Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

Capitolo 6

Carezzando l'incavo della schiena nuda di Grace, Charles la sentì rabbrividire sotto la punta delle dita e la vide protrarsi in avanti, tentare la fuga come una ninfa dei boschi, mentre mugolava e sorrideva con le labbra gonfie. "Così diversa da Bessie", si disse, e in un attimo gli tornò alla mente la pelle cadente di lei, quella che era costretto a palpare tutti i giorni senza mostrare ripugno. Sentì le viscere attorcigliarsi, ribaltarsi, e corrugò la fronte contrariato. "Non con Grace", pensò, "non voglio ossessionarmi mentre sono con Grace". Le narici larghe, prese una grossa boccata d'aria e si spronò alla ricerca del volto rotondo, del profumo di lavanda. La sentì ridacchiare, sgusciare su un fianco e ritrarsi ancora, prima di cadere supina e aprire la bocca inerme. Allora le baciò una guancia e si lasciò carezzare dal naso incipriato, dalla lingua rossastra.

Col collo proteso verso di lui e i capelli bruni che riposavano scomposti sul cuscino dell'albergo, Grace sussurrò: «Anche oggi è finita: mi lascerete a casa e ve ne andrete».

Charles nascose il viso tra i riccioli, in quel miasma di avena, sudore e lavanda. Espose i denti e prese a mordicchiarle una spalla e se la strinse contro. Lasciò scorrere le mani lungo i fianchi, sulle costole e i seni sodi, piccoli, rotondi. Non rispose, ma provò anzi a immaginare come sarebbe stata la sua vita senza Bessie e senza le parole: "Anche oggi è finita". Perché se avesse avuto una fidanzata, o una moglie carina come Grace, non avrebbe mai pagato per fare sesso lì, in un luogo sconcio qualunque di Haymarker. E proprio Grace, lui riusciva a vederla. Chiudeva gli occhi ed era vestita alla moda, con il corsetto nascosto, mentre le camminava di fianco spavaldo schernendo gli snob tra le vie di Londra.

«Anche oggi è finita»: un suono basso, una condanna a morte, l'anima che si strappava dal corpo. Grace aveva le dita perse sulla cute di Charles e le muoveva in piccoli cerchi, carezzava i capelli biondi, spettinati, senza abbandonare i suoi occhi.

Allora lui ritrasse il capo, e in quella supplica, con il respiro corto e i gomiti sulle lenzuola ombrate, sporche, che sapevano di chissà quanti prima di loro, pensò: "Se potessi, se solo potessi". Ma non volle più pensarci, perché conosceva la risposta: "Anche oggi è finita", e si avventò su di lei, l'ammutolì per non sentirlo di nuovo.

Le guance calde, arrossate, e il trucco sciolto sotto i polpastrelli. Ancora i bacini che, uniti, parevano cercarsi per prolungare l'attesa in quell'ennesima notte senza tempo. Non una parola, solo l'eco del gemiti di Grace, di Charles, e di tutti quegli sconosciuti confusi dietro e sotto le porte del corridoio. Di nuovo il battere frenetico dei letti contro le pareti, quelli che scandivano il ticchettio di un orologio inesistente. Poi la puzza di muffa, l'odore stantio, il legno vecchio e il cigolare del materasso, lo scricchiolio delle assi, la polvere sollevata in righe e sbuffi.

Charles le afferrò una coscia, premette piano attorno alla carne e sentì la sua voce nell'orecchio. Tra le gambe, si spinse in avanti e strusciò con il sesso gonfio, pulsante, mentre lei mugolava e si aggrappava, stringeva, gli afferrava le spalle. Le sentì battere un ginocchio contro il costato, così non indugiò oltre ed entrò. Lento, come al solito, nel luogo più caldo che conosceva. Si lasciò andare a un sospiro e reclinò il capo, abbassò le palpebre, smise di guardarla solo per afferrarle i fianchi e muoversi avanti e indietro: come piaceva a lui, senza pensare ad altro per un po', lasciando che Grace si artigliasse alle lenzuola. Poco dopo, in un gemito roco, venne. Cercò i suoi occhi dall'alto e scorse una scintilla di vita, forse un barlume di speranza o una richiesta d'aiuto; e conoscendo Bessie era qualcosa che a lui non sfuggiva mai. Dunque si ritirò, il respiro ancora alterato, e la raggiunse supino.

«Non dovete, davvero». Grace scattò a sedere paonazza.

Charles posò un gomito sul materasso e la guardò di traverso, con un palmo già posato sul suo pube sporco. «Preferisci essere usata, piuttosto che godere dei piaceri terreni?», domandò crucciato, «Mi sembra strano».

«Voi mi pagate, signor Bellecote», obiettò in un brivido, non riuscendo a distogliere lo sguardo dall'indice che avanzava verso il suo ombelico teso.

«Prima ti sei lamentata di dovermi lasciare andare», la contraddisse, «Che strana creature sei?».

«Vorrei tanto che mi consideraste solo come Grace...», ammise, la voce vibrante d'imbarazzo, «... solo come Grace».

"Non sai quanto vorrei farlo": così avrebbe voluto risponderle, ma non poteva. Ecco perché quelle parole gli sembrarono una pugnalata al petto ed ecco ancora perché Charles non riuscì a sostenere quello sguardo; "Troppo sincero, troppo puro", così si disse. Vittima di se stesso, scivolò giù dal letto e le diede le spalle. Si avvicinò alla giacca, tirò fuori i soldi e li lasciò cadere sulle lenzuola sfatte, prima di cominciare a rivestirsi. «Sbrigati, ho predisposto una carrozza per riaccompagnarti a casa», borbottò tra i denti.

Grace tenne lo sguardo fisso sulle monete e, gelata, sentì l'imbarazzo svanire per trasformarsi in debolezza: sulle guance non c'era più il rossore del tipico della vita, ma il cadaverico pallore della morte. "Incredibile", si disse. Non riusciva neppure a sollevarsi in piedi, o battere le palpebre, tant'è che deglutì a fatica, con un masso in gola e gli occhi pieni di lacrime. «Certamente, signor Bellecote», riuscì a scandire, quando raccattò il denaro.

Lui annuì e non aggiunse altro. Attese, però, che Grace si rivestisse prima di aprire la porta. E con lo scalpiccio di lei nelle orecchie uscì per primo. Avanzò in fretta e furia lungo il corridoio, ebbe l'impressione di non udire più nulla: nessuna eco, niente lamenti, zero rimbombi; perché volle credere che "Tutto questo non esiste". Ma era certo che esistesse la carrozza che aveva prenotato e che lo stava aspettando, fuori da quella catapecchia, un isolato più giù. Dunque, non appena la vide, sul volto di Charles si allargò un sorriso compiaciuto. «Bene», masticò tra i denti, con Grace alle spalle. Si affannò a raggiungere il cocchiere, lo ragguagliò in merito all'itinerario, infine montò e si sedette, lanciando un'occhiata disinteressata all'esterno. Al che la vide ritta, con il mento alto e orgoglioso, ma muta come una tomba; e raggelò, non riuscì neppure a mostrarsi superiore, tantomeno la invitò a voce alta per farsi avanti. Le fece un gesto.

Grace chinò il capo, se lo fece andare bene e montò, chiuse lei stessa la portiera. Tacque per tutto il viaggio, rimanendo con gli occhi fissi fuori dal finestrino, mentre i lampioni accesi scorrevano accanto a loro nel baluginare della notte.

Così Charles iniziò a chiedersi se avesse fatto un'idiozia nell'esporsi tanto, nell'avvicinarla, perché "Mi piace davvero", e "Non va bene, non va affatto bene", dal momento che la vecchia Bessie era l'unica persona ancora disposta a mantenerlo, a pagare i vizi e le stramberie che lo distinguevano da quando era stato cacciato di casa. "Che disgrazia", pensò, "Tutto questo esiste", e si morse nervoso l'interno di una guancia.

Giunti a Whiston Street, la carrozza si fermò ed entrambi i passeggeri ebbero un lieve sobbalzo all'interno.

Charles serrò le dita sul pomo del suo bastone, fece scorrere la mano sullo stelo ammaccato, infine colpì il tettuccio un paio di volte e chiese: «Siamo arrivati?». Un moto di euforia gli attraversò le viscere, e non poté fare a meno di guardare Grace, di desiderare ancora le sue labbra, il suo corpo. Inspirò a fondo, udendo la risposta del cocchiere:

«Siamo arrivati, signore».

Fu allora che Charles si sentì mancare il respiro e, agitato, scattò verso di lei. Pareva una lince. Gli occhi fini, le labbra schiuse e piegate. L'afferrò per la nuca, la baciò di nuovo e, cogliendola di sorpresa, le fece strabuzzare gli occhi. Si udì lo scricchiolio del legno, il live muoversi dell'abitacolo. Poi prese a divorarla e il cuore di entrambi perse un colpo, magari due, perché la porta si aprì. Charles tornò a sedere composto, Grace scese in silenzio e sorrise.

Scosso lì dov'era, sulle scale di quel palazzotto, Arthur sentì dapprima una pungente zaffata di muffa solleticargli il fondo delle narici e poi l'acre dell'urina e del vomito di qualcuno. Ebbe l'impressione che lo stomaco potesse ribaltarsi, finire sottosopra, troppo disgustato dall'olezzo e dalla sporcizia di Whiston Street. Grugnì schifato e s'incassò nelle spalle, nascondendosi dalla luce tremolante della candela, quel mozzicone del secondo piano, laddove non c'erano più le bambine e lui sedeva senza il coraggio di uscire fuori. Socchiuse gli occhi e non poté fare a meno di battere le palpebre più e più volte per schiarirsi la vista nella penombra. "Sto sognando?", si chiese scioccamente, "O magari no, magari sono morto, magari mi ha preso il gelo"; tuttavia Charles era davvero lì, con una mano stretta sulla spalla della giacca corta della sua divisa estetica, e continuava a cercare una qualche sua reazione mentre lo chiamava:

«Mi sentite?», diceva, «State bene?», e ancora, «Arthur, amico mio...».

Riuscì ad annuire. Un po' confuso e contrariato, con la gola secca e la bocca impastata dal sonno. Gli occhi ridotti a due fessure corvine, allontanò Charles e lo guardò torvo, prendendo poi a frizionarsi le braccia colpite dagli spifferi. Stanco, forse anche deluso, pensò: "Se sono qui, è solo colpa sua", e impiegò un po' per notare la giovane donna che gli stava accanto. Lei aveva il collo segnato, il volto tondo e pallido, le guance un po' scavate, coperte dal trucco naturale, povero e sbaffato dall'ardore di un'intera notte d'amore e follie. Lo fissava a bocca aperta, mettendo in mostra i seni piccoli attraverso la scollatura ampia del corsetto brunito. "Una prostituta", così si disse Arthur.

«Perché siete qui sulle scale?», domandò Charles, catturando finalmente la sua attenzione e bloccandone l'analisi. «E perché diavolo siete in queste condizioni?». Tornò ritto con le spalle e si fece passare il bastone da Grace per poi puntarlo sullo scalino cui si trovava.

"Mi sta prendendo in giro?". Quasi non sbottò a ridergli in faccia. Sollevò le sopracciglia e si lasciò andare a un suono sdegnato. Sospirò, storse la bocca in una smorfia e si artigliò alle maniche della giacca. «Perché voi siete qui?». Cercò di schiarirsi la voce. «Io sono soltanto venuto per pagare il mio debito, non ricordate?».

«Questo non spiega nulla, amico mio».

«Cosa volete che vi dica, allora?».

«Perché non indossate il cappotto, per esempio», borbottò guardandolo dall'alto in basso, «oggi pomeriggio eravate vestito, se non vado errando», e scosse la testa, «In secondo luogo, perché state per morire d'ipotermia nell'East End».

«Già, forse sarei dovuto venire in carrozza». Un suono scocciato, uno sguardo altrettanto irritato. «Come voi, suppongo...».

Charles annuì e incassò quella distorta e velata offesa. «Come me», ripeté, «ovvio che sono venuto in carrozza». Sollevò gli occhi, li puntò su un'infiltrazione che mangiava parte delle scale e del muro. «Con questo volete forse dirmi che siete venuto a piedi?» Schioccò la lingua sul palato. «Non siete mica un folle».

«Folle quanto basta».

Batté il bastone sul ginocchio di Arthur, dopodiché lo spronò ad alzarsi: «Basta con queste idiozie, è meglio andare», disse spicciolo.

Ma lui se ne uscì di colpo con una domanda: «Credete davvero che io possa morire così?». Rimase immobile. «Congelato, dico, seduto sui gradini di un palazzo a Whiston Street?». La testa posata contro il muro e i capelli, che parevano uno squarcio di notte, appena sollevati lungo l'intonaco. Scostò la spalla, fece pressione con una mano e si sollevò senza attendere una risposta: lui la conosceva già. E con uno sbuffo, portando via qualche calcinaccio, batté i tacchi in terra.

Solo allora, quando Charles notò che l'occhiata di Arthur non era per lui, si premurò di presentare Grace. «La sorella minore di William», disse, «il ragazzo che siete venuto a pagare stasera e per il quale, presumo, stavate per morire prima del nostro arrivo: si chiama Grace».

«Incantato», sussurrò di rimando, facendole un cenno con il capo, «è sempre un piacere conoscere un bella donna».

Grace sorrise, e qualche istante dopo, nel silenzio che si era creato, balbettò con voce tremula: «Il piacere è mio». Spostò gli occhi al suolo, arrossì, neppure si rese conto dell'evidente gelosia di Charles e di quanto un misero complimento lo avesse infiammato di rabbia. Poi, furtiva, capì di doversi ritirare e abbozzò un timido: «Spero di rivedervi presto».

«Non dubitarne». A parlare fu Charles, che restando fermo dov'era seguì il suo scalpiccio fin quando non la vide sparire oltre il pianerottolo del secondo piano; e muto contò i suoi passi fino in cima, attese che aprisse e chiudesse la porta di casa. Solo allora tornò su Arthur. Lo fissò di sguincio, sibilò: «Andiamo, avanti», e parve quasi minacciarlo. Batté il bastone sul gradino per un paio di volte, lo richiamò all'ordine e iniziò a fare marcia indietro verso la strada, laddove si trovava ancora la carrozza.

Paranoico e puntuale come un orologio svizzero, il borioso Randal Griffen si piazzò dinanzi alla porta d'ingresso prima ancora che Arthur potesse mettere un piede oltre la soglia di casa. Lo sguardo serio, deciso, implacabile come ogni volta che entrava in tribunale con la toga indosso, e le spalle ferme, che non tradivano la minima esitazione. Portava gli abiti da lutto, così come si conveniva a un padre che aveva perso sangue del suo sangue, e non faceva che chiedersi perché suo figlio si ribellasse tanto, perché continuasse a scappare, a negarsi e a vestirsi come un pagliaccio da quando aveva finito gli studi a Oxford. Ma d'un tratto, vedendolo entrare, smise di pensare e serrò semplicemente i denti dalla rabbia. Provò l'impulso di afferrarlo per i capelli, di strattonarlo lontano per inculcargli bene in testa la gerarchia di famiglia; eppure ridusse tutto a una domanda: «Dove diavolo sei stato finora, scellerato?».

Apostrofato in quel modo, Arthur sobbalzò. Strabuzzò gli occhi e per poco non gli venne un colpo. Era ancora infreddolito, con gli arti intorpiditi, ma si sforzò di sollevare il mento e non scappare, perché Randal diceva sempre: "Devi prenderti le responsabilità di ciò che fai", e "Guardami in faccia". «Non immaginavo di fare tanto tardi, perdonatemi».

Quella non era una risposta, ma una giustificazione, e Randal lo sapeva bene: ne aveva sentite fin troppe. "Debosciato". Aggrottò le sopracciglia folte, piegò lo sguardo in piccole mandorle di laguna. "Bugiardo, fannullone". Le rughe si affollarono al centro della fronte, poco sopra il naso. Afferrò Arthur per un braccio lo strattonò in casa. «Sciocchezze», scandì chiudendo la porta, «lo sapevi bene». Solo allora lo guardò dall'alto in basso. Trattenne un'esclamazione, il fiato al centro del petto, e ignorò per un attimo la divisa estetica di suo figlio. "Se Suzette lo vedesse in questo stato ne morirebbe", pensò. «Ti hanno derubato?».

Arthur soppesò la risposta. "Potrei dire di sì". Serrò le labbra e, nervoso, premette le dita inguantate contro i palmi delle mani. "O potrei essere sincero". Affondò ancora, si sentì mancare l'aria in gola e allargò le narici come un coniglio pauroso. "Magari potrei fare entrambe le cose". «Credo di aver dimenticato il cappotto da qualche parte: nel salotto di Bessie Daneville, forse...».

Si udì lo schiocco della lingua sul palato, poi la rabbia di Randal: «Non ricordi nemmeno ciò che fai? Tutto ciò è ridicolo, inammissibile».

"E come contraddirlo?", si chiese. Distolse lo sguardo, ritirò il braccio dalla sua presa divenuta più morbida, infine gli lanciò un'occhiata furtiva e lo seguì con la coda dell'occhio, mentre sollevava una mano e premeva un paio di dita sulla tempia a causa dell'emicrania repressa.

«Vieni, Arthur», disse di soppiatto, incamminandosi verso il salone, «dobbiamo parlare».

Rimase perplesso, incuriosito, e cercò di farsi coraggio prima di muovere anche solo un singolo passo. «Certo», assentì. Si frizionò ancora un avambraccio, inspirò a fondo, si chiese cosa mai, dovesse dirgli a quell'ora tarda e se sarebbe riuscito a riposare almeno un po' prima del sorgere del sole; tuttavia lo lo seguì e, per giunta, lo precedette, sedendo controvoglia sul divano.

Il cognac in mano, gli occhi fissi nel bicchiere e le spalle rivolte ad Arthur se ne uscì con un: «Bessie Daneville ha una nipote favolosa, non trovi?».

«Non conosco la nipote di Bessie Daneville».

«Dovresti, visto che frequenti il suo salotto tanto spesso».

«Frequento il suo, non quello di sua sorella», lo rimbeccò monocorde, «Pare che le due non vadano d'accordo e che quando suo marito, la buon'anima, era ancora in vita, la sorella di Bessie Daneville abbia tentato di sedurlo».

«Sciocchezze, dicerie!». Randal si voltò nella direzione di Arthur e, crucciato, mosse appena la mano che sosteneva il Cognac per ammonirlo e tagliare corto. Dunque sorseggiò e riprese: «Margaret Dodd non è affatto il tipo di persona che credi», e assaporò il retrogusto sul palato, «è così rispettosa, così pia, così modesta».

«Spero non mi abbiate combinato un incontro, padre», mormorò, una nota d'ironia, «Dovrei dedicarmi al lutto, non cercare moglie», e sollevò un angolo delle labbra, lo schernì.

«Nemmeno andare in giro a divertirti, Arthur», sibilò iracondo, puntandogli contro il dito. «Che almeno sia produttivo questo tuo vagabondare!».

Colpito in quel modo, indurì i muscoli della schiena e aderì contro il divano. «Credete che io non sia produttivo?».

«Eccetto sperperare i soldi di famiglia, cos'è che fai?».

Arthur immaginò che suo padre avesse in qualche modo ragione, che i suoi piani per lui fossero stati diversi nel momento in cui lo aveva mandato a studiare a Oxford. Un avvocato, magari, o un giudice, ecco cosa sarebbe dovuto diventare; eppure: «Sollevo il morale della gente».

Randal si bloccò. Il bicchiere a mezz'aria, rischiò di strozzarsi con il Cognac. «Come, scusa?», chiese annaspando.

E fu allora che, come in un'illuminazione, Arthur si sentì possedere dallo spirito di Charles. Prese a scimmiottarlo, in realtà, e senza neppure accorgersene: posò un gomito sul bracciolo, drizzò la schiena, sollevò il capo con noncuranza. «Sì, padre, non è ovvio?», disse, «Le persone mi guardano e vedono la bellezza, mi guardano e si sentono bene».

«Sei impazzito, forse?», gli sputò dietro di rimando.

«Affatto, perché la gente capisce che la vita ha qualcosa da offrire e gode del presente, si arrampica sul momento, scivola all'indietro, ricorda l'attimo e io mi mostro e...». L'enfasi gli si mozzò di netto, così come il discorso, perché non riuscì a terminare la frase, quando Randal lo colpì con un manrovescio.

«Se devi dire certe assurdità, è meglio che chiudi la bocca», lo liquidò, «ne vale del buon nome dei Griffen». Tornò sui suoi passi e si versò un secondo bicchiere di Cognac. «Andrai a trovare Margaret Dodd e sua figlia Ethel il prima possibile», concluse.

Indossava il completo nero, la sua tenuta a lutto, e sapeva che ogni singolo capo commissionato al sarto era poi stato modificato sotto la supervisione e il gusto del borioso Randal Griffen; per questo, nel portarlo oltre le mura domestiche, non poteva che immaginarsi come un noioso borghese qualunque, o peggio ancora un becchino. Ma sembrava che lì, nella casa di Margaret Dodd, nessuno si aspettasse di vedergli addosso anche solo il largo fiocco che sfoggiava con orgoglio tra i salotti della Londra bene. Così, mentre gli occhi di Ethel gli si puntavano addosso curiosi, la sua unica preoccupazione era quella di non avere il panciotto giusto, quello che avrebbe fatto la storia, quando quel tradimento sarebbe stato sulla bocca di tutti. "Due giorni al massimo", si disse, "in due giorni Bessie saprà che sono stato a casa della sua nemica mortale".

«Siete oltremodo silenzioso», esordì Margaret, il volto disteso in un'espressione pacata. Si portò il tè alle labbra e, in un moto di speranza, sorseggiò. «Mi era stato detto tutt'altro, signor Griffen.»

Distolta l'attenzione dall'orologio, lui le lanciò un'occhiata veloce e abbozzò un sorriso tirato. «Chi vi ha parlato di me?».

«Ho molte amiche».

«Le vostre amiche, dunque, parlano di me», soggiunse divertito.

Margaret annuì con fare taciturno, ma non riuscì a trattenersi e proseguì alla svelta: «Dicono che siete molto loquace nel salotto di mia sorella, e che parlate spesso d'arte, di libri, perfino della vita». Sorseggiò ancora, abbassando poi la tazzina.

«Dunque avete delle infiltrate». Il tono basso, quasi confidenziale, sembrò scherzare con lei fino a farla ridacchiare. «Suvvia, ditemi di cosa volete parlare e lo faremo: non ho problemi».

«Oh, non potrei mai!». Margaret scosse la testa e cercò di restare ben ferma con le spalle. «Indossate ancora il lutto, non vorrei essere indiscreta e costringervi a una conversazione forzata».

«Nessuna conversazione è forzata, non con me», mentì lui.

Allora Margaret si schiarì la voce, vide sua figlia e arrossire in un muto imbarazzo e per un attimo si chiese dove fosse finita la sua intraprendenza. «Sapete, Ethel è molto brava a suonare il pianoforte».

«Lodevole», commentò neutro.

Ethel avvampò e chinò lo sguardo. «Oh, madre, non sono poi così brava».

«Hai preso lezioni per anni e continui a prenderle», sospirò, «Non dire sciocchezze». Posò la tazzina accanto alla teiera, infine congiunse le mani sulle ginocchia e la invitò con un'occhiataccia: «Alzati e fai sentire qualcosa al signor Griffen».

«Devo farlo adesso?», balbettò paonazza, con il tè che le tremava in mano e il cucchiaino tremulo sul piatto.

«Adesso», insistette Margaret.

Arthur storse appena le labbra. "Stessa pasta del borioso Randal Griffen", pensò, "ovvio che vadano d'accordo". «Non è necessario, se non se la sente». Sollevò lo sguardo d'ombra e, vedendola cerea, si rivolse direttamente a lei: «Signorina Dodd, non siete obbligata», disse.

«No, va bene...». Ethel si morse il labbro. «... è solo che non ho mai suonato per nessuno». Sgattaiolò lontano dal divano, verso il pianoforte, accompagnata da un leggero fruscio. Prese posto di fronte alla copertura nera dei tasti e chiuse gli occhi, inspirò a fondo, buttò fuori un sospiro caldo per rilassarsi.

Arthur smise di guardarla in quell'esatto momento e si concentrò sulla finestra, sul cielo opaco del pomeriggio. Dopo le prime note del "Chiaro di luna" provò l'impulso di volare via; eppure non aveva le ali, né le penne. E mentre Margaret gli si avvicinava all'orecchio per mormorare un:

«È brava, non è vero?».

Lui pensò ancora: "E se...". Si strinse nelle spalle, disse: «Sì, molto brava». "E se non fossi entrato dai Dodd?", "E se non fossi tornato a casa?", "E se fossi morto sulle scale di Whiston Street?", "E se...".

«E anche bella», lo incalzò, «lo so, mia figlia è un capolavoro».

Arthur spostò lo sguardo su Ethel e cercò di capire perché quella donna si stesse pavoneggiando tanto. Osservò i suoi capelli ben raccolti, acconciati e quasi biondi, forse tendenti al cenere, che ricadevano sulla fronte alta con qualche piccolo ricciolo; la linea del mento, le guance rosee, le labbra turgide, probabilmente morse più volte per sembrare gonfie; infine il naso dritto, quel naso così diverso da quello di Lisa. "E se...". E sollevò una mano, senza accorgersene fece scorrere un polpastrello lungo il suo. "E se Lisa non fosse morta?". Seguì la punta che profumava di rosa e bergamotto, quella coperta di polvere di riso. «Ne ho viste di più belle» disse.

Note bis:

Wow, questo capitolo è venuto un po' funghetto, lo so, ma solo perché nel precedente ho dovuto inserire una scena e, di conseguenza, ho spostato il finale in questo. In effetti ci sta bene, mi piace. Quando dico "un po' funghetto" si tratta di poche parole, in effetti, ma già immagino alcuni di voi con il fucine/forcone in mano. Che vi posso raccontare di bello? Ah, sì: è nato il Banana Blog. Non sono pazza, nope. Ma seguitelo, se vi va: sta nelle mie info autore. Recensioni e chicche galattiche potrete trovale tutte online.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro