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Capitolo 2

Lungo Bond Street, mentre camminava accanto a Charles, ad Arthur parve come di essere riemerso da una lunga nuotata; non che si fosse mai tuffato da qualche parte, a dirla tutta. Ciclamino rifiorito dopo la gelata, o blasfemo Cristo risorto, era osservato come un animale esotico e picchiettava la punta del bastone sul marciapiede trafficato dall'andirivieni borghese. Nella mano destra il pomo d'argento lavorato, nella sinistra un piccolo ciondolo nascosto in tasca. Teneva il mento alto, gli occhi aperti, e osservava uomini e donne con la stessa, solita aria sprezzante; tuttavia lo sentiva: il sospetto gli si era annidato dentro. "Loro lo sanno", si diceva, o forse se lo chiedeva, passando accanto alle coppie sposate.

Osservò una veletta lilla, le labbra piegate tra le rughe di una signorotta, e subito tornò a pensare a Lisa, perché quella reazione poteva essere solo di "Un'amica di famiglia, una conoscente, chissà...", e il cuore smise di avere un ritmo regolare, "Qualcuno che sa del lutto, qualcuno che vorrebbe sgridarmi": di questo ne era certo, perché suo padre lo avrebbe fatto.

«Cosa vi turba?», chiese Charles, quando Arthur gli scoccò un'occhiata affranta.

Fece spallucce, minimizzando solo a gesti e desideroso di aprisi replicò con un: «Cosa credete che mi turbi?».

«Non lo so».

Arthur premette le unghie contro il pomo del bastone, ne grattò i margini cesellati e indicò dei passanti con un cenno del capo. "Chiunque", penso, "il problema è chiunque".

«Scherzate, spero». Charles ridacchiò.

«Non scherzo, non su questo».

«Avete davvero paura che vi stiano biasimando?». Sollevò le sopracciglia. «Vi preme tanto sembrare un uomo rispettabile?».

«Mi preme rimanere in vita il più possibile», mormorò a mezza bocca, «e di questo passo, non appena rimetterò piede in casa, farò la fine del topo».

«Non ditemi che vostro padre ama fare le veci del gatto! Sul serio: quante volte vi ha messo nell'angolo?».

«Charles».

Bastò il suo nome a fulminarlo, a fargli arricciare le labbra e abbandonare la pungente ironia cui solitamente faceva uso e abuso. «Arthur...», lo chiamò in un lamento basso, «... vi siete mai accorto di quanto la gente chiacchieri durante il giorno?». Sorrise sardonico. «Chiacchiera, chiacchiera sempre». Gesticolò, e con le braccia mosse anche il bastone da passeggio. «Pare che nessuno abbia una vita interessante, perciò parla di quella degli altri». Il pollice sul pomo in bronzo liscio, gli occhi azzurri come due squarci di cielo, si volse alle nubi e poi sull'alta facciata color panna di un palazzo con le grosse vetrate decorate da colonnine in bassorilievo. «In questo caso, amico mio, voi siete per loro davvero affascinante».

«M'interessa poco», borbottò, «preferirei non esserlo».

«Come?». Strabuzzò gli occhi e per poco non spalancò la bocca in quello che sembrava il gracchiare di un corvo. "Non è possibile", pensò, "non è da lui", e continuò con una serie infinita di "non": "Non è neppure da me", "Non dovrei interessarmi così tanto", "Non dovrei stargli vicino", "Non farà bella figura"; semplicemente "non". Poi, un paio di signori senza arte né parte lo guardarono di sbieco. "Sono davvero così teso?", si chiese. Tese le labbra, le umettò e sentì il palmo sudare contro il pomo di bronzo. In quell'esatto momento decise di calmarsi, di ricomporsi. Batté il bastone al suolo, drizzò la schiena. «Mi chiedo se l'aver perso vostra sorella sia stato così doloroso d'aver ucciso anche voi», borbottò a mezza bocca, dopo aver scrutato Arthur nel magro tentativo di scorgere l'amico di un tempo.

«Prego?».

