Capitolo 1
Dopo il funerale, Arthur non aveva smesso di sognare Lisa una sola notte, perché convinto che fosse intrappolata proprio lì, dietro il drappo nero, nello specchio della toletta; e a metterglielo in testa era stata Suzette, che la mattina dopo la veglia lo aveva trovato addormentato vicino ai fiori, con il mento chino sul petto e le braccia incrociate in una posa a suo dire indecorosa, invece che vigile accanto alla salma.
"Sarà vero?", si chiedeva spesso, passando di fronte alla porta chiusa a chiave per tradizione, "Ci sarà un fondo di verità?", e osservava la corona di fiori appassiti, gl'intrecci di raso, i fiocchi. "Le avrò impedito di trovare la via?". Con la presenza di Lisa ridotta a un ritratto sulla parete, Arthur si tormentava i polpastrelli e affondava le unghie nei palmi, disegnava piccole lune gialle su una tela di pelle. Codardo naufragava nel colletto e provava a scorgerla di sguincio laddove solo un pittore era riuscito a renderla immortale.
Lei era sempre la stessa, ma da diverse angolazioni: bellissima, florida, ferma nel tempo, con il sorriso in volto e la testa appena inclinata; talvolta più austera, talvolta intraprendente. Le labbra un po' piene, strette, simili a un frutto maturo, e le ciglia curve come ali di rondini.
La ricordava proprio così, e così gli appariva non appena calava la palpebra per la stanchezza. Continuava a sentirla: "Artie", diceva, "perché lo hai fatto?", e ogni tanto piangeva, gli rimbombava nel cervello con un singhiozzo più forte. Lo additava, perché non sapeva dove fosse l'aldilà.
Ne era ossessionato e turbato al punto da detestare il sole del mattino, perché solo da formica, come un signor nessuno, poteva avvicinarsi alla serratura.
E in quel momento, corvino, cercò di fare il più piano possibile. Dietro di lui, una scia di rose e bergamotto. Spinse lo sguardo lungo il corridoio, sbirciò a destra e a sinistra per accertarsi di essere solo, infine allungò una mano con titubanza. Posò un palmo sulla porta, carezzò il legno e poi abbassò a vuoto la maniglia. "Illuso", si disse, "patetico, sciocco, illuso". Sospirò e fece un passo indietro. Quasi finì con le spalle al muro, sotto la cornice dorata, opulenta, che decorava il vezzo di una giovane in età da marito. Osservò ancora gl'intrecci della corona funeraria e fece scattare le unghie contro loro stesse. Tic tic tac: un rumore abominevole, di ossa deboli. Tic tic tac. Fosse stato per lui avrebbe forzato la serratura con uno spillo, o quantomeno avrebbe chiamato qualcuno in grado di farlo; tuttavia continuò a tormentarsi le dita tra loro e cercò di ragionare, di capire come poter entrare senza destare sospetti. Tic tic tac.
Sull'orlo dell'esasperazione, prima ancora di lasciarsi scappare uno sbuffo, vide la risposta comparirgli dinanzi con le fattezze di una cameriera: aveva l'aria già stanca e una cesta tra le braccia, segno evidente che avesse appena cambiato la biancheria nella stanza di sua madre. Le sorrise, e lei non solo s'inchinò, ma abbassò addirittura il capo con rispetto per seguitare in direzione opposta lungo il corridoio. «Con permesso, signorino», disse.
Lui annuì in silenzio e, fermo dov'era, udì il suo scalpiccio farsi lontano, ovattato. Sollevò un angolo delle labbra, si sentì sul punto di poter cantare vittoria e mosse un passo in avanti; tuttavia il sangue gli si gelò nelle vene al suono del suo nome:
«Arthur».
Era la voce di Randal, perciò impallidì e si lasciò attraversare da una scarica di brividi a fior di pelle. "Mi avrà visto?", iniziò a chiedersi, "Cosa starà pensando?". Rizzò la schiena come un soldatino, rilassò a forza i muscoli del viso e distese le spalle. «Buongiorno», mormorò.
