Capitolo 7
"Ne ho viste di più belle" fu la frase in grado di compromettere la credibilità di Randal, che aveva presentato suo figlio come lo scapolo più interessante, dalla dialettica ineccepibile, nell'alta borghesia di Londra: in breve, a detta di Margaret Dodd, era stata "Una caduta di stile, un'offesa che nessuno avrebbe saputo o potuto tollerare". E nell'arco di un paio di giorni, malgrado stesse osservando uno stretto lutto tra le mura domestiche, anche lui venne a conoscenza del misfatto, di quel maledettissimo "Ne ho viste di più belle". Così, appena gli fu possibile, raggiunse la sua stanza e, come una furia, intenzionato a intercettarlo prima ancora che abbandonasse il completo nero per filare nel salotto di Bessie, spalancò la porta. «Sei un pazzo!», gridò sull'uscio, con gli occhi fuori dalle orbite e i muscoli tesi.
Arthur trasalì. Abbassò subito il fazzoletto sporco di Bloom Rose che aveva in mano e cercò di nasconderlo dietro la schiena. Dunque si voltò, i polmoni schiacciati contro la colonna vertebrale e il mento ritratto. Chiese a se stesso: "Perché è qui?", e "Perché non ha bussato?"; tuttavia non fiatò e serrò le labbra appena tinte di rosso. Sentì un fremito sotto pelle, i peli delle braccia che, tendendosi, si sollevavano uno a uno, e pregò che Randal non si accorgesse del cambiamento dovuto al cosmetico di Lisa.
«Sei un pazzo!».
Appellato in quel modo, Arthur se lo vide venire incontro con veemenza e appallottolò il fazzoletto, lo lasciò cadere sul mobile che aveva dietro di sé. Teso in un'espressione pressoché neutra, mormorò: «A cosa vi riferite, padre?».
«Sai bene a cosa mi riferisco, sciagurato...», quasi ringhiò sollevando un pugno a mo' di minaccia. «Lo sanno tutti, tutti». Storse il naso, smise di grugnire solo quando Arthur urtò i cassetti con l'anca. «Dannazione», riprese in uno sbuffo frustrato, «sei la rovina di questa famiglia, sei una disgrazia!».
«Parlate forse della signorina Ethel Dodd?», continuò da grande attore.
«Sì, parlo delle tue parole infelici».
«Le mie sono solo considerazioni».
«Non sono considerazioni, sono offese belle e buone: hai offeso Margaret Dodd, hai offeso sua figlia e hai offeso me».
Arthur scosse la testa. «Ho soltanto detto la verità». Sorrise in modo sfacciato. «Dovreste vederla da vicino prima di ritenermi un mostro senza cuore, padre, perché non è così bella come dite e non è così bella come crede sua madre». Fece un gesto spicciolo con la mano, tentò di minimizzare. «Non avete una buona memoria.»
«Mi prendi in giro?». Mostrò i denti e, feroce, si artigliò al bavero della giacca di Arthur. Con le narici allargate se lo strattonò vicino. «Ti scuserai con Margaret Dodd e con sua figlia Ethel».
«Affatto, non ho nulla per cui scusarmi», negò sottovoce, con le tempie in fermento e una voce impazzita nelle orecchie, che diceva: "Scappa, scappa, perché se non vi scusate, Artie, finirete ammazzato di botte". Ed era ancora lei: Lisa, Lisa, Lisa; la ragione che gli mancava. «Non posso scusarmi, perché esistono tante donne più belle della signorina Dodd».
«Cercane una, dunque». Randal lo lasciò andare con uno scossone. «Alla svelta, Arthur, perché non ho voglia di vederti bighellonare in giro e non ho intenzione di mantenerti».
«Pensate forse che una moglie potrebbe mantenermi, quindi?», chiese, quasi ridacchiò, con un sopracciglio arcuato e teso.
«Se la donna che troverai, quella tanto più bella di Ethel Dodd, non sarà sufficientemente ricca per te, allora dovrai trovare un lavoro», gli suggerì, «ma credo non sarà un problema per qualcuno che ha studiato a Oxford, per chi è figlio di un giudice...» concluse spicciolo dandogli le spalle.
