Capitolo 8
Non appena la carrozza di Bessie raggiunse Hartford Street, Charles cercò di prendere aria oltre il finestrino e spostò lì lo sguardo, udì lo scalpiccio degli zoccoli che si faceva via via più lento e battente sul selciato. Qualche istante dopo, accanto a Hamilton Place, ritrovò il coraggio e osservò in silenzio, nell'ombra, il portone in larice bianco cui sapeva sarebbero dovuti sgusciare, ma con la fine disapprovazione del portinaio. Rilassò i muscoli del viso, delle spalle, perfino delle braccia; o quantomeno ci provò, si sforzò di farlo in quello che era il postumo di un contatto diretto tra le sue labbra e la sigaretta speciale del giorno. I gomiti stretti attorno al costato, si volse di nuovo nella direzione di Bessie e accennò un sorriso tirato mentre ne studiava i lineamenti, sovrapponendoli pur non volendo a quelli di Grace, in quell'abitacolo che puzzava di vecchio.
«Siete taciturno, mio caro». Bessie esordì così: a bruciapelo, dopo aver arricciato le labbra; e lo incalzò, «È forse colpa mia? Non vi piaccio più?».
"Ovviamente!", avrebbe voluto dire, "Anzi, no", si sarebbe poi corretto, "perché mai mi siete piaciuta, brutta vecchiaccia!". In tutta risposta, però, Charles scosse la testa e trattenne la verità sulla punta della lingua. Si lasciò scappare un suono divertito, mormorò: «Assurdo», perché quella grossa montatura fatta di soldi, quel castello di bugie, a lui serviva ancora, «Non dite sciocchezze», sussurrò prendendole la mano.
L'espressione sul viso di Bessie si distese subito. «Per un attimo mi è sembrato di morire». Soffiò via il dolore che le opprimeva il petto e gli vide aprire la portiera, lo lasciò scendere per primo solo per farsi aiutare a mettere piede in terra. Infine, certa che la strada fosse libera e che le chiacchiere potessero restare tali, diede appuntamento al cocchiere per il solito orario mattutino: «Poco prima dell'alba».
«Sbrigatevi, avanti», la incitò Charles.
In uno slancio, lei gli si artigliò al braccio. «Certo, certo», ridacchiò; e di nuovo giovane, spensierata come una ragazzina, se lo trascinò dietro fino a raggiungere il palazzo di mattoni dipinti. «Adesso siete voi a dovervi sbrigare», lo canzonò sommessa, addossata al portone, mentre lui trafficava con le chiavi pesanti, «Non vorrete restare qui fuori tutta la notte, spero».
«No, affatto», negò spicciolo.
Si coprì le labbra con il ventaglio e poi lo posò su di esse nascondendo un sorriso delicato, eccitato. Tentò di mandare il suo ennesimo messaggio a Charles, ma lui mantenne gli occhi fissi sulla serratura e non li sollevò neppure quando, elegante o fintamente tale, si preoccupò d'invitarla oltre la soglia con un inchino e un:
«Prego, cara Bessie».
Tuttavia parve bastarle: abbassò il ventaglio, fece ticchettare le scarpe nell'androne oscuro e trattenne una risatina, certa che il portinaio si sarebbe affacciato a breve. E non appena lo vide, illuminata a sua volta dalla luce tremula della lampada a olio che quello stringeva tra le dita, si pose un indice dinanzi al naso per indurlo al silenzio più tombale. Emise un tanto tremulo quanto ebbro: "Shh", dopodiché avanzò spedita verso la scalinata. Gli occhi stretti in due fessure dai contorni grigi e le pupille dilatate, salì per prima e prese a mordersi le labbra per renderle turgide nell'attesa di Charles, che intanto parlava con il tale in camicia da notte; "Clifford o Clifton?".
«Per l'amor di Dio», iniziò quello, «lo sapete anche voi che ore sono, signor Bellecote...». Un rimprovero bisbigliato, ecco cos'era: parole a mezza bocca, condite con sopracciglia aggrottate e una punta di biasimo.
«Certo che lo so, Clif», annuì, «ma non ho alcuna intenzione di confermare le voci che circolano: sia per me che per la signora».
«Gl'inquilini hanno smesso di crederle sole voci».
«Credano ciò che vogliano», lo liquidò, «l'importante è non dare loro delle prove».
«Vale a dire, signore?».
Charles fece roteare le chiavi nel palmo e udì un leggero rumore di ferro che batte su altro ferro, mentre quelle si accasciavano una sull'altra. «Fin quando non esistono prove, qualunque cosa non esiste», disse, «non credi che sia un po' come la storia di Dio, Clif?». Sollevò un angolo della bocca con fare sprezzante, ma di fronte a sé vide un'espressione sconvolta, distrutta dal seme del terrore, e si chiese: "Chissà cos'ho detto di così strano".
«No», scattò scuotendo la testa, «perdonatemi, signore, ma non lo credo affatto».
Così sollevò un sopracciglio e percepì il fondo di una fede estranea, che non riusciva a mandare giù e neppure a scorgere: la stessa che per anni aveva guidato i suoi genitori e che di colpo lo aveva messo alla porta. «Giusto», sussurrò aspro, con i muscoli del viso confusi in piccole fossette piacenti, «e perché si dovrebbe dubitare di qualcosa che non si vede, di qualcosa che non si tocca e non si sente?». Un suono ironico gli scivolò di bocca e, gutturale, arrivò fino alle orecchie di Clif poco prima dello sbuffo che scese la scalinata.
"Bessie Daneville lo sta aspettando", pensò teso, non riuscendo a capire se trattenere Charles fosse o meno una buona idea; tuttavia venne bloccato proprio da lui, che lo colse ancora più impreparato a metà tra morale e viltà, con un tintinnio di monete. «Cosa...», iniziò, ma non disse altro, perché aprì la mano in un gesto automatico e si vide rifilare quello che per tanti era il salario di una settimana di duro lavoro: trenta scellini, abbastanza per comprare il suo silenzio e probabilmente per comprare quello di un qualsiasi portinaio.
Charles lo sapeva, quantomeno se lo aspettava, perché "Tutti i veri credenti sono disposti a vendersi per trenta denari". «Buonanotte, Clif», sussurrò dandogli una pacca sulla spalla.
«Buonanotte, signore», rispose lui a testa china.
Si allontanò in silenzio, udì l'eco di un: "Che Dio vi benedica", e deglutì il rospo cristiano. Salendo le scale, addirittura, percepì gli scatti della serratura che veniva chiusa a più mandate e si morse la lingua per non voltarsi a borbottare un: "Grazie". Dritto, orgoglioso, con il mento alto, ebbe come l'impressione che qualcuno tenesse a lui e si dimenticò di avergli dato dei soldi per farsi benedire. Un attimo di gioia, forse l'unico, passato con il sorriso truccato sul volto e la soddisfazione stretta tra i denti; e di colpo svanì. Al cospetto di Bessie, quando dovette aprire la porta di casa, Charles si trovò ancora a tirare i muscoli del viso per non lasciarli cadere giù.
«Volevate farmi dormire sul pianerottolo?», chiese lasciva nel suo orecchio.
Quindi dissimulò la tensione, ridacchiò. «Non lo farei mai, mia cara». La fece entrare per prima, poi seguitò alle sue spalle. Una volta dentro, prigioniero delle mura in affitto a Hartford Street, riuscì a malapena a raggiungere l'interruttore della luce che se la sentì addosso a peso morto.
Il fiato di Bessie che gli batteva sul mento e sul petto in un: «Siete così bello, Charles».
«Lo so, me lo dite sempre», rispose.
«Assomigliate al mio povero Alfred».
Fermo a pochi passi dal salone, con un brivido di disgusto lungo la schiena, tacque e, come sempre, non indietreggiò: voleva dimostrarsi interessato, seppur immobile sul posto; e statuario, si trovò perfino a dover sorridere, mentre Bessie avvicinava vorace la sua bocca già schiusa.
Lo carezzò piano, guancia contro guancia, naso contro naso, e lo riempì di umidi baci sugli zigomi, sul collo, arrivando a tormentarlo ancora e ancora, con piccoli e futili morsi, fin quando non affannò tra le sue labbra e cercò una passione profonda che mai, se non per proprio tornaconto, Charles le avrebbe regalato. Così, con le sue lunghe dita tra i capelli e sulla nuca, con un piccolo grugnito e le narici arricciate, lei si sentì di nuovo giovane e attecchì alla parete che aveva dietro le spalle. Chiuse gli occhi, mugolò il suo nome senza riuscire a renderlo tale, infine gli circondò il collo con le braccia e lo strinse a sé.
Lui continuò per qualche istante, immaginando di divorare Grace e di affondare ancora e ancora tra le sue labbra tinte dalle barbabietole rosse; e rimpianse quel sapore acre, l'odore della cipria di terz'ordine, mentre nel sangue gli ribolliva l'arsenico. Poi, quando smise, si ritrovò con le pupille dilatate e gli occhi di Bessie puntati addosso. La prima cosa che le chiese fu: «Che cosa c'è che non va?».
