose e, anzi, preferì troncare il discorso. "Non lo capisco nemmeno io", si disse, prima di udire lo scricchiolio della sedia. "Non l'ho mai capito", pensò di nuovo, con i passi di Suzette, che si facevano vicini. "Non credo lo capirò mai".

«Resti tu con lei?», chiese piano sua madre, implorando ferma sulla soglia.

Arthur sollevò il capo, di colpo riscosso da quei torbidi pensieri. Osservò dapprima il corpo immobile di Lisa, poi le spalle tremule di sua madre che, coperte da uno scialle nero, gridavano il lutto al resto del mondo. "No, non voglio": avrebbe voluto rispondere così, magari trovare una scusa diversa come "Non mi sento bene"; tuttavia Suzette se ne uscì con un:

«Ti prego, figlio mio».

Dunque lui inspirò; e l'aria, dolce com'era, gli scivolò nelle narici in uno spiffero. Annuì a fatica, disse: «Resterò», e ancora, «non preoccupatevi». Sapeva già che avrebbe dovuto trascorrere lì l'intera notte, e al solo pensarci la nuca gli si riempì di una piccola serie di brividi.

A quel punto, la porta si chiuse alle sue spalle e lui si guardò attorno spaesato, prima di lasciarsi cadere accanto al corpo di Lisa. La guardò da vicino e ne studiò il profilo, il mento, le labbra, la punta del naso che tendeva appena all'insù e che era tanto simile alla sua. Infine, come assorto, carezzò il proprio con un indice teso e prese a dire: «Pensate che io sia carino quanto voi?». Premette il polpastrello verso il basso e scivolò lungo le labbra per schiuderle in una domanda: «Che dite, Lisa?».

Non udì alcuna risposta: e si sarebbe stupito del contrario, vista la diagnosi del medico che l'aveva visitata quella stessa mattina; tuttavia, dopo aver ridacchiato nervoso, sperò davvero che la testa del cadavere potesse voltarsi autonomamente per partecipare al discorso.

Si mordicchiò l'unghia, abbassò le palpebre e percepì una strana euforia al centro del petto. «Ditemi il trucco, Lisa», sussurrò, «ditemelo, avanti», e si avvicinò all'orecchio del cadavere. Le sopracciglia si mossero all'insù, il cuore prese a battere come impazzito nelle orecchie. «È nel cassetto, forse? È il libro della Signorina Powers, quello di cui parlano tutte le belle ragazze?». Si allontanò carezzandole i capelli acconciati. «Oppure no?». Il tono basso, dubbioso, e la bocca storta con sospetto.

Arthur spostò lo sguardo verso la toletta, sul drappo nero che avrebbe dovuto proteggere l'anima immortale di Lisa dallo specchio ovale. Ritirò la mano in silenzio e si sollevò in piedi. Ancora un brivido, la schiena come marmo e una piccola folata di vento, lo scricchiolio della finestra, lo sbattere delle imposte contro il muro esterno del palazzo di Conduit Street. Arthur si mosse piano, a piccoli passi, e raggiunse la sedia decorata con pizzi avana; tuttavia non riuscì a placare il terrore che aveva dentro: si voltò più e più volte verso Lisa, verso la porta, verso la luna che brillava nel cielo gonfio di nuvole. E guardandosi attorno se ne uscì con un: «È per fare conversazione». Si strinse nelle spalle, carezzò lo schienale, infine si sedette. Trattenne il respiro dinanzi a un grosso mazzo di fiori colorati, poi cedette. Petali e morte nei polmoni, sollevò il drappo nero in un moto inconscio e borbottò: «Sapete, penso che chiacchierare con voi sia più carino che pregare tutto il tempo». Fece spallucce. «Lo apprezzereste, ne sono certo».

Lì riflesso, si guardò per un istante e rifuggì da se stesso. Con le pupille larghe, annegò di nuovo nei ricordi e si perse nell'eco di sua sorella: "Artie", lo chiamava, "Artie, dove sei?", e correva nella casa in campagna, con il vestito giallo, "Artie!"; e lui muto s'infilava nell'armadio, rubava un cappellino, scappava verso il laghetto.

Spostò entrambe le mani sul centrino che sua madre aveva fatto a mano e sorrise. Scivolò appena in avanti, curvò le spalle e, con il forte odore dei cosmetici di Lisa nelle narici, puntò la Creme Celeste. Dopo averla aperta, se l'avvicinò. Inspirò a fondo uno strano aroma di rose e bergamotto, profumo mai sentito o forse solo sognato, e batté le palpebre un paio di volte, ritirò il capo perplesso. "È questo il segreto di Lisa?", si chiese. Dunque emise un suono strano, quasi divertito, e non seppe resistere: chissà come, eccitato e tremante, posò un indice sulla superficie nivea, setosa, prima di ritirarlo e farlo scorrere su una guancia. Le ciglia socchiuse, l'espressione estatica, sussultò. Di colpo ricordò di essere lì, nella camera mortuaria, e tornò a sollevare gli occhi verso lo specchio.

Gli parve come che lei, seduta lontano, lo stesse deridendo. "Forse", si disse, "ha davvero mosso la testa". Affannò nervoso, portando via la crema con il dorso della mano, e nascose la scatola nella tasca interna della giacca. Giudicato come di fronte a suo padre, alto un penny, balbettò: «Non guardatemi così», mettendosi sulla difensiva. Neanche Lisa potesse davvero sentirlo o guardarlo davvero, si trovò a pensare: "Sto forse indossando uno strano panciotto d'oro a Natale?", e la fulminò con un, «Dopotutto non vi serve più, giusto?».

Note bis: Ciao a tutti, ragazzi. Beh, che dire, mi sono messa a revisionare e re-uppare Come Vetro nella sua seconda versione. Perciò speriamo di fare le cose per benino questa volta.

Curiosità:

La camera mortuaria vittoriana non era altro che la camera del defunto bella sistemata per accogliere amici e parenti in veglia e saluti. Ogni tanto si poteva scegliere di adibire il tutto con foto-fotografi-pace-e-bene. Ah, per tutti coloro che pensano si usi il cosiddetto "trespolo" (oddio, non so come chiamarlo, dovete capirmi, sono strana) per fare le foto post-mortem, la risposta è: leggenda urbana. Quell'affare si usava per fare le foto ai vivi e questi lo adottavano per sorreggersi pigramente a causa dei lunghi tempi di attesa.

Parlo di fiori e finestra, sì. Perché non avevano ovviamente una camera mortuaria come quelle di oggi, ergo tenevano le finestre aperte e riempivano di fiori l'ambiente fino a data ics in cui decidevano d'interrare il corpo. Ovvio è che se si moriva di tubercolosi si cercava di seppellire il prima possibile (e no, Lisa non è morta di tubercolosi, malgrado io cito il colore tubercolotico).

Creme Celeste è una crema idratante-struccante dell'epoca molto famosa.

Il libro della Signorina Powers è un libro folle in cui venivano spiegati espedienti altrettanto folli per curare la bellezza secondo i canoni dell'epoca (bellezza tubercolotica, per l'appunto).

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