Fece qualche passo e, con gli occhi socchiusi in due fessure color miele, Randal ebbe subito l'impressione che suo figlio stesse tremando. "Inaudito!". Avrebbe voluto afferrarlo per la collottola e scuoterlo neanche fosse un gatto. "Sì, ne avrebbe bisogno", si disse. «Ti aspettavamo per la colazione».
Arthur abbozzò un sorriso e cercò di minimizzare con una mano tra i riccioli. «Davvero?», ridacchiò, «Credo di aver perso la cognizione del tempo».
Un moto di nervoso attraversò le braccia di Randal, allorché lo incalzò ed echeggiò il suo: «Davvero?», e si concentrò per mantenere la calma. "Suzette darebbe di matto, se solo ci vedesse litigare qui", pensò lanciando un'occhiata fugace alla corona funeraria. «Questa casa è piena di orologi», gli fece notare, «solo uno è fermo; e per volontà dell'uomo...».
Sentendo quelle parole, i peli delle braccia di Arthur si sollevarono sotto la camicia. Per lui fu come trovarsi dinanzi al fantasma di Lisa, il suo incubo, e deglutì il groppo di saliva che gli ostruiva la gola. Per poco non distolse lo sguardo, batté solo le palpebre e unì le labbra per tenderle. Ammutolito si chiese: "Come fa a essere tanto serio?", e ancora, "Questo è un rimprovero, o cosa?". Non riuscì a rispondere in tempo, perché subito si sentì interrompere con un:
«Hai bisogno di essere richiamato all'ordine dalla cameriera come quand'eri piccolo?».
Arrossì di vergogna e inspirò a fondo l'aroma di fiori marci. «No, padre».
«Bene.»
Gli vide fare un gesto veloce con la mano, indicare il fondo del corridoio, così lo seguì con la coda dell'occhio e capì che avrebbe dovuto allontanarsi alla svelta, magari anche precederlo. Lo fece, ma solo dopo aver annuito paonazzo, dimenticando a fatica la sua ossessione nel cassetto. Inadeguato, piccolo come un penny, si lasciò affiancare e dire:
«Che diavolo ti sei messo addosso?», e poi, «Dovresti portare il lutto».
Perché Arthur non era un corvo perfetto, no. "Che sciocco", si apostrofò in silenzio, con le labbra puntate all'ingiù, "Mi chiedo, anzi, perché ci abbia messo tanto". Chiuse gli occhi dopo appena un paio di passi e si bloccò in corridoio, con le dita premute sul panciotto a rombi verdi e viola; e gli parve di sentirlo, lo sguardo di Randal, mentre gli bruciava addosso con lo sbuffo:
«Sei imbarazzante, Arthur».
"Imbarazzante non è la parola giusta, avrebbe detto Lisa, ma immagino che nessuno possa più risponderti".
«Servono degli abiti nuovi per onorare tua sorella», continuò a dire Randal, «Invece tu cosa fai? Ignori il sarto per vestirti come un giullare». E non trattenere la lingua, la lasciò schioccare sul palato.
«Attenderò il sarto».
«Sarebbe anche ora».
Silenzioso, Arthur lo seguì fino in salone. Lì trovò sua madre che, coperta dal velo nero, sedeva di fronte alla finestra a osservare il nulla. Aveva le dita intrecciate sulle ginocchia, la testa volta verso il vetro e le labbra tremanti, secche, così come le mani che, incartapecorite dalla troppa preghiera frusciavano sul vestito nuovo.
Voleva riscuotersi da quell'incubo, perciò batté le palpebre e tentò il risveglio, perché mai, in quei giorni, gli era capitato di trovare Suzette fuori dalla sua stanza; e averla lì di fronte, soprattutto in quello stato, lo faceva sentire responsabile per la storia dello specchio. "A chi voglio prendere in giro?", si schernì, "Sapevo che era uscita, ho visto la cameriera dopo che le ha cambiato la biancheria". Vacillò d'insicurezza, infine cercò delle parole per salutarla, per iniziare una qualsiasi conversazione; eppure fu lei a voltarsi, a notarlo.
Lo guardò, le borse gonfie sotto gli occhi rossi, e biascicò: «Potevi scendere per colazione».
«Mi dispiace, madre».
Randal intervenne cinico: «Aveva perso la cognizione del tempo», disse. Raggiunse sua moglie e si sedette di fronte a lei. Aprì di nuovo il quotidiano stirato della servitù e si distrasse in meno di una manciata di secondi.
Suzette sussurrò uno stentato: «Che cosa significa tutto questo?», prima di guardare suo marito senza ottenere alcuna risposta. Dunque aggrottò le sopracciglia e, perplessa, puntò Arthur.
Nemmeno lui seppe rispondere. Prese tempo con un sorriso appena accennato, imbarazzato, mentre le guance gli si tingevano di vergogna. Cercò di avvicinarsi a lei, ma la vide subito negarsi al saluto mattutino: non una carezza, non un bacio. «Questa mattina avevo poco appetito», provò a dire, «o forse non ne avevo affatto, perciò non pensavo che fosse il momento di scendere».
«Non hai guardato l'orologio?», lo rimbeccò con voce tremula.
Scosse la testa colpevole. «No, non l'ho fatto».
Fu a quel punto che, mentre Randal aveva lo sguardo perso tra le righe del quotidiano, Suzette socchiuse le labbra e mosse le narici come un coniglio. Inspirò a fondo l'aroma di rosa e bergamotto, lo stesso della Creme Celeste. «Lo senti anche tu, Arthur?», chiese allargando gli occhi, dopo avergli afferrato un avambraccio.
Lui sussultò. Avendola così vicino non poté farsi sfuggire né una ruga di preoccupazione, né un barlume di gioia. Capì in uno schiocco di dita, e altrettanto veloce si ritirò, tornando ritto con la schiena. Quasi iniziò a sudare freddo. Di fronte all'espressione di Suzette, con le dita che gli ghermivano ancora il braccio, divenne cereo. «A cosa vi riferite?».
«Al profumo di Lisa.»
In piedi come uno stoccafisso e con l'espressione assorta, sembrava che Arthur avesse perso la capacità di battere le palpebre: era un guscio vuoto, opalescente, che rifletteva i raggi del secondo mattino. Di fronte a lui, Charles Bellecote, il suo caro amico d'infanzia, che scuoteva la testa e lo fissava dubbioso.
«Non vi riconosco più», disse squadrandolo da capo a piedi, «Davvero, cosa vi è successo?». Aveva il tono canzonatorio di uno snob di città e la sigaretta ben stretta prima tra le dita, poi tra le labbra, in un andirivieni pieno di savoir faire. Le sopracciglia bionde, il sorriso di una volpe, prese a segnare scintille rossicce con un gesticolare elegante.
Con la coda dell'occhio, Arthur lo vide aspirare a fondo e udì il suono soffice delle sue labbra contro la cartina umida, attorno al tabacco caldo. Allora si riscosse e sparì in una nuvola di fumo. Paonazzo, quasi si morse la lingua e indurì i muscoli del viso. Senza emettere un suono, pregò che la nebbia bruciata non si diradasse più, che lo inghiottisse, perché era a disagio così ammantato di nero, dopo che il sarto gli aveva cucito a pennello il vestito a lutto. «Dite?», azzardò qualche istante dopo.
Charles annuì con un: «Dico, dico», e ciccò nel posacenere in bronzo che aveva vicino, «Non avete fatto tutte queste manfrine nemmeno quand'è morta vostra nonna; e quanti anni avevate allora?».
«È successo cinque anni fa, ne avevo ventisei», sbuffò.
«Circa il vostro abbigliamento... vostro padre avrebbe potuto diseredarvi anche all'epoca», disse, «avevate appena messo il naso nelle casse di famiglia, come tutti i ventiseienni».
«Può farlo ancora, in fondo l'età conta poco in certe faccende».
Charles emise un suono infastidito e si lisciò la giacca di velluto indaco. «Siete sempre stato così attento ai dettagli. È un peccato che vi buttiate via per una sciocchezza del genere». Con le sopracciglia sollevate, tornò a cercare gli occhi di Arthur e poi aspirò una boccata di fumo. «La vita scivola via facilmente, amico mio», sorrise, «bisogna godersela fino al suo ultimo soffio, altrimenti ci si pente a posteriori e per troppe ragioni».
«Come se non lo sapessi». Dalle labbra di Arthur scappò un piccolo uh; e mentre i serpenti grigi lo avvolgevano salendo fino al soffitto, lui poté solo chiedersi: "Lisa avrà afferrato la vita, oppure no?". «Lo farei», ammise roco, «se solo non vivessi con quella piaga di Randal Griffen».
Charles mosse qualche passo nel salone e poi, di colpo, si piegò in avanti. I capelli acconciati, immobili, cercò di nascondere la risata convulsa dietro un pugno chiuso. «Oh, già...», biascicò, «... "Il borioso Randal Griffen", famosissimo in tutta Londra per essere un uomo rigido e inflessibile». Rischiò quasi di strozzarsi e tossicchiò divertito, con Arthur che prendeva a picchiargli la schiena per fargli sputare il nulla. «Porta anche sfortuna, vedo», disse roco d'un tratto, ripreso dal suo stato di soffocamento.
"Sì, probabilmente porta più sfortuna lui di un gatto nero": così avrebbe voluto rispondere Arthur, ma non appena schiuse la bocca si trovò a doverla serrare di nuovo, perché Charles gli rifilò sotto il naso la sigaretta accesa e dimezzata.
«Volete favorire?», chiese.
Scosse la testa. Gli occhi scuri, con le pupille ristrette e quasi invisibili, si concentro sugli arabeschi in vetro opaco che decoravano l'ingresso. "Non posso", pensò. Ebbe come l'impressione di essere un cane da caccia, o magari da tartufo, con il naso di un vecchio contadino ubriaco. «No, grazie, non ora», sussurrò.
Charles lo spronò bonariamente con un: «Avanti, non vi ucciderà», e roteò la sigaretta tra indice e pollice, con gli angoli delle labbra tirati all'insù.
Eppure Arthur si arricciò tutto in un'espressione contrariata. Con le palpitazioni veloci e la sudorazione che aumentava fino a ghiacciargli i palmi delle mani, si tuffò nel colletto e sperò che questo potesse accoglierlo come un guscio di tartaruga.
Quasi riusciva a sentire le urla di suo padre. "Che diavolo stai facendo?", avrebbe gridato vedendolo, "Ti diverti mentre dovresti piangere tua sorella?": così sarebbe finita, se lo avesse visto.
«Davvero, non posso», sussurrò Arthur impacciato.
Allora Charles ritirò la mano e, dopo aver aspirato un'ultima boccata veloce, spense il mozzicone nel posacenere di bronzo. «Davvero, Arthur, non vi riconosco più».
«Nemmeno io mi riconosco».
«Dovreste pensare a divertirvi...».
Annuì taciturno, le palpebre appena abbassate e i denti che carezzavano la pelle umida del labbro inferiore; tuttavia non disse nulla: non confermò, né smentì, perché a dirla tutta non stava neppure ascoltando. "Chi sono diventato?", "Chi ero?", "Chi pretendo di essere?": le uniche domande che affollavano la sua testa, quelle a cui voleva dare una risposta.
«Innanzitutto dovreste uscire di qui e prendere una boccata d'aria».
Carezzato da quelle parole, Arthur trasalì. Vide i bottoni d'oro di Charles brillare sotto un raggio di sole, e ferito dal riflesso balbettò un: «Come?». Poi si concentrò sui suoi occhi, deglutì un masso o forse un nodo, e colpito dalle piccole lame acquamarina ridacchiò. «Pensate che mia madre non dia disposizioni sufficienti alla cameriera?».
Charles abbozzò un sorriso compiaciuto. «Oh, finalmente un po' d'ironia!».
«Quale ironia? Vi sto chiedendo se c'è aria viziata?».
«No, l'aria va bene». Si avvicinò alle tende tirate e guardò oltre i vetri appannati. «Il problema è la compagnia di vostro padre: un altro giorno con lui e appassirete», disse guardando giù, verso Conduit Street.
Arthur emise un suono divertito. «Mi basterà trascorrere un pomeriggio con voi e rifiorirò».
«Cosa state aspettando, dunque: andate a prepararvi».
«Volete davvero che perda la mia fortuna?», chiese non appena se lo vide venire incontro a passo svelto.
«L'unica cosa che desidero perdiate, amico mio, è un po' di nero», disse, «non posso portarvi in giro come un becchino, la gente chiacchiererebbe troppo». Mosse le mani nel vano tentativo di scacciarlo, dopodiché gli girò intorno e lo afferrò per le spalle. «Non fatevi pregare, su».
«Tutti sanno che mia sorella è morta», insistette, «si sono perfino mangiati i dolcetti...». Frenò la spinta di Charles e si schiarì la voce. «Sarebbe strano se non indossassi il lutto».
«Sarebbe strano vedervi in queste condizioni, piuttosto», lo incalzò ostinato, ignorando la sua occhiata di tralice. «Si sono abituati allo splendore del vostro armadio; e Dio solo sa perché devo essere così pressante con voi, quando sfoggiare un bel fiocco rosso dovrebbe solo rendervi felice!». Scosse la testa e picchiettò i polpastrelli sulla giacca nera di Arthur. «Devo forse salire su e vestirvi con la forza?».
«Non è necessario».
«Bene». Sollevò le mani in segno di resa e, compiaciuto, sorrise. «Andate pure, vi aspetterò qui».
«Ma se verrò diseredato sarete voi a mantenermi». Lo additò.
Fu allora che Charles socchiuse le labbra per replicare con un: "Io? Assurdo!", alla minaccia di Arthur; tuttavia non lo fece e si ammutolì, vedendolo sfilare veloce accanto a sé. Emise una risatina bassa e lì, inebetito accanto alla porta del salone, con le sopracciglia appena aggrottate, mosse qualche passo in cerchio. Scosse la testa, si disse: "Assurdo, davvero assurdo", prima di accendersi una seconda sigaretta. «Mantenerlo, figuriamoci».
Note bis: Ciao, bimbi. Anche questo secondo capitolo è stato riportato alla luce e spero proprio che piaccia con le sue attente e dovute modifiche. In alcuni tratti è rimpolpato, in altri è tagliato, perciò la sottoscritta spera e prega che i personaggi, gli usi e i costumi siano ora più comprensibili ai molti e che chi passerà di qui non dirà più "questa storia è paranormale" solo perché c'è un lutto nel prologo (pace all'anima di Lisa).
Curiosità:
L'abito da lutto, era una cosa importantissima per i vittoriani; e perciò dovete sapere che appena moriva un qualcuno della famiglia si chiamava il sarto (il quale immagino fosse ben felice di tutti i quattrini ricevuti come compenso) per rifare il guardaroba. Mi correggo, un solo abito. Con questo, questa tenuta, ci si trascorreva il periodo del lutto. Vi chiedete quanto è lungo? Ebbene, dipende da perdita a perdita. Lo vedremo più avanti...
Gli orologi fermi? Uno solo, come si dice ad Arthur, perché è quello della stanza del defunto che viene fatto fermare. Della serie "come il cuore". Una cosa tristissima, lo so...
Il fiocco rosso a cui fa riferimento Charles è una chiarissima (non molto chiara per chi non è esperto) battuta condita di troppo cinismo. Sa che Arthur è in lutto e sa che deve continuare a portarlo, ma tra i dandy (categoria cui Charles crede di far parte assieme all'amichetto) è nota la sciarpa rossa di George Brummell indossata durante un funerale.
I biscotti. Oh, i biscotti. Ah, i biscotti. Okay, la smetto. Parliamo di biscotti, volete? Arthur fa riferimento a questi e dice che la gente di Londra li ha mangiati. Fa riferimento alla morte di sua sorella Lisa. Anche questa cosa risulta abbastanza strana, se vogliamo; tuttavia chi conosce un po' di usanze vittoriane saprà come questi dolcetti accompagnavano i bigliettini di condoglianze spediti dalla famiglia in lutto agli amici e ai parenti che non avevano conoscenza della perdita. Ergo: quando Lisa è morta, la famiglia Griffen ha letteralmente invaso la City con zuccherosità infinita e talloncini bianchi e neri.
Piccola postilla sui 26 anni: momento in cui si diventava idonei a ereditare il patrimonio.
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