E lei, irritata, echeggiò: «Che cosa c'è che non va in voi?».
Corrugò la fronte e inspirò a fatica, stizzito. Mosse un passo indietro. «In me non c'è niente che non va. Perché credete una cosa simile?».
«Mio marito è morto proprio così...», scattò furibonda, «... guardandomi e dicendo che andava tutto bene». Lo studiò e, con il respiro corto, iniziò a chiedersi: "È colpa mia? Sono io quella sbagliata?". Allora sentì le lacrime premere per uscire e un singhiozzo che le bloccava la voce. «Come mai mi fate questo?», domandò in un rantolo, «Dovete davvero arrivare a prendere delle medicine per amarmi, Charles?».
Lui spalancò gli occhi e quasi vacillò. Sentiva la risposta sulla punta della lingua, quel "Sì, devo proprio" che scalpitava per uscirgli di bocca; tuttavia si trattenne e biascicò un: «No». Scosse la testa, chinò lo sguardo, mormorò l'ennesima bugia nella bugia: «Speravo solo di rendere tutto più bello».
«Non fatelo mai più», guaì Bessie, con gli occhi lucidi e le sopracciglia tremule, mentre si stringeva ai revers del cappotto di Charles, «... mai più», e affondò la fronte, il naso, l'intera faccia, sul suo petto.
Da quando Lisa era morta, troppo certo che sua madre fosse arrabbiata con lui per la storia dello specchio, Arthur si era ben guardato dallo scendere all'ora di colazione; tuttavia, dopo aver incontrato William, si era detto che l'unico modo per ottenere qualcosa dal borioso Randal Griffen fosse proprio quello di fare un piccolo passo nella sua direzione: naturalmente con accondiscendenza. Così si presentò a tavola e, vestito a lutto, sorprese tutti; perfino Irma, la cameriera, che spalancando i grossi gli occhi nocciola si affanno ad aggiungere posate e bicchiere con uno squillante:
«Buongiorno, signorino Arthur».
A quelle parole, Randal aggrottò le sopracciglia e ritirò il mento verso il collo come una tartaruga in piena regola, o forse un piccione: non che proibisse alla servitù di salutare ed essere educata, è vero il contrario, ma proprio non immaginava che suo figlio potesse ravvedersi dall'oggi al domani. Dunque piegò la lettera che stava leggendo e riemerse dalle righe. «Arthur, qual buon vento ti spinge tra noi?», chiese ironico, «Dovrei forse credere che tu sia tornato a essere un modello per la società borghese?». Si sfilò gli occhiali e li posò sul tavolo, mentre lo vedeva sedere davanti a sé.
«Buongiorno, padre», gli rispose sorridendo affabile, mentre Irma serviva una tazza di tè. Ignorò la provocazione, poi si volse a Suzette con un: «Buongiorno, madre». Le vide tagliare il pudding con la forchettina d'argento, socchiudere le labbra e portare una piccola porzione alla bocca; tuttavia non udì alcuna risposta e percepì una stilettata al petto. "Mi odia, mi odierà per sempre", pensò. «Tornare a mangiare con voi è un piacere».
«Un piacere, già...», citò Randal con poca convinzione, mentre Arthur prendeva a sorseggiare il tè.
«Credo di poter dire che mi siate mancati entrambi».
«Stai mentendo». Smise di guardarlo, tornò a fissare il proprio piatto con fare assorto. Le posate in mano, un grugnito basso, iniziò a dividere il prosciutto affumicato dal grasso che lo circondava e scosse la testa. «Non sei il tipo, non tu».
«Credete?», lo incalzò.
Fu il turno di Suzette, che disse: «Ci hai fatto fare una figura meschina con Margaret Dodd, Arthur».
Sentendosi colpevole, deglutì e strinse forte la tazzina: tanto da sbiancarsi le nocche, tanto d'avere l'impressione di poterla mandare in pezzi. «Ammettetelo, madre, perfino Lisa era più bella di Ethel Dodd». Si sforzò di continuare a sorridere, di tenere la schiena dritta. «Non vorrete certo che vostro figlio si sposi con una ragazza del genere». Ridacchiò nervoso. «Che razza di nipotini avreste, poi?».
«Vorrei che tu trovassi moglie», sospirò lei, con lo sguardo basso sulla zuppa d'avena e il cuore pesante, «Lisa non c'è più e tu sei tutto ciò che resta della nostra famiglia...». La voce le morì in gola, quasi si perse in un singulto. «Che ne sarà dei Griffen? Il nostro nome morirà con noi».