Mentre il fumo saliva al soffitto in vaporosi serpenti azzurrini e la sigaretta gli si consumava tra le dita, con invisibili scintille di tabacco tostato, Charles sembrava soprappensiero e osservava l'andirivieni silente dei domestici, che costeggiavano le pareti del salotto di Bessie, il su e giù delle tazzine di porcellana, i bicchieri di Cognac che bagnavano i baffi dei signori e perfino la porta. Soprattutto la porta, sempre la porta, perché Arthur era più in ritardo del solito; e non con eleganza, bensì per un contrattempo: era evidente. Quando fece la grazia di presentarsi sull'uscio, poi, Charles si sporse verso il tavolino e, attirata l'attenzione delle signore con un lieve colpo di tosse, ciccò nel posacenere accanto alla teiera. «È arrivato...», dichiarò serio come un araldo, «... è qui, è ancora vivo e vegeto».
Accanto a lui, sul divano, Bessie sorrise raggiante e posò il ventaglio sul bracciolo. Dimentica dell'eleganza, si sollevò in uno sbuffo vetriolo e decise di applaudire come fosse a teatro. Gli occhi limpidi di una giovane troppo cresciuta, di una seconda età ormai raggiunta, intonò a gran voce: «Bene arrivato!», e ancora, «Bravo!».
Perplesso e al centro dell'attenzione, Arthur batté le palpebre. "Prendersi le proprie responsabilità", ricordò, "e perché non dovrei?". Sollevò gli angoli delle labbra verso l'alto e felino, si fece avanti come nulla fosse: la testa alta, le spalle ritte, lanciò qualche occhiata tutt'attorno. «A cosa devo quest'accoglienza?».
«Ho pensato che mi steste tradendo», ammise Bessie nel tornare a sedere. La mano protratta in avanti, sentì il tocco di Arthur sul dorso e arrossì, si fece stretta su un lato del divano per averlo accanto. «Quando mi è arrivata voce della vostra presenza a casa di mia sorella, sono diventata livida di rabbia; eppure, subito dopo mi è stato detto quello che avete fatto...», ridacchiò portandosi un palmo dinanzi alla bocca, «... e allora sì che mi sono calmata!».
«Non avrei mai potuto tradire la vostra amicizia».
«Siete così caro».
«Siete voi a essere cara con me, lo siete sempre stata».
«E ditemi, com'è stato frequentare per un giorno il salotto di mia sorella?».
«Terribilmente noioso», lamentò, «e sappiate che non avrei retto la sua compagnia per un giorno intero». La sentì ridacchiare. «Io, lei e sua figlia: tre persone che non hanno nulla in comune e che sono state costrette nella stessa stanza dal borioso Randal Griffen».
«Oh, cielo!», squillò, con le dita inguantate dal pizzo che posavano teatrali sul petto, «E perché mai l'avrebbe fatto?».
«Un incontro combinato». Arthur si sistemò i ricci scuri. «In realtà, vostra sorella pretendeva che parlassi di qualcosa. Qualcosa, cara Bessie, ci credete? Ma come si può parlare di qualcosa? Non è un po' vago questo qualcosa? Lei stessa non aveva argomenti per me e ha divagato per minuti, strozzandosi nel tè che, peraltro, non ha nulla a che vedere con quello che servite nel vostro salotto».
«Terribile, deve essere stato terribile», sussurrò Bessie divertita.
«Poi ha mandato sua figlia, la signorina Ethel, a suonare al pianoforte». Si schiarì la voce e sollevò per un attimo le sopracciglia. «Credo che volesse evitare l'imbarazzante silenzio».
«Di una noia mortale».
«Ma anche poco intelligente». Con l'ennesima risatina di Bessie nelle orecchie, Arthur si voltò in direzione di Charles. «Potreste offrirmi una sigaretta, amico mio?», chiese rimanendo con la mano a mezz'aria e il palmo rivolto all'insù.
"Diavolo, no": così avrebbe voluto rispondergli; ma anche: "Iniziate a pensate voi ai vostri vizi", una frase alquanto ipocrita. Così lo guardò di traverso e corrugò appena la fronte nel soppesare la richiesta. Schiuse la bocca, sputò via tra i denti una nuvola di fumo, infine commentò tra sé e sé con un: "Assurdo", e ghignò amaro. «Dovreste badare di più alle vostre passioni nascoste, non credete?». Tirò fuori il portasigarette argentato e, senza aggiungere altro, glielo aprì sotto il naso. «Servitevi».
"E quali sarebbero le mie passioni nascoste?". E mentre il sorriso si faceva teso, mentre lo stomaco bruciava di rabbia e le viscere si contorcevano, Arthur prese a riepilogare tutti i passi falsi della sua vita. "Le mie passioni nascoste...". Afferrò e se la infilò tra le labbra, aspettando che fosse Charles ad accendergliela. Poi, in silenzio, vide la fiamma bruciare la cartina e rimase a osservarla da vicino, con gli occhi bassi e profondi, cupi, assorti. Aspirò una boccata di tabacco, liberò fili grigi ai margini di una tinta rossa e fittizia chiamata Bloom Rose e solo allora si ritrasse. Le spalle contro lo schienale, i polmoni offesi e striminziti, pieni di fumo. «Grazie, Charles». Decise di accantonare i pensieri, di non soffermarsi sulle passioni nascoste, perché la voce di Lisa gli echeggiava in testa con un: "Che ne sa Charles?".
Tuttavia lui sapeva, perché Arthur era un libro aperto e scritto con caratteri ben marcati. Un buon osservatore, perlomeno qualcuno che conosceva la vita, avrebbe saputo notarlo in un battito di ciglia. «Per un amico, questo e altro», disse monocorde, con l'aria di avrebbe potuto infilare il pugnale nel costato di un fratello, «non penserete, spero, che io sia così perfido dal negarvi una sigaretta». Sorrise sornione e trattenne un suono cinico sulla punta della lingua. Mise via il portasigarette e l'accendino nella giacca corta, poi riprese a fumare. "Ricorderà del viaggio in carrozza?", si chiese, "Saprà tenere la bocca chiusa oppure no?". Dopo aver ciccato, si schiarì la voce. «Ne ho viste di più belle», citò, «A chi vi riferivate?».
Arthur impallidì sotto il velo di polvere di riso, mentre lo sguardo di Bessie si faceva curioso, pettegolo, assieme a quello delle sue amiche storiche. Solo allora, nervoso, si ritrovò a mentire con un sussurro stridulo: «A mia sorella».
«Vostra sorella?», echeggiò Charles, con poca convinzione.
«A mia sorella, sì».
Bessie annuì e intervenne nel discorso con il ventaglio chiuso, che subito agitò in direzione di Charles: gli occhi in fiamme, sbuffò aria calda dal naso e arricciò il viso come un fazzoletto sporco. Infine, rivolta ad Arthur, disse: «Vostra sorella era un bellissimo fiore: è normale che, quando voi paragonate a lei le altre fanciulle, vi sembrino come delle erbacce insignificanti».
«Avete centrato il punto, Bessie, come sempre», rispose annuendo, mentre Charles lo appellava "Ruffiano" a mezza bocca.
«Sono lusingata che mi crediate tanto perspicace», continuò lei, «ma in realtà lo penserebbe chiunque», e guardò verso le sue amiche, che annuirono una a una con commenti del tipo: "E chi potrebbe negarlo?", "Lo avete detto anche voi", "La signorina Lisa è stata fortunata", "Oh, ricordo ancora la sua bella pelle!". «Dopotutto», riprese Bessie, «voi le assomigliate molto: è ovvio che vogliate accanto una donna più bella di mia nipote...».
A quelle parole, gli occhi di Arthur parvero brillare di una luce strana, addolciti o forse ancora esaltati nell'ossidiana pura. «Credete che io sia bello?», chiese.
«Certo, caro Arthur». Annuì senza il minimo tentennamento.
Charles tese le sopracciglia. Pensò alla storia della Creme Celeste e a William, alla porta di Lisa. Un brivido freddo parve scuotergli il petto, le braccia, mentre ispirava a fondo dal naso. Sentì le dita pungere e poi distolse lo sguardo da quella scena pietosa, fissando invece le nocche ingiallite, quasi fosse in trance, estraniato dal proprio corpo. La sigaretta aveva ormai smesso di bruciare per lui, perciò la spense di getto, irritato, facendola scricchiolare sotto i polpastrelli.
Quando il terrore prese a scivolare nelle vene di William, ormai era notte inoltrata a Conduit Street; e nel guardarsi attorno, la prima cosa che pensò fu: "Che cosa diavolo sto facendo?". Era certo di aver esagerato, di aver fatto il passo più lungo della gamba, perché chiunque, vedendolo vagare in quelle condizioni nella zona a bene di Londra, avrebbe potuto "Accusarmi di furto senza un motivo". Dunque fu quasi sul punto di tornare indietro, si disse: "Edward può anche andarsene", e "non ho intenzione di cercare lavoro per pagare da bere a un ubriacone", ma soprattutto "non voglio finire in prigione per errore"; eppure si ricordò della voce furente di suo padre, del fittabile che aveva bussato ancora e ancora, fin quasi a buttare giù quell'insulsa porta scrostata che li teneva al sicuro. "Mi dovete un mucchio di soldi", così aveva detto loro, e poi aveva iniziato a sbraitare contro Fred che, quando lo aveva visto andare via, si era sfogato su William, neanche fosse il capro espiatorio della situazione. "Niente lavori stagionali": così gli aveva imposto. "E niente più maledette mele". Sotto il portone dei Griffen, lo sentì ancora gridare nelle orecchie, in testa, nel petto. Sembrava una condanna, una minaccia. "Eppure io mi sono impegnato tanto", pensò, "tutti gli anni, tutte le estati, sempre". Si strinse nelle spalle. Con il volto freddo, niveo solo al tocco, e il naso arrossato in punta, attese un qualche miracolo dietro le finestre ben chiuse del palazzo.
«William?». Il tono incerto, forse addirittura curioso, che accompagnava lo stridere dei tacchi sul suolo. "Cosa ci fa qui?".
Trasalì, colto alla sprovvista, e si voltò subito, riconoscendo la voce mentre lasciava nell'aria una piccola nube biancastra. Il respiro mozzato, condensato. «Siete ancora in piedi, signor Griffen?», biascicò scioccamente.
«Non si vede?». Mosse un passo verso di lui e si guardò attorno circospetto. «C'è qualche problema? Perché sei venuto qui?».
La voce di William si affievolì. «Ho un favore da chiedervi».
Fu allora che Arthur corrugò la fronte, che ritirò appena la testa e lo squadrò da capo a piedi. Dapprima cercò d'indagare con curioso un: «Dimmi, avanti...», ma subito dopo se ne pentì e serrò la presa sul suo nuovo bastone da passeggio. Trattenne il moto nervoso del capo, quello che lo spingeva a battere frenetico il piede in terra. «Non che m'interessi», ci tenne a precisare, «ma insomma, cosa c'è?».
«Avete bisogno di qualcuno a servizio?», azzardò tutto d'un fiato.
«No». Pensò a Grace, la prostituta che tanto piaceva a Charles e che si era chinata in avanti per vedere come stesse su quelle disgustose scale di Whiston Street, così scosse la testa e, fissandolo in viso, capì di aver risposto bene; tuttavia non mancò di fare come consigliato da Randal e si disse: "Occhi negli occhi". Ma poco dopo, concentrandosi sulle sue pupille gonfie di William, provò un brivido.
«Ah, capisco».
Ebbe come l'impressione di vederlo sbiancare, così tentò una spiegazione blanda: «Siamo al completo, seppur con pochi servitori, e non abbiamo bisogno d'altro». Si schiarì la voce, mosse di poco il pomo. «Lo chiedevi per tua sorella Grace, giusto?».
William era paonazzo. "Infame", s'apostrofò, "non sembri neanche un fratello!". Le viscere aggrovigliate dal disgusto, sorrise a fatica; o quantomeno ci provò per non sembrare scortese. «Sì, certo, per Grace: lei ha bisogno di cambiare lavoro».
«Mi dispiace, ma abbiamo cameriere a sufficienza: un paio bastano e avanzano».
«Immagino che abbiate ragione». William emise un suono debole e fingendosi divertito, cercò d'ingoiare il macigno che aveva in gola. «Perdonatemi, non volevo disturbarvi». Si sentiva un mendicante, ma non lo era mai stato e "Non voglio diventarlo, così come non voglio diventare un ladro"; perciò non gli risultò difficile pronunciare le parole a seguire: «A ogni modo, signor Griffen, ho una cosa che vi appartiene...».
«Non mi devi nulla», lo liquidò di fretta. "Vuole forse ricordarmi del debito che ho pagato?", si chiese, "Oppure vuole sottintendere che non desidera ciò che gli ho dato?". Subito, irritato, si crucciò; tuttavia, dinanzi al palmo sollevato di William, spalancò gli occhi e trasalì.
«Questo dovete averlo dimenticato errore», disse.