Gli si avvicinò di un passo e, sollevato il bastone da terra gli puntò contro il pomo come fosse un'arma. «Fino a qualche tempo fa eravate una compagnia spettacolare».

«State dunque portando a passeggio un cadavere, Charles?», lo provocò.

Un suono divertito gli scivolò di bocca. «A me non piace l'idea di fare il becchino», disse, «malgrado sia il cadavere che il becchino abbiano un abbigliamento impeccabile, s'intende». Lo guardò da capo a piedi, soffermandosi infine sul fiocco rosso che portava al collo e che spuntava dal cappotto grigio piombo.

«Tuttavia non sono morto».

«Ed è un bene», convenne, annuì, mosse un passo indietro. Quando fece scorrere il bastone verso il basso, questo gli scivolò prima sotto il braccio, si soffermò lì per qualche istante, infine frenò la caduta con la punta al suolo. «Preferirei che la situazione rimanesse invariata, se non vi dispiace», mormorò serio, «ci tengo a voi, amico mio». Strinse le dita sul pomo e premette, fece perno; un rimbalzo, il suono del legno che rintocca, e ci tenne a precisare: «Il fatto è che essere vivo fuori e morto dentro non vi rende più vivo di vostra sorella».

«Me ne rendo conto», grugnì, la voce vibrante; e contrariato, rimase intrappolato al centro del suo sguardo spumoso.

«Santo cielo!», imprecò teatrale, portandosi una mano al viso. «Allora cosa aspettate a risorgere?».

«Che vi esasperiate: adoro vedervi contorcere».

«State creando un'aspettativa infida nel vostro pubblico, caro Arthur».

«Mai troppo infida, se il mio pubblico siete voi».

Charles rise. «Alternate dei momenti di follia a dei momenti di lucidità», disse tenendosi l'addome, «non so se il vero pazzo sono io, che ancora continuo a starvi dietro, o voi, che architettate tutto questo.»

«È possibile che siate voi», scherzò Arthur, prima di riprendere il passo.

Arrivato nel salotto più famoso di King Street, Charles fu subito accolto con il tono civettuolo di Bessie Daneville, la proprietaria, che sorrise raggiante dal divano in broccato sul quale era seduta e riscosse un paio delle amiche storiche al suo fianco.

"Una scena pietosa", così si disse Arthur; tuttavia aveva assistito a momenti peggiori nel corso della loro lunga amicizia: "Il pianto disperato", iniziò a elencare tra sé e sé, "quando Charles doveva tornare a Londra dalla campagna e sembrava stessa partendo per la guerra a causa della servitù distrutta", "La nipote del signor Taylor, fanciulla innamorata che non voleva lasciare la città e che aveva minacciato il suicidio", o addirittura "Il matrimonio a tutti i costi, come lo aveva denominato Charles, perché il padre si era intestardito sull'erede e aveva indicato una lontana cugina per farlo arrivare all'altare".

«Oh, avanti, non vorrete farci attendere oltre». Bessie sollevò la voce e fece un gesto con il ventaglio. «Stavamo parlando proprio di voi».

«Se parlate di me quando non ci sono, la mia assenza non si noterà di certo». Charles si avvicinò assieme ad Arthur. «Le dicerie sono abbastanza ingombranti per natura, non trovate?».

Bessie ridacchiò e si sporse appena in avanti per allungare la mano nella sua direzione. «Niente dicerie, Charles», mormorò, «Lo sapete: di voi parlerei solo bene».

«E io di voi», soggiunse, prima di baciarle il dorso ancora liscio malgrado l'età avanzata.

Allora lei si rivolse ad Arthur. Inclinò appena il capo e, facendogli un cenno di saluto, disse: «Avevo il timore di non rivedervi, mio caro». Un sospiro, e aggiunse: «Non prima di qualche mese, s'intende. Vostro padre è oltremodo famoso per la sua rigidità, perciò noi tutti immaginavamo che vi avrebbe segregato in casa».

«Chissà, potrebbe farlo al mio rientro».

Charles corrugò la fronte e non poté fare a meno d'intervenire con un: «Non ammorbateci con certi discorsi, per favore». Prese posizione sulla poltrona che gli era stata indicata da Bessie e poi si legò al "problema Randal Griffen". «Sarebbe un vero peccato, amico mio, un vero peccato; tuttavia, sempre ammesso che accada, troveremo il modo per risolvere la situazione».

In tutta risposta, Arthur gli lanciò un'occhiataccia. Non riuscì a dire nulla, interrotto dalla voce di Bessie, che intonò frivola un:

«Mi dispiace così tanto per Lisa, aveva davvero un bel visino...».

A quelle parole lo colse un fulmine di turbamento. Si focalizzò sul personaggio che aveva strutturato Bessie per il salotto di King Street e pensò: "Falsa", con un sorriso leggero verso il basso, "ipocrita, forse anche troppo pallida per essere una rispettabile signora che non bada all'apparenza"; e in un attimo ricordò la sera in cui era rimasto a vegliare il cadavere: la pelle di Lisa, porcellana cinese, invidia di tutte le donne di Londra. Infine sorrise ancora, ma a fatica, sforzandosi di sembrare il più naturale possibile. Prese posto alle spalle di Charles, dietro la poltrona, e si sorresse con un avambraccio sulla sommità dello schienale gonfio e trapuntato. «Dispiace molto di più ai miei genitori, che si sono completamente allontanati dalla vita sociale», disse, «Non oso neppure immaginare a quali obiezioni andrò incontro per aver deciso di prendere un tè in compagnia».

Bessie si strinse nelle spalle, poi si voltò verso le amiche e fece un cenno ai camerieri, indicando il tè sul tavolino. Solo allora riprese a guardare Arthur e mormorò: «Voi fate bene, dopotutto la vita è un circolo; alcuni dicono che sia addirittura un circolo vizioso, ma credo dipenda da come la si vive! A ogni modo, caro Arthur, un momento appariamo come il fiore più bello e quello dopo siamo stretti tra le pagine di un libro: ingialliamo, cadiamo a pezzi». Attese in silenzio che il cameriere si ritirasse con le stoviglie vuote e sporche. «Quand'ero giovane mi sono dannata tanto, ho perso anni interi per colpa del lutto; a causa della morte del mio caro Alfred, dico. E me ne pento, me ne pento tanto, perché so che avrei potuto conoscere tante persone, magari anche ridere, scherzare, prendere il tè come faccio oggi».

Charles puntellò le dita sul ciglio del bracciolo, si schiarì la voce e cercò di attirare l'attenzione su di sé per interrompere il discorso. In qualche modo, azzardò: «Tuttavia non dovete rammaricarvene, Bessie, perché oggi siete bellissima».

Lei arrossì un po', sempre troppo lusingata dai complimenti. «Smettetela subito, adulatore!». Le piccole rughe tirate accanto agli occhi nocciola, diede un colpetto al braccio di Charles. «Credete che sia rimbambita, forse? So quando mi prendente in giro».

«Dico davvero, oggi più che mai...», la incalzò ridente, «Questo colore vi dona», e distese le gambe, «È vinaccio?».

«Sì, lo è». Annuì.

«Avete fatto una maschera al viso, forse?».

Bessie strabuzzò gli occhi. «Come ve ne siete accorto?».

«Ho un occhio critico, decisamente critico». Sollevò l'indice con fare beffardo, di chi la sapeva lunga, e tornando ritto con la schiena si adagiò meglio contro la poltrona. Un ghigno sardonico gli si dipinse sul viso, piegò le labbra rosate che tutte quelle donne ammiravano da mesi, prima che se ne uscisse con: «Perfino di Arthur... Oh, di lui potrei dire molte e molte cose!».

Udendo quelle parole impallidì. "Molte e molte cose", si ripeté, "di me?". Si vide scoccare un'occhiata dal basso e gli mancò l'aria nel petto, magari la trattenne in gola; a ogni modo parve andare in apnea e, cereo, fece preoccupare Charles, che subito intervenne:

«Ma non lo farò, non oggi e non in questa sede, altrimenti rischierei di farlo arrabbiare».

Bessie spronò le labbra in avanti, più curiosa e interessata che mai. Le mani in grembo, gli occhi brillanti, mormorò: «A cosa vi riferite?».

E sotto lo sguardo perplesso e sconvolto di Arthur, Charles trattenne una risata di circostanza. «Suvvia», disse, «non vorrete costringermi a parlottare di qualcuno che, per giunta, è qui presente!». Si coprì un lato del viso come stesse per dichiarare un segreto. «Non sono il tipo che alimenta le dicerie, mia cara Bessie, ma se avete delle domande da porgere al nostro caro amico, vi prego di farlo: non trattenetevi».

Lei ritrasse il collo e indurì i muscoli del viso, sparendo in una nube di vapore acqueo, mentre il cameriere serviva il tè caldo. Indugiò, poi inspirò a fondo l'aroma caldo delle Indie, e montò un sorriso statico, artificioso, tipico del suo repertorio. A King Street. «Nulla di particolare», negò in una scrollata di spalle, «è solo che mi piace chiacchierare in vostra compagnia», e li guardò entrambi.

Per nulla contento di quella risposta, Charles abbassò di poco le palpebre; tuttavia mugolò, annuì, e si finse soddisfatto. Allungò una mano per raggiungere la tazzina ricolma, fumante, e sussurrò: «Grazie del tè, Bessie».

«È un piacere» assentì lei.

A tarda serata, dopo aver trascorso un'intera giornata fuori, Arthur stentò a svoltare l'angolo di George Street per immettersi in Conduit Street. Desiderava tutto, eccetto tornare a casa e affrontare suo padre, ma la risatina ebbra di Charles lo spronava ad avanzare e gli ricordava che restare lì immobile, con le spalle contro il muro di quel palazzo, lo faceva assomigliare a un vero idiota, un ragazzino; senza contare che lui non era stato così smidollato nemmeno a dieci anni, quando in campagna faceva lunghe passeggiate senza servitù.

«Volete restare in mia compagnia tutta la notte?», chiese Charles d'un tratto, facendolo trasalire.

Arthur si voltò a guardarlo, ma non rispose. Lo vide con la sigaretta accesa, l'ennesima, e pensò a quanto fosse strano che un borghese come lui fumasse in pubblico, per le strade di Londra, senza il timore di essere additato come uno scostumato. Subito, chissà come, sorrise di tanto zelo.

E Charles continuò: «Perché, ammettiamolo, benché io sia una compagnia invidiabile, in questo periodo voi non siete altrettanto, amico mio». Lasciò ondeggiare una scia di fumo verso l'alto e ghignò con fare sfrontato. «Se proprio avete l'animo di tentare una rinascita, che sia tra le braccia di qualcuno d'interessante.»

«Avete ragione, Charles, non è il caso che vi costringa qui ancora a lungo» disse massaggiandosi piano la sommità del naso.

In tutta risposta ci fu uno sbuffò e una grossa, pesante nuvola di fumo. "Trasuda sconforto", pensò Charles. Gli si avvicinò a grandi falcate. «C'è qualcosa che vi turba ancor più di quel bisbetico di Randal Griffen», disse, «è questa la verità». Afferrò Arthur per le spalle e non lo scosse, lo guardò serio negli occhi, con le sopracciglia sollevate in due archi tesi. «Esigo che me ne parliate e che lo facciate adesso, prima di rientrare, perché di questo passo finirete sottoterra, proprio come vostra sorella».

"Sottoterra, eh...". Deglutì a vuoto. Aveva ancora una mano in tasca, stretta attorno al ciondolo cesellato, e in quel momento ebbe come l'impressione che stesse bruciando tanto lì, sotto il suo palmo, quando al centro del petto o in fondo alla gola, dove la verità gli era troppo pesante. "Sottoterra", continuò a dirsi. Indugiò, arrivando quasi a mordersi la lingua pur di non parlare, e scosse il capo. Dapprima rifuggì dall'odore di tabacco in fiamme che gli riempiva le narici, ma poi socchiuse le labbra e lo chiamò: «Charles». Vide i suoi occhi vicini, confusi, velati d'ebbrezza sopra una distesa d'acqua.

«Allora?», lo incalzò.

Arthur si divincolò. Mosse un passo indietro e allungò una mano verso di lui. In silenzio, chiese di passargli la sigaretta accesa. "Non lo so neanche io", si disse.

Charles corrugò la fronte e sperò di arrivare a capo della matassa. Sospirò e abbozzò un sorriso. «Bene», assentì. Non se lo fece ripetere due volte, considerò quel gesto inconsulto come un barlume di lucidità da parte di Arthur e, dopo aver afferrato la sigaretta tra indice e pollice, allungò il braccio nella sua direzione. «Allora, volete parlarmi o no?».

«La stanza di mia sorella è chiusa a chiave...».

«Come tutte le stanze dei defunti», minimizzò cinico, senza il minimo tatto, «Una corona sulla porta e via: si chiude. Chi ha qualche soldo in più non ha problemi a privarsi di una stanza, no? Di cosa vi stupite?».

Arthur riprese a guardarlo, aspirò a fondo dalla sigaretta e, mentre i brividi gli carezzavano le braccia, fece fluire via il fumo dalle narici strette. L'allontanò, poi l'avvicinò ancora e aspirò un paio di volte. «Ci sono delle cose che voglio, delle cose di Lisa, ma la chiave della sua stanza è nascosta. Forse si trova nei cassetti di mia madre, o che ne so io».

«"Delle cose di Lisa"», ripeté Charles, le braccia incrociate al petto. «"Delle cose" di che tipo?».

Messo alle strette, Arthur riprese a fumare con più veemenza e, dimentico del buoncostume, si sentì subito fulminato da un:

«Non siete per nulla elegante».

«A questo punto importa davvero dell'eleganza?», sussurrò torvo, con il sangue che gli rombava forte nelle orecchie e la vergogna salita a tingergli le guance. «Ci siamo solo noi due qui in strada, nessuno che possa guardarmi o giudicarmi».

«Non siete forse voi il peggior giudice di voi stesso?».

«Congetture, Charles».

«Allora ci sono io, dite bene, e vedervi stravolto è un'agonia».

Arthur allontanò la sigaretta dalle labbra e sibilò: «Voi agonizzate?». Trattenne una risata aspra, il fumo contro la gola. «Ma non ero forse io quello che avrebbe dovuto provare fastidio: l'unico, il solo, "il peggior giudice di me stesso"», citò sputando fuori il fumo dagli angoli della bocca, «Volete convincermi in ogni modo? Ebbene, io so che senza l'accesso a quella stanza, senza le cose di Lisa, non tornerò mai a essere ciò che ero una volta».

«Che diavolo!», imprecò Charles, «La Creme Celeste ce l'avete già, si può sapere cos'altro vi serve dalla stanza di Lisa?», e gli arrivò a un palmo dal viso, «Perché non potete mettervi l'anima in pace?».

Arthur sentì bruciare la sigaretta tra le dita, mentre Charles prendeva a scuoterlo come un bambolotto. "L'unico di cui non mi ero preoccupato", pensò paonazzo, "l'unico che ha riconosciuto il profumo come mia madre", deglutì, "e che se ne è accorto". «Tutto, mi serve tutto» balbettò.

Note bis: Ciao bimbi! Revisionare è strano, perché non mi sono mai messa a fare un full immersione come questo. Sto rivedendo dialoghi, descrizioni, periodi... e bon, la situazione si fa massacrante, soprattutto perché mi sono messa le scadenze.

Curiosità:

La camera del defunto. Che roba, eh. Ebbene sì, se eri ricco a sufficienza chiudevi la stanza del defunto con tutto ciò che c'era dentro, compresi i drappi sugli specchi del periodo post-morte, e la lasciavi chiusa: pace. Se non eri ricco la risposta è "no, t'attaccavi al cavolo".

La sigaretta era da considerarsi sciatta, perciò non si fumava in pubblico, al massimo nelle bettole, e chi lo faceva era invece un personaggio estroso. Al massimo si optava per il sigaro. Oh, quello si che faceva bene alla salute (?)

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