Arthur lanciò un'occhiata veloce a Randal e lo scoprì di nuovo intento a pizzicare un angolo del prosciutto con forchetta e coltello. «La troverò», scandì.
«Hai pensato a qualche fanciulla in particolare?», indagò Suzette, l'emozione incalzante dietro il costato.
«Probabilmente no», grugnì Randal, dopo essersi pulito le labbra con il tovagliolo color avana.
Ma Arthur lo corresse, disse: «Forse», e rimase sul vago, perché "Non ho davvero pensato a nessuno". Sorrise ancora, posò la tazzina e poi azzardò con un: «A ogni modo, avrei una richiesta». Si vide subito fulminato da uno sguardo di miele bollente. "Ora o mai più", pensò fingendo indifferenza dinnanzi alla furia di Randal. «Ho un favore da chiedervi, padre».
«Un favore, certo!», tuonò lui; e batté un palmo sul tavolo, fece tremare le posate, il tè, la spremuta d'arancia. «Stai scherzando, spero!».
«Al contrario».
Prese un grosso respiro e si coprì la bocca con una mano come per trattenere una serie d'imprecazioni. Poi se la passò sul viso a coprire gli occhi e tentò di frenare la rabbia, espirò e inspirò ancora, gettando via aria calda dal naso e dalle labbra schiuse.
«Randal, caro...», lo chiamò Suzette.
«Sentiamo cos'hai da dire, Arthur».
I calcagni sulla sedia e le piante che sporgevano appena, che si muovevano su e giù nervose, veloci, isteriche, come in preda a dei tic, perché impossibilitate alla vera fuga. "Voglio andare via", pensava Grace, "voglio andare via adesso". Gli avambracci sulle ginocchia e la testa posata in avanti, il volto nascosto. Sapeva di non poterlo fare, ma lo pensava ugualmente. Nelle orecchie le rimbombava il grugnito di Edward l'ubriacone e perfino l'eco dei rimproveri di sua madre e sua sorella Christi, la quale aveva passato le ultime tre ore a dirgliene di tutti i colori assieme a Fred. «Non volevo», piagnucolò, «mi dispiace, mi dispiace», e sperò davvero che la smettessero, serrò la presa delle braccia attorno agli stinchi, strinse la gonna in un tulipano di pieghe.
La nonna, stesa sulla branda e interessata alla sciagura, intervenne: «Una disgrazia, una disgrazia!». Si scostò la coperta dal petto, si afferrò i capelli come per strapparli.
Christi, viola in volto, batté un pugno sul tavolo. «Come avete potuto farlo?», chiese, «Sapete bene come comportarvi, cosa dovete fare e non fare. Vi siete rincitrullita tutto d'un tratto?».
I piccoli, costretti in pianerottolo, si fecero ancora più curiosi nell'udire l'ennesima offesa di Christi. Cercarono di sbirciare oltre la soglia, che era stata solo accostata con il "trucco del sassolino sullo stipite"; ma Edward se ne accorse e, dopo averli fulminati con un paio di urla barbare, li cacciò via malamente sbattendo l'anta in un grosso scossone.
Fu allora che William, di rientro, sentì tremare le mura del palazzo e avanzò titubante lungo le scale. Vide i bambini chiusi fuori: alcuni seduti a giocare con i vicini, altri sul pianerottolo; e spalancò gli occhi sollevò le sopracciglia folte. «Che cosa sta succedendo?», chiese in un rantolo, più a se stesso che ad altri.
In quel momento, i singhiozzi di Grace si fecero più forti, pesanti, e Samuel fece la voce grossa. Diede un pugnetto al petto, s'indicò convinto e dal bassò della sua statura spiegò: «Grace ha fatto un bambino». Poi iniziarono ad affollarsi tante risposte in un vociare infantile: "Non l'ha fatto, sta in pancia", "Lo deve fare", "Hanno detto che non lo fa", "Lei lo fa, invece".
William impallidì e non attese oltre: si lanciò contro la porta e prese a bussare veloce. «Sono William, aprite», gridò più volte. I battiti accelerati, un fischio sordo nelle orecchie e brividi a fior di pelle, si disse: "Devo fare qualcosa", e affannò contro la vernice che cadeva a pezzi, con la paura che gli montava nel petto e lo divorava dentro. "Non fatele del male": era quello il suo mantra, perché temeva che Grace potesse prendere le stesse legnate che Fred aveva riservato a lui dopo il lavoro a casa Griffen, quando non era stato pagato come pattuito ed era tornato a mani vuote, portando con sé solo la cassetta di Robert.
«Ehi, ragazzino». Edward gli comparve davanti sbuffando vino rancido dalla bocca. «Dove sei stato finora?».
Lui non rispose, ma si concentrò sull'ingresso per cercare Grace con lo sguardo. La trovò seduta e accovacciata su se stessa dietro le spalle di Edward; dunque mormorò uno: «Spostatevi», e si fece largo in casa. Dopo essersi umettato le labbra secche, sussurrò: «Forse ho trovato un lavoro, un lavoro vero...», e guardò Fred, perfino Christi, che sembrava nera di rabbia, «Possiamo risolvere anche questa situazione».
«No!». Grace si strinse le ginocchia al petto. Il respiro conto, ripeté ciò che aveva detto fino a quel momento: «Non voglio farlo, non voglio liberarmene».
«Lo farai, invece», sentenziò Fred, che se ne stava ancora con le braccia incrociate. La voce ridotta a un ringhio basso, sibilò: «Avresti potuto cercare lavoro in qualche fabbrica, magari passando le tue giornate a tessere come Olivia e Christi, ma hai preferito restare lì, a Haymarket», sputò, «una comune prostituta, neanche ti avessimo cacciata di casa...».
Grace deglutì a fatica, con il naso che gocciava e non le permetteva di respirare bene. Sollevò il capo per guardarlo e quasi strillò. «Non mi volevano in fabbrica!». Ansimò, senza più aria nei polmoni. «C'è troppa gente, nessuno ha un lavoro!».
«Potevi fare qualsiasi cosa, qualsiasi altra cosa», continuò imperterrito, «Potevi raccogliere mele, no?», e fece un gesto in direzione di William.
Lei si alzò di scatto, batté i piedi in terra e lo guardò negli occhi. «E l'inverno? Come avremmo vissuto l'inverno?».
«Tua madre guadagna a sufficienza come governante».
Grace serrò i pugni. «Non è vero», singhiozzò, «non è affatto vero».
«C'è Christi, c'è Olivia...».
«Siamo in tanti, padre».
«Tuo fratello Walter è rientrato dal mare».
«E quando saranno finiti quei soldi come faremo?».
«Partirò io». La raggiunse a grandi falcate e, dinanzi a tutti, rimase fermo a minacciarla in silenzio; tuttavia Grace non si mosse, non si ritirò e non abbassò il mento: coraggiosa, con il respiro corto, lo fronteggiò.
«Siete troppo vecchio, nessuno vi prenderà mai come mozzo». E non appena lo disse, Grace si sentì colpire in viso con un manrovescio, barcollò, finì in terra. Il sangue in bocca e i denti che raschiavano la lingua.
«Non osare», le sibilò Fred a un palmo dal naso.
Lo sguardo di Grace gli si posò contro con astio. Non disse una parola, ma affannò percependo il battito che, frenetico, le squassava il petto e le lacrime calde lungo le guance. Aveva voglia di provocarlo, sentiva gl'insulti martellarle in testa, premerle sulla punta della lingua; tuttavia l'ingoiò uno a uno, assieme alla saliva ferrosa: giù, lungo la gola, fin nello stomaco. Poi distolse lo sguardo e pensò a Charles, si chiese: "Cosa penserà di me?", e anche, "Cosa penserà di noi?", ma addirittura, "Esiste un 'noi'?", e poi, "Questo è un 'errore'?", oppure, "Lui come lo chiamerà questo 'errore'?".
Note bis:
Chiedo umilmente scusa per aver saltato l'aggiornamento del martedì, ma ho avuto qualche piccolo incidente di percorso (letteralmente): chi segue Crisalide sa di cosa sto parlando, perché la fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo e sa dove abito! Insomma, pensavo di stare male, invece era solo l'inizio, perché poi mi hanno investito con la bicicletta. Son cose che succedono (NO). Almeno Crisalide l'avevo in bozze. Se ho dimenticato qualcosa per le note, ditemelo, pls-
Curiosità:
Tralasciando la battuta di Charles, palesissima con la storia di Giuda, dovete sapere che ha letteralmente pagato il silenzio di Clif con trenta scellini, tre in meno dello stipendio settimanale di un operaio in fabbrica... Chissà quanti londinesi avrebbero voluto essere lì in quel momento al posto suo.
Che si è preso Charles? Si è dopato di Arsenico. Bella la vita dell'Ottocento, quando non c'era il Viagra e per tirartelo su con le signore anziane dovevi farti prescrivere l'arsenico. Peccato per la tossicità.
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