Arthur si tastò le tasche del cappotto nuovo, c'infilò dentro le mani e cercò negli angoli. Il fiato corto, mozzato, trattenuto in una pressa chiamata "senso di colpa". D'improvviso realizzò che aveva ragione lui, William, un ragazzo sconosciuto dell'East End, che per chissà quale assurda ragione era stato gentile. Dunque schiuse le labbra, la bocca, e bisbigliò un: «Grazie», mentre i brividi lo attraversavano da capo a piedi. Allungò la mano, afferrò il medaglione cesellato e, portandoselo di fronte, lo aprì per guardarci dentro. "È tutto come dovrebbe essere", gli sussurrò l'inconscio, forse la voce di Lisa, di fronte alla piccola ciocca bruna legata con un fiocchetto blu. Un sospiro, le lacrime agli occhi, infine lo nascose in tasca e lo strinse nel pugno.
"Non pensavo fosse davvero suo". William mormorò solo: «Vi auguro un buon proseguimento», e tentò di darsi alla macchia lungo Conduit Street; tuttavia venne fermato con un solo:
«Però...».
Si bloccò, quasi strusciò le suole e sentì le dita dei piedi pizzicare, battere addosso alla pianta troppo stretta. Spalancò gli occhi in un moto di speranza e sentì il cuore saltargli in gola come per soffocarlo, impedendogli di parlare.
«Però potrei aver bisogno di qualcuno», riprese, «qualcuno che si occupi di me personalmente».
William sentì le sopracciglia muoversi in un tremolio agitato. «Ne avete bisogno davvero?».
«Potrei, sì». In un attimo gli tornarono alla mente le parole di Charles, quelle "passioni nascoste", così disse: «Tu conosci i miei bisogni, sai già ciò che c'è da sapere su di me e ciò che mio padre non deve assolutamente scoprire». Lo vide annuire. «Ma non sono io che prendo certe decisioni», ci tenne a precisare, «è proprio il borioso Randal Griffen che gestisce le finanze, che si occupa di pagare la servitù...».
L'illusione di William parve andare in frantumi in quello stesso istante, quando udì il soprannome di Randal. «Non potete parlare con lui?», azzardò.
«Posso farlo, ma credo ci saranno delle conseguenze».
«Che tipo di conseguenze?».
«Conseguenze di tipo matrimoniale», borbottò nervoso; e prima ancora che William potesse guardarlo di traverso, prima che potesse indagare in qualche modo, si preoccupò di spiegare sua sponte: «È convinto che debba sposarmi per andare via di casa il prima possibile».
«Voi non volete farlo?».
Arthur sorrise con fare sfacciato, ironico. «Se riesci a trovare una donna degna della mia bellezza, William, sarò lieto di sposarmi con lei». Fece una risatina asciutta. «Ma prometto che parlerò comunque con lui, perché la tua presenza sarebbe utile sia al mattino che alla sera».
William osservò l'avanzare fiero e superficiale di Arthur, lo stesso con il quale si muoveva verso il portone che aveva dinanzi, e rimase in silenzio. Lo studiò, fissò i contorni del suo abbigliamento eccentrico, fatto di velluto e stranezze, chiedendosi cosa diavolo avesse in mente e perché lo ritenesse un utile lacchè per il mattino e la sera; tuttavia non lo contraddisse, non si grattò neppure la nuca com'era solito fare nei momenti di dubbio: storse appena la bocca in una smorfia, mentre lui spariva oltre la soglia. «Borghesi...», borbottò, mani in tasca.
Note bis:
Bellissimo trovarsi sul punto di aggiornare e ricordarsi di non aver inserito un pezzo di dialogo: magnifico! Ultimamente sto perdendo i pezzi, mi sento un puzzle dimenticato, porca miseria! E in tutto questo mi si è fratturato un dito; per fortuna che so come steccare le articolazioni, ragazzi!
Curiosità:
Finalmente sappiamo cosa si portava in tasca il nostro Arthur: una dei tanti oggetti funebri. Peccato che siano tipici femminili. E va beh, succede.
Che dire, non vi ho detto cos'è la Bloom Rose, no? Una preparazione rossa per labbra e per le guance che, purtroppo, causava la paralisi muscolare se associata al frequente utilizzo. Diluita in acqua ed essenza di rose, si applicava con un fazzoletto morbido e conservava per una settimana, massimo dieci giorni.
Lavori stagionali ne abbiamo? Il coglimele. C'erano lavori che duravano tutto l'anno, altri lavori che andavano a stagione. Cresciuto, Will è passato a quelli stagionali. Mica dice culo a tutti nella vita. Lui coglie le mele (MARLENEEEEE ndme).
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro