Come un Albatro
Prima di lasciarvi alla lettura, volevo ringraziare (ancora) Skadegladje per la fantastica cover! Grazie mille, davvero.
Ed ora senza ulteriori indugi, vi lascio alla storia. Spero che vi piaccia!
Avere le ali, nel mio gergo, era sinonimo di due cose: i miei adorati pattini, con la lamina d'acciaio lucente, con cui avevo affrontato gare e fatto salti, passi e piroette; e il ghiaccio.
Ero una pattinatrice. Tutto era cominciato e finito in una gara. Vi chiederete, com'è possibile che tutto inizi e finisca in una manciata di minuti? Lasciate che vi racconti la mia storia, e giudicherete da soli come, e se è possibile. Se dire che non lo fosse avesse cambiato il mio vissuto, l'avrei fatto già da molto tempo, così mi sarei risparmiata una sofferenza enorme. Purtroppo però, qui non esistono bacchette magiche.
Come dicevo, lasciate che vi racconti la mia storia.
Tutto iniziò una domenica. Ma non era una domenica qualunque: io avevo un campionato mondiale da affrontare. Naturalmente, volevo vincere ad ogni costo, anche se sarebbe stato difficile. Ero emozionatissima, non stavo più nella pelle. Avevo rotto le scatole per giorni all'amica più cara che avessi mai avuto: Janise. Non condividevamo la stessa passione per quello sport, né la stessa bravura. Lei era una campionessa in canto, le dicevo sempre che avrebbe potuto sfondare nel mondo dello spettacolo, con quella voce meravigliosa che si ritrovava. Ma ero sempre stata una delle poche ad avere avuto il privilegio di ascoltare la sua voce. Avevo provato a convincerla del fatto che avrebbe potuto fare molto più, che cantare in camera sua per le pareti e qualche volta per me, ma non aveva mai voluto ascoltarmi. Ogni volta che le avevo fatto notare le varie opportunità, aveva sempre risposto di no. Probabilmente era spaventata o forse non la sentiva la sua strada. In quel caso l'avrei capito, ma ero estremamente convinta che non fosse quello. Janise metteva nel canto lo stesso amore che mettevo io nel pattinaggio. Era qualcosa di indiscirnibile, assolutamente fantastico.
«Chloe!» qualcuno mi chiamò, ma non ebbi bisogno di girarmi per sapere che era proprio lei. «Janise!» mi voltai e le corsi incontro per abbracciarla. «Non ci credo, sei riuscita a venire!» ero su di giri, non stavo più nella pelle.
«Certo che sì! Che domande, ti avevo detto che avrei fatto il possibile» ribadì lei portandosi una mano al petto, con sguardo scherzoso. Janise aveva i capelli biondo cenere ed un paio d'occhi color nocciola, che le diventavano quasi ambrati al sole. Quel colore particolarmente caldo, le conferiva un'aria da cucciolo, in completa contrapposizione con il carattere duro che assumeva a volte. In realtà, la sua era tutta una facciata. Proprio come il suo sguardo suggeriva, era la ragazza più dolce e profonda che conoscessi. Ed anche molto sensibile. Con disappunto, guardò i miei capelli rossi e ricci volare da tutte le parti sulle spalle. A me piacevano tanto, ma io praticavo il pattinaggio da anni, e lei aveva imparato alcune cose. Ad esempio, il fatto che fosse di fondamentale importanza legare i capelli in uno chignon. «Sei ancora a pane e acqua, a quanto vedo» constatò, guardandomi negli occhi azzurro cielo. Qualche volta mi faceva quasi paura, perché sembrava che potesse leggermi dentro al primo sguardo. «Dai, che se vuoi ti aiuto» alzò gli occhi al cielo, come spesso faceva. Quel gesto era quasi il suo segno distintivo. «Lo sai che ti adoro?» le sorrisi. «Sì, testa di cazzo che non sei altro.»
Ecco una dimostrazione di quanto acida potesse essere, ogni tanto. Insieme, ci avviammo verso i camerini per le pattinatrici in gara. Almeno lì c'era una temperatura abbastanza calda. Nel senso che almeno non si rischiava di congelare, come invece era di sopra. Ma cosa ci si può mai aspettare da una pista ghiacciata?
Nei corridoi, riconobbi la mia rivale per eccellenza, nonché nemica per la pelle, come l'avevo battezzata io. Nancy Jones era la persona più antipatica ed egocentrica della terra. Anzi, che dico? Dell'intero universo! Purtroppo, avevo l'immensa sfortuna di conoscerla abbastanza bene. Era nella stessa scuola mia e di Janise, e frequentavamo anche lo stesso corso di storia.
Era brava nel pattinaggio, dovevo riconoscerglielo, perché sarebbe stato da pazzi dire il contrario. Il problema era la sua gelosia nei miei confronti. Ogni qualvolta i nostri sguardi si incrociavano, sembrava che volassero saette che conoscevano solo due direzioni. La prima era la direzione che andava dai miei occhi ai suoi, la seconda, viceversa. «Guarda, c'è la tua carissima amica» mi bisbigliò Janise, sghignazzando. Le tirai una gomitata sul braccio. «Aspetta, che adesso vado a salutarla» risposi alla sua ironia, scherzando a mia volta. Dopo le prime volte in cui le avevo detto di smetterla, avevo capito che Janise non l'avrebbe fatto. Per questo mi limitavo, al massimo, ad alzare lo sguardo e sospirare, mentre lei sghignazzava come una matta.
Il mio camerino era il secondo a destra, quindi appena ci arrivammo davanti, spalancai la porta bianca. Non era molto grande, ma nemmeno così piccolo. A sinistra c'era una scrivania grande abbastanza per due persone, con uno specchio enorme ed una sedia. Al centro della stanza, attaccata al muro, c'era una panchina in legno bianco, e sopra di essa delle assi in ferro dove di solito ponevo il borsone.
Come se lo specchio enorme non fosse abbastanza, sulla destra, attaccato alla parete, ce n'era un altro. Aveva i bordi bianchi con decorazioni in oro, ed una forma rettangolare e longilinea, che permetteva a chiunque di specchiarcisi dentro interamente. Accanto allo specchio c'era un'altra porta. La cosa che adoravo di quei camerini era che avessero il bagno privato. Almeno, in caso di emergenze non avrei dovuto fare i salti mortali e aspettare file su file di persone. Essere una concorrente in gara aveva i suoi vantaggi. Erano appena le nove, ma la gara non sarebbe iniziata prima di mezzogiorno. Janise mi diceva sempre che ero una pazza ad anticiparmi di ore lì, ma non era del tutto vero. Primo, perché avevo sempre tutto il tempo necessario per prepararmi, ed avevo abbastanza esperienza da sapere che anche la presentazione faceva la sua figura. Secondo, perché così mi avanzava addirittura del tempo per provare qualche salto, nella pista accanto. In realtà non mi arrischiavo mai a tanto, perché non mi piaceva rivelare alle altre concorrenti neanche piccoli scorci della mia coreografia. Però era molto utile per riscaldare un po' i muscoli. Il rischio di un infortunio era alto se il corpo era freddo. Infatti, prima di ogni allenamento era necessario fare almeno qualche minuto di riscaldamento.
Per prima cosa, adagiai il borsone sulla panca, e poi tirai fuori il mio vestito di gara. Era un body rosso e nero. Il vestito aveva la manica lunga sul braccio sinistro. In realtà, sembrava più una specie di fascia intorno al braccio, decorata con ghirigori neri e brillantini come il resto del corpetto. A separare il busto dalla gonna vi era una cucitura dai bordi neri brillantinata, e per finire, la gonna cortissima si produceva in una serie di voilà dal volume ridotto, in modo che non mi impedisse nessun movimento. Sul braccio destro, totalmente scoperto, portavo invece tre bracciali: due neri e uno rosso al centro, ognuno rivestito da brillantini dello stesso colore. Con quel vestito era tutto un brillare.
«Pronta ad illuminare la pista, con quel coso indosso?» ridacchiò Janise. Adorava prendermi in giro ogni volta che vedeva quel vestito, aveva persino preso a chiamarmi stellina. «Vuoi dire con la mia bravura? Certo! Non sto più nella pelle» risposi sogghignando. «Non montarti troppo la testa, che sennò finisce che diventi come Nancy» ridacchiò. Gonfiai le guance come una bambina, e questo la fece ridere. «Scherzavo, scherzavo. Su, stellina, iniziamo la tua trasformazione.»
C'era un motivo se il prepararsi, per Janise equivaleva alla mia trasformazione. Anche se avevo diciassette anni, sembravo almeno di due anni più piccola, nonostante la mia altezza. Infatti, quando le persone mi chiedevano quanti anni avessi, faticavano a credere che gli stessi dicendo la verità. Mi scambiavano sempre per una quindicenne, e questo mi dava parecchio sui nervi. Non so se fosse per il fatto che non amavo vestirmi in modo più particolare o elegante, e probabilmente non era neanche per quello. Ma mia madre mi ripeteva spesso che secondo lei avrei dovuto osare di più, ovviamente sempre nei limiti del consono. Non sapevo quali fossero questi limiti, secondo lei, ma ero abbastanza grande da decidere cosa indossare. Ed io adoravo andare in giro con jeans e maglietta, quindi mi limitavo a non ascoltarla. Quanto al trucco, non ero solita applicarne molto, quindi non cambiavo così tanto.
Invece, in gara, dovevo metterne parecchio, e questo faceva sì che sembrassi una venticinquenne. «Okay, penso che sia il caso di cominciare dai capelli» riflettei, prendendo tutto l'occorrente. Mi sedetti davanti alla scrivania e presi a pettinarmi, ma... Ovviamente, essendo riccia, si rivelò un'impresa ancora prima di cominciare. Janise se la rise sotto i baffi. «Ma sì, ridi pure tu» le feci una smorfia dallo specchio «tanto mica rischi di diventare calva.»
Questa volta, rise apertamente con un suono stridulo. Sapevo da chi aveva preso: sua madre rideva in modo molto simile al suo. Quando procedeva a singhiozzi poi, sembrava un treno in procinto di fermarsi. Sempre ridendo, mi si avvicinò e mi prese la spazzola dalle mani. «Lascia fare a me, o finirai sul serio per strapparti tutti i capelli.»
Janise era una maga, quando si trattava di aggiustare i capelli. Per prima cosa, con un'enorme pazienza, riuscì a disricare tutti i nodi che avevo, pettinando ciocca per ciocca. Poi si armò di codini, una ciambella per capelli - ogni volta che ne vedevo una, mi veniva voglia di ciambelle glassate al cioccolato - e gelatina.
In poco tempo i miei capelli erano sistemati in un perfetto chignon. «Ora dovremmo passare al trucco. Pronta a sembrare una venticinquenne?» mi schernì l'idiota. «Questa venticinquenne ti spaccherà la testa e la userà come trofeo in pista, se non la smetti» mi indicai. «Prenderò a tagliarti il collo e...» feci per continuare, però Janise mi interruppe. «Chloe, risparmia i dettagli splatter, con tanto di cervello schiacciato da qualche parte. Sai, ci tengo a tenermi la colazione nello stomaco» disse inorridita, facendomi ridere. «Okay, come vuoi» le rifilai una linguaccia giocosa che le fece alzare gli occhi al cielo, e poi feci del mio meglio.
Alla fine della trasformazione, mi ritrovai coperta di trucco e brillantini dalla testa ai piedi. «Okay, sono pronta. Sai che ore sono?» chiesi a Janise. «Sono ancora le dieci e un quarto. Io lo dico che sei folle ad anticiparti così tanto.»
«Non lo sono, fidati di me. Comunque fra un quarto d'ora dovrebbero arrivare anche mamma e papà» ricordai. Erano rimasti impegnati al lavoro fino alle dieci, e ci avrebbero messo mezz'ora per arrivare. Non si sarebbero mai persi una mia gara. A volte, sapevano essere davvero inquietanti, ma non lo facevano apposta. Erano fieri della loro bambina, anche se chiaramente non lo ero più da un pezzo.
«Evelyn ha detto che voleva venire a guardarti. Ti dispiace?» chiese Janise. Evelyn era la sua sorellina di sette anni. Praticamente mi adorava, come io adoravo lei. Janise mi chiedeva sempre come facessi a giocare per ore con lei senza lamentarmi, lei non faceva altro che chiamarla marmocchietta, con il risultato che Evelyn si arrabbiava. E poi finivano a litigare, ed essendo la maggiore Janise l'aveva sempre vinta. Non che bastasse molto a far piangere sua sorella.
Fortuna che c'erano i suoi a riequilibrare la situazione. Anche se Janise non lo diceva mai, voleva davvero molto bene ad Evelyn. «C'era anche bisogno di chiederlo? Io adoro quella marmocchietta» sorrisi, immaginando la reazione di Evelyn. Janise rise. «Okay, okay, allora dirò alla mamma di accompagnarla appena può.»
Un quarto d'ora dopo, i miei erano arrivati. Mi avevano salutato, augurato buona fortuna, e la mamma mi aveva quasi perforato un timpano quando aveva urlato che avrebbero fatto il tifo per me. Janise invece si era sbellicata dalle risate al vedere la mia espressione. Spesso la mamma era un po' bizzarra, anzi, più che altro esuberante. Io invece ero più calibrata come papà, e questo mi portava ad inorridire a volte, di fronte alle sue reazioni spropositate.
Poco prima dell'inizio della gara invece, fece il suo ingresso anche Evelyn, accompagnata dalla madre di Janise. Si scusò, dicendo che aveva un impegno in pasticceria e che non avrebbe potuto assistere alla gara, ma a me andava benissimo così. Almeno, se avessi fatto una figuraccia non mi avrebbe vista tutto il mondo.
Ed Evelyn avrebbe continuato a chiamarmi Principessa dei Ghiacci, a Janise non sarebbe assolutamente cambiato nulla, ed i miei mi ripetevano sempre che sarebbero stati fieri di me, in qualunque circostanza.
La gara sarebbe iniziata a momenti, quindi salutai gli altri per andare a mettermi in posizione, dove tutti gli altri concorrenti aspettavano il proprio turno. «Buona fortuna, tesoro» mi augurarono i miei genitori, dandomi un bacio sulla guancia. Poi toccò a Janise. «Mi raccomando, voglio vederti spaccare il culo a tutti gli altri!»
«Janise! Non si dicono le parolacce» la rimbeccò Evelyn «guarda che lo dico a papà.»
«Sta zitta, marmocchietta, se non vuoi che ti spedisca sulla pista con un calcio sul tuo bel sederino» le rispose Janise. Ero sicura, prima o poi avrebbe terrorizzato a morte quella bambina, che gonfiò le guance ma non parlò più. Lanciai un'occhiataccia a quella burbera della mia migliore amica, e poi mi chinai all'altezza di sua sorella. «Ci sarò io a salvarti, Eve» le strizzai un occhio, guadagnandomi un'occhiataccia da Janise. Sembrava rimproverarmi per essere dalla parte di sua sorella. «Non farla spaventare, o spaccherò anche il tuo bel sederino» la minacciai giocosa. «Vai, idiota, prima che decida di farti ruzzolare dagli spalti» mi intimò, prima che ci separassimo.
Il presentatore della gara era un uomo dai capelli brizzolati, più o meno sulla cinquantina. Aveva un equilibrio perfetto mentre se ne stava lì, sui suoi pattini, a parlare al pubblico che gremiva quasi interamente l'intera struttura. Da bordo pista lanciai un'occhiata alla tribuna riservata ai giudici. Subito, individuai i capelli biondi della giudice più stronza che fosse mai esistita. Era difficilissimo ottenere un suo voto favorevole, ma sapevo bene di non dovermi scoraggiare. Mi ero allenata duramente per quella gara ed avrei dato il meglio di me. E poi mi allenavo da una vita intera per raggiungere il massimo livello. Lo sapevano tutti che il mio sogno erano le olimpiadi, e l'avrei raggiunto. Era la mia strada, il mio sogno da quando avevo cinque anni. Dalla prima volta in cui misi piede su una pista ghiacciata.
Mezz'ora dopo, toccò a me. «Numero nove!» chiamò il presentatore. Con una mano alzata volai sulla pista salutando il pubblico, poi mi misi in posizione. Tutta l'ansia che avevo accumulato si dissolse totalmente nel momento in cui partì la musica. L'adrenalina che mi scorreva in corpo non mi permise di sentire il freddo pungente che c'era lì. Lasciai che l'istinto prendesse il sopravvento, e mi lasciai guidare dalla musica, mettendo tutta l'energia necessaria per fare salti puliti ed efficaci. Mantenni la concentrazione solo sulla musica e su me stessa. Non badai agli applausi o alle urla ad ogni salto o trottola, c'eravamo solo io, la musica, e la pista ghiacciata, il mio cielo.
Stavo volando. E non c'era niente che fosse più bello. Con le ali spianate, come quelle di un albatro, cercavo di riprodurre gli stessi movimenti dei re del cielo.
E poi, come citava Baudelaire, l'albatro non diventò altro che un essere goffo sulla terra, con quelle ali pesanti come se fossero remi.
All'ultimo salto, un difficilissimo triplo toe-loop, atterrai male con la caviglia sinistra. Il dolore mi tolse ogni briciolo di fiato che mi era rimasto nei polmoni. Spalancai la bocca in un urlo, ma dalla gola non uscì nemmeno un po' d'aria. Le corde vocali sembravano aver smesso di funzionare. In un attimo, il mondo cominciò a sfocare come i contorni di una foto venuta male. Poi caddi di schiena, e la botta mi rese insensibile all'intero universo. Di me, non rimase che una carcassa stesa sul ghiaccio, con la sua anima persa nel nero totale.
Quando riacquistai la sensibilità del mio corpo, mi sforzai di aprire gli occhi. Non sentivo più la caviglia sinistra, ma non capivo perché.
Inizialmente, tutto il mondo sembrava velato da una patina bianca, poi riuscii a mettere a fuoco tutto. Mi trovavo in una stanza tutta bianca, ero coperta da un lenzuolo e... No. No, non può essere. Mi rifiuto di crederci, pensai. Ricordai tutto, la gara, il triplo toe-loop alla fine della mia esibizione e il crack che avevo sentito alla caviglia dopo essere atterrata male. Me l'ero rotta davvero? Avrei mai potuto continuare a pattinare? Avevo distrutto il mio sogno. Stupida, stupida, stupida. Non avrei mai più partecipato alle olimpiadi, né fatto più gare. Avrei dovuto fermarmi, stavolta per sempre. Mi parve quasi di sentire il cuore frantumarsi in tanti piccoli pezzi, fino a quando la consapevolezza di quello che era successo si fece così vivida, che un dolore sordo mi invase il petto, togliendomi il fiato.
Addio al mio sogno.
Mi ruppi all'interno, crollai come un muro demolito, e come se una diga fosse stata danneggiata, le lacrime cominciarono a scorrermi sulle guance. Grandi gocce salate lasciavano quella scia bagnata, in ognuna di loro una traccia infinitesimale del mio sogno infranto. Mi lambirono le guance, poi gli angoli delle labbra, fino a scorrere sul mento e sul collo.
Avevo sempre odiato piangere, eppure quella volta non mi fermai. Mi lasciai invadere da quel dolore che come un buco nero mi risucchiava l'anima. E rimasi vuota, nient'altro che nero.
Cos'è il nero? L'assenza di colori. Il vuoto. Mi sentivo nera.
«Chloe!» sentii qualcuno. Avevo già riconosciuto la voce, era Janise che aveva fatto capolino dalla porta dell'ospedale. Corse accanto a me. Dovevo essere un disastro, perché il suo sguardo cambiò drasticamente. Sembrava realmente addolorata per me. Significava che avevo ragione, che non c'era più alcuna speranza che tornasse tutto come prima. «Vieni qui» mi abbracciò, facendo attenzione alla mia caviglia. E quell'abbraccio fu così maledettamente confortante, che fu come stare a casa. E allora piansi di nuovo, stringendo la mia migliore amica. «Janise, cosa mi è successo? Mi sono rotta la caviglia, non è così? Non potrò più...» la voce mi si ruppe prima di terminare la frase, così lasciai che la mia amica mi cullasse. «Ma no, sta calma Chloe. Adesso ti spiego tutto» si staccò da me, e dalla borsa nera che aveva con sé prese una salvietta imbevuta. Le portava sempre ovunque. Con delicatezza mi pulì gli occhi bagnati, rimuovendo il trucco sciolto. «Ecco qua, molto meglio» sorrise triste, poi mi raccontò. «Stavi andando benissimo, eravamo tutti entusiasti, stavi letteralmente volando sulla pista, come la regina dei ghiacci. Poi hai fatto quel triplo toe-loop finale, e sei atterrata male sulla caviglia. Non che ci abbia capito molto, ma da quello che ho capito, quando hai saltato, hai sforzato troppo la caviglia, facendo allungare il tendine d'Achille. Devi esserti sbilanciata durante il salto, perché atterrando te lo sei rotto.»
Mi ero rotta il tendine d'Achille. Bella merda.
«Non potrò pattinare più, non è vero?» chiesi. «Chloe, gli sportivi di solito non hanno problemi a tornare in forma, dopo questo incidente. Ma ci vorrà circa un anno. Il medico ha detto che dovrai sottoporti ad un'operazione, poi dovrai fare riabilitazione» spiegò Janise.
Un anno. Come avrei fatto per un anno senza pattinare? Cosa avrei fatto?
I miei genitori irruppero nella camera d'ospedale. «Grazie al cielo, tesoro. Ti sei svegliata» constatò papà, abbracciandomi. «Janise, le hai già detto tutto?» chiese la mamma. «Sì» rispose lei «almeno, quel che so.»
«D'accordo» la mamma le sorrise, poi mi guardò apprensiva. «Potrò davvero tornare a pattinare?» chiesi con la speranza che si ingrandiva. «Sì, tesoro. Potrai tornare a pattinare.»
¶¶¶
Quei mesi mi sembrarono un'eternità. Dovetti subire l'operazione, poi tenni la caviglia ingessata, e mi sottoposi alla riabilitazione. La dottoressa mi diceva che era di fondamentale importanza, se volevo tornare a pattinare. Ed io, intanto, mi sentivo così persa da far schifo. Vuota, buia.
Quella mattina arrivai a scuola con la solita espressione vagamente triste. Janise mi aspettava come al solito nel cortile della scuola. «E dai, fammelo un sorriso.»
Di prima mattina, proprio non capivo dove la prendesse tutta quell'energia. Partiamo dal presupposto che quando mi svegliavo, mi sembrava di essere totalmente rincoglionita. Roba che se qualcuno mi avesse chiesto il mio nome, probabilmente gli avrei risposto di non saperlo. Di solito mi toccava aspettare qualche ora, prima di sentirmi sveglia totalmente. Sorrisi a Janise forzatamente, facendole alzare gli occhi.
«Oh mio Dio» esclamò ad un certo punto. Sembrava allarmata... Anzi, no. Piuttosto, pareva avesse visto un dio greco o qualcosa del genere. «Che c'è?» aggrottai le sopracciglia, analizzando per bene il suo sguardo. «Dietro di te.»
Mi voltai, e mi irrigidii sul posto, tendendo i muscoli come corde di violino. Janise aveva visto senza dubbio non uno, ma due dèi greci. Il primo aveva i capelli castani, che gli ricadevano un po' spettinati sulla fronte, ed un paio d'occhi color nocciola, così chiari da sembrare quasi ambrati. Aveva gli zigomi alti e labbra a cuore. Era... Wow. Il secondo invece aveva i capelli biondi e due occhi castani, zigomi alti e mascella ben definita. «Ma da dove sono usciti, quei due?» chiesi a nessuno in particolare. «Non lo so» rispose Janise «ma ho tutta l'intenzione di scoprirlo. Ci stai?»
«Ovviamente!» esclamai finalmente contenta. Janise mi fece un sorrisone a trentadue denti. «Finalmente sorridi davvero!» esclamò tutta esaltata, facendo voltare il primo dio greco, quello dagli occhi ambrati. I suoi occhi incontrarono subito i miei, e sentii il mio cuore sfarfallare, quando scoprii l'intensità di quello sguardo. Il ragazzo sembrò sorridermi, ed io mi paralizzai sul posto. Non me l'ero immaginato, vero? Il suo amico, incuriosito dal comportamento di dio greco numero uno, si girò verso di noi. Guardò entrambe velocemente, fino a quando non si mise a fissare Janise. Lei gli fece un sorriso ebete a cui lui rispose divertito, poi andarono in classe. «Janise, chiudi la bocca o rischi che ti cada la mascella» risi, sinceramente divertita. Lei mi rifilò una gomitata. «Non vorrai farmi credere che non siano bellissimi!» esclamò indignata, rossa sulle guance.
Janise non arrossiva mai così. Dio greco numero due doveva piacerle proprio un sacco. Scoppiai di nuovo a ridere, quando assumeva quell'espressione inebetita Janise era un vero e proprio spasso. «Devo scoprire come si chiama quello con i capelli biondi» decise «magari chiederò a Lara. Quella ragazza è una pettegola assurda, saprà sicuramente il suo nome.»
«Vuoi dire dio greco numero due?»
«Eh?» fece lei, chiaramente confusa. «Niente» risi «lascia stare. Diamo il via alla missione!»
«Ah, ti adoro!»
A mensa, Janise aveva chiesto davvero a Lara il nome dei due ragazzi. Dio greco numero uno portava il nome di Alex, mentre dio greco numero due si chiamava Caleb. A quanto pare erano molto amici, vivevano nella stessa città, ma frequentavano il St. Jude High School. Per questo motivo nessuno li aveva mai visti fra i corridoi. Si vociferava che fossero stati coinvolti in una rissa, e che fossero stati di conseguenza espulsi.
Io però, sapevo bene che le voci tendevano sempre ad ingrandire le cose, quindi non ci badai troppo, e così anche Janise.
Quella sera, la mia migliore amica era impegnata in una cena di famiglia, quindi ero rimasta sola. Mamma e papà avevano deciso di uscire fuori a cena, mancavano più o meno da un'oretta. Avevano insistito per rimandare la cena quando avevano capito che sarei stata sola, ma io avevo opposto resistenza. Ogni tanto meritavano una serata relax soltanto per loro, senza me fra i piedi.
Dato che stare a casa non sembrava una prospettiva così allettante, decisi di andare a fare una passeggiata. Mandai un veloce sms alla mamma dove la avvisai, nel caso decidessero di tornare prima e non mi trovassero, e lei mi rispose raccomandandomi di fare attenzione. In realtà non avevo intenzione di stare fuori troppo tempo, mi bastava soltanto una mezz'oretta, per rilassarmi. Guardai i pattini affissi al muro, i miei amati pattini... Se solo avessi potuto pattinare almeno un po', se solo non mi fossi rotta il tendine d'Achille... Mancava ancora un bel po'. Era un tempo lunghissimo, e il pattinaggio mi mancava come non mai. Forse avrei dovuto riporre i pattini nell'armadio, almeno non li avrei avuti costantemente sotto gli occhi. Ma sapevo bene che mi avrebbe comunque fatto male. Io amavo quello sport, ed ero troppo arrabbiata con me stessa. Se fossi stata attenta, se fossi... Mi imposi di smetterla di pensarci, così presi le chiavi e uscii. Per essere a metà febbraio, le temperature erano più basse del solito. Sapevo già dove sarei andata, lentamente mi lasciai guidare e camminai per le strade di Seattle. Anche a quell'ora della sera erano affollate. Lasciai che il vento mi attraversasse con le sue spire leggere i capelli, fino a quando non sentii qualcosa di gelido e bianco atterrare proprio sul mio naso. La neve. Guardai in alto, era uno spettacolo fuori dal comune. Il cielo non mostrava quasi stelle, riuscii appena ad intravederne una fra la tempesta bianca che si stava scatenando nel cielo. I fiocchi di neve calavano come fogli di carta, oscillando a destra e sinistra durante la discesa, imbiancando tutta Seattle. Adoravo la neve, più di qualsiasi altra cosa. Quel manto bianco che ricopriva ogni cosa, che sapeva d'inverno e di ghiaccio.
Senza rendermene conto arrivai fino alla pista ghiacciata, chiusa a quell'ora. Sì, a volte sapevo davvero bene come infliggermi dolore. Avevo nostalgia del ghiaccio e dei pattini, le mie gambe e la mia testa mi portavano sempre lì.
«Wow, sembra che ti manchi davvero quella pista» una voce ruppe improvvisamente quel silenzio. Era calda, profonda, ed inaspettata almeno quanto il ragazzo a cui apparteneva. Era Alex, il ragazzo nuovo della scuola, dio greco numero uno. I suoi occhi color nocciola erano vispi e accesi. Ancora, quell'intensità mi fece sentire davvero strana. Mi voltai di nuovo verso la pista ghiacciata e sospirai. «Già.»
Senza dire una parola, Alex mi si avvicinò e si appoggiò alle sbarre in ferro che circondavano la pista, nella stessa posizione in cui stavo io. «Però, si sta comodi così» scherzò, facendomi spuntare un sorriso. Vedendo che non parlavo oltre, mi sembrò che cominciasse a preoccuparsi. «Okay, forse ho interrotto qualcosa senza volerlo.»
Ridacchiai, era davvero buffo. «No, sta' tranquillo.»
«Davvero?» chiese. Quando mi girai per annuire, l'impatto con il suo sguardo fu tale che sentii per un attimo l'istinto di allontanarmi. «Okay, in realtà, ecco... Riflettevo... Ehm, sul mio gatto» sparai lì. Oh no. Ero davanti al ragazzo più figo della scuola, lui mi stava parlando, ed io sparavo cazzate? No, no Chloe. Non dare aria alla bocca, pensai. «Sul tuo gatto?» rise Alex. «Sì, lui... Ha fatto puff» dissi lì su due piedi. Avrei voluto prendermi a schiaffi da sola. Per la miseria, neanche ce l'avevo un gatto! Cosa stavo blaterando, e perché improvvisamente non riuscivo più a dire cose sensate?
«Ha fatto puff?» Alex non aveva quasi più fiato in gola, tanto rideva. «Sì, e non fa ridere davvero» sbottai. Quel ragazzo mi stava mandando in tilt il cervello, nervi compresi. Prima mi sentivo paralizzata, l'attimo dopo ero nervosa. E continuavo a sentire quel calore al cuore... Cosa mi stava succedendo? «D'accordo, d'accordo» si arrese alzando le mani, anche se il suo sorriso non lasciò quelle labbra perfette. Chissà come sarebbe stato baciarle...
Quasi mi venne da darmi un'altra sberla. Che pensieri stavo facendo? Non andava affatto bene. Sentii improvvisamente un bisogno innato di scappare, il suo sguardo era davvero troppo intenso. «Come ti chiami?» chiese Alex inaspettatamente. Mi chiamo Chloe, vero? Pensai mentalmente. Ancora, avrei voluto darmi un altro schiaffo. «Chloe» sussurrai piano, quasi ebbi paura che non mi avesse sentita «e tu?»
Sapevo già il suo nome, ma mi era sembrato corretto chiederglielo. «Alex. Alex Stone.»
Possibile che anche il suo nome mi piacesse? Sembrava appena uscito da un telefilm, e quella ricordava vagamente qualche scena romantica. Eravamo anche soli, e cavoli, che razza di pensieri stavo facendo? Dovevo svignarmela, prima che cominciassi a sparare altre stronzate. Alex mi aveva decisamente fuso il cervello. «Bel nome» mi lasciai sfuggire, combattendo contro l'istinto di tapparmi la bocca. Lui rise. Grazie tante, eh. «Ora... D-dovrei andare» balbettai. Ci mancava solo che iniziassi a balbettare come una mezza imbecille. Di male in peggio. «Di già?»
«Sì, il mio gatto mi aspetta.»
Alex sorrise. «Ma non aveva fatto puff?» mimò con le virgolette le ultime due parole. Dio, cosa cavolo stavo combinando? «Ne ho un altro» mi salvai in calcio d'angolo. Era palese che non avessi nessun gatto, ma lui fece finta di crederci lo stesso. «Okay, allora ci vediamo domani a scuola?» sorrise. E quel sorriso... Era da baciare tutto.
A casa magari avrei sbattuto la testa contro il muro. Cosa avevano i miei pensieri che non andavano, quella sera? Sorrisi, sperando di non sembrare ebete. «A domani» salutai, e poi camminai alla massima velocità che la caviglia mi permetteva. Dopo cinque minuti però fui costretta a rallentare, mi faceva ancora male ed io soffrivo. Dentro di me, la speranza restava accesa come un fuoco.
Appena tornai a casa, notai che i miei non erano ancora tornati. In fondo non avevo perso molto tempo, ma poco più di tre quarti d'ora. Al ripensare alla conversazione con Alex valutai seriamente l'idea di sbattere la testa contro il muro. Ovviamente ero abbastanza sana di mente da non farlo. Ma la prima cosa che feci fu scrivere a Janise un sms.
Ho fatto una gran figura di merda. Inviai. La sua risposta non tardò ad arrivare.
Cosa hai combinato?
Le spiegai tutto, dal momento in cui avevo incontrato Alex fino al mio ritorno.
Le risate di Janise dai messaggi, non furono niente confrontate a quelle che si fece la mattina dopo, quando volle che le raccontassi di nuovo tutto quello che avevo combinato. Sentivo le guance in fiamme. «Chloe, ma dai! Il gatto!» rise, piegata in due. «Grazie del sostegno, Janise» brontolai, ma non potei fare a meno di sorridere anch'io. «Sei proprio un'idiota» rise ancora e ancora, sospettavo che sarebbe andata avanti tutta la giornata.
D'improvviso, la sua espressione cambiò, passando da divertita a super seria in due nanosecondi. «Alex in arrivo, a ore dodici. Non voltarti» mimò le ultime due parole, tanto che dovetti leggere con il labiale. «Ciao, ci si rivede» mi salutò. Caleb era con lui, e Janise rimase inebetita. «Ciao» salutai anch'io, poi toccò a Caleb salutare. Janise balbettò un ciao, e fui io stavolta a sghignazzare, beccandomi un'occhiataccia. Era una mia impressione o quella mattina Alex era persino più bello? Indossava una maglia blu elettrico che gli evidenziava i muscoli, ed un paio di jeans che gli stavano a meraviglia. Aveva un fisico sportivo, spalle larghe e braccia muscolose. Decisamente, un figo da paura in tutto e per tutto. «Sentite, stasera vi va se andiamo a farci un giro?» chiese Alex. «Ho sentito in giro che una certa Kacey Lohan darà una festa. Magari dopo potremmo passare.»
Ma certo, Kacey era una delle ragazze più stronze e popolari della scuola. E la sua casa era una fottuta villa. E guarda caso, i genitori non c'erano mai. Feste tutte le settimane, e centinaia di invitati. Guardai Janise, indecisa sul da farsi, ma lei fissava Caleb. «Sì, ci saremo.»
Credetti di aver sentito male. «D'accordo, a stasera allora. Passiamo a prendervi noi. Solo che... Dovreste dirci dove abitate» fece Caleb. Janise gli sorrise, e poi gli diede l'indirizzo di casa mia.
Quando salutarono, mi voltai verso di lei sbalordita. «Janise!» sbottai «era proprio necessario dirgli di sì?»
«Poche storie, Chloe. Ci hanno invitate ad uscire con loro. Ci passeranno a prendere. Chi se ne frega della festa! Ne approfittiamo per divertirci una volta tanto» rispose.
Janise era totalmente fuori di testa, o meglio, l'aveva persa per Caleb nel momento esatto in cui le aveva rivolto la parola. A lei non piacevano troppo le feste, e a me non piacevano affatto. E poi mi sentivo sempre a disagio. «Ma...» provai a ribattere, ma mi fermò. «Chloe, Alex ti piace fisicamente, no?»
«Sì» risposi. Era impossibile e senza senso negarlo. «Perfetto, e a me piace Caleb fisicamente. Ed Alex è stato super mega gentile con te ieri, nonostante tu abbia fatto una figura di merda colossale.»
«Grazie per avermelo ricordato, ancora» bofonchiai. «Quindi, tu stasera muovi il tuo bel sederino e vieni alla festa, e per una volta provi a divertirti» concluse Janise. Conoscevo quel tono, non ammetteva repliche.
«E va bene, ma è l'ultima volta che dici di sì anche per me» acconsentii. Janise urlò di felicità e poi mi abbracciò. Era ufficialmente impazzita. Dov'era la ragazza che si dava sempre un contegno, dolce almeno quanto l'acido muriatico, e perennemente incazzata col mondo? Mi sa che si era andata a fare un bel giretto.
Fissavo l'armadio da circa quindici minuti. Janise era accanto a me, a fissarlo a sua volta. Aveva portato dei vestiti da casa, se li era provati tutti, eppure in ognuno aveva trovato un difetto. Troppo corto, troppo lungo, sembro la mia bis-nonna con questo coso addosso, sembro una balena. Erano solo una piccola parte delle frasi che aveva detto. Alla fine, ci eravamo arrese entrambe. Le avrei prestato uno dei miei vestiti, ed intanto avrei deciso cosa mettere io. «Ho un'idea!» esclamò Janise. «Spara.»
«Hai ancora quel vestito blu, che prendesti su internet l'anno scorso?»
Avevo capito di quale vestito parlasse. Non l'avevo mai messo perché trovavo che mi facesse uno strano effetto sulle spalle. «Sì, ce l'ho» aprii una terza anta del mio armadio, e presi lo scatolone in cui era riposto. «Tutto tuo» le sorrisi. Mi schioccò un bacio sulla guancia, e tutta felice andò a cambiarsi. «Chi sei tu, e cosa ne hai fatto della mia migliore amica?» urlai per farmi sentire. Udii la sua risata dal bagno. Cinque minuti dopo, Janise uscì con il vestito indosso, che le fasciava perfettamente i fianchi. «Sei uno schianto» le sorrisi. «Allora metterò questo. Grazie per il prestito» mi fece un sorrisone a trentadue denti, tutta euforica. Le era davvero bastato solo un invito da Caleb per farla scattare così? Avrei dovuto fare leva su quello più spesso. «Quasi non ti riconosco, Janise» ridacchiai «segnerò questo giorno come data importante.»
«Ma smettila» minimizzò lei «troviamo un bel vestito per te. Ne hai a centinaia.»
Non che ne avessi cento sul serio, ma ne avevo comunque tantissimi. Ne tirai fuori due, ma li scartai. Quello rosso era troppo corto, e con l'altro sembravo una balena arenata. Decisamente no. Fu Janise ad estrarre un vestito, che io avevo totalmente dimenticato. «Che ne dici di questo? Secondo me è perfetto» dichiarò. «Vado subito a provarlo» assentii, poi corsi a cambiarmi.
Quando uscii dal bagno e mi guardai allo specchio, decisi che avrei indossato quello. Interamente in merletto nero, era stretto fino al petto, poi scendeva morbido fino a sopra le ginocchia. Sobrio, ma non troppo. Era proprio quello giusto. «È decisamente lui» dichiarò Janise sorridendo, riferendosi ovviamente al mio vestito. «Ora, passiamo a capelli e trucco» mi schioccai le dita in modo teatrale, e questo fece rabbrividire Janise. «Che hai in mente?»
«Tu lascia fare a me» dichiarai. Presi la sedia girevole e la feci sedere, poi iniziai l'opera. Con la piastra a onde le aggiustai i capelli lisci, fissando strategicamente delle forcine, in modo che alcune ciocche le ricadessero ribelli. Poi passai al trucco. «Non trasformarmi in IT, ti prego» ridacchiò Janise. «Donna di poca fede» bofonchiai «stecchirai tutti quanti.»
Le applicai un trucco leggero ma visibile, completando l'opera con un rossetto nude. «Abbiamo finito, guardati pure adesso» lasciai che si guardasse allo specchio e sembrò parecchio soddisfatta.
Adesso, rimanevo soltanto io. «Adesso tocca a me» disse Janise. Non c'era molto da fare con i miei capelli, quindi Janise si limitò ad applicare una lozione per definire meglio i miei ricci rossi, aiutandosi con il diffusore. Poi, cominciò a sfumare varie tonalità di ombretti, fino a creare un aspetto naturale e non marcato.
Sulle labbra invece, misi soltanto del lucidalabbra. Non mi piaceva truccarmi molto, anche se con i trucchi ci sapevo fare.
Guardai l'orologio, mancavano cinque minuti alle otto. La mamma era di sotto, per fortuna papà era al lavoro, o mi avrebbe sfinito di domande. Già sopportare la mamma era stato troppo, quando le avevo riferito della festa. «Vorrei ancora ucciderti per avergli dato l'indirizzo di casa mia» bofonchiai verso Janise. Lei ridacchiò. «Sai bene che avrebbero fatto storie per farmi uscire.»
Era vero, i genitori di Janise erano un po' severi su questi argomenti, magari avrebbero fatto storie, ma non le avrebbero impedito nulla. «Spero che la mamma non mi metta in imbarazzo» alzai gli occhi al cielo, ricordando quando in passato l'aveva fatto, senza volerlo. Era una persona molto spontanea, quindi non si rendeva conto del fatto che a volte era troppo esuberante. E qualche volta poteva diventare estremamente imbarazzante. Janise era ormai abituata alle sue stranezze, e poi nutriva una sorta di adorazione per mia mamma. Ricordo che da bambina le chiese addirittura di poter essere adottata, quando litigò con sua madre. Inutile dire che quella povera donna ci rimase malissimo. Ma all'epoca Janise aveva soltanto cinque anni, ed era una bambina davvero pestifera. Dovevo starle dietro continuamente per impedirle di combinare guai, ma alla fine riusciva sempre a spuntarla.
Il rumore di un clacson fece scattare me e Janise come fulmini. Ci precipitammo giù dalle scale, dove rischiai di cadere e magari rompermi anche l'altro tendine d'Achille, salutammo velocemente la mamma e raggiungemmo i ragazzi in macchina. Dai sedili posteriori vidi la mamma sbirciare dalla finestra, e pregai che né Alex, che era alla guida, e né Caleb si accorgessero di lei. «Allora, pronte?» chiese Caleb, dal sedile del passeggero. «Sì» dicemmo in coro io e Janise. Guardando allo specchio retrovisore mi accorsi che gli occhi ambrati di Alex mi stavano guardando. Senza che neanche lo controllassi, mi spuntò un sorriso sulle labbra. Quando ripensai alla figuraccia della sera prima questo si ampliò a dismisura, fino a scoprire i denti. Janise ammiccò nella mia direzione, prima di spostare di nuovo lo sguardo su Caleb. A volte quella ragazza sembrava proprio una maniaca, se lo stava letteralmente divorando con gli occhi.
La serata passò troppo in fretta. Alex e Caleb portarono me e Janise a mangiare in un pub, e poi alla festa di Kacey. Se Janise non smetteva di guardare Caleb, lui faceva lo stesso con lei. Il suo sguardo era sincero e davvero interessato a tutte le cose che potessero uscirle dalla bocca in due millisecondi, nonostante alcune volte fossero cavolate colossali.
Non credevo nell'amore a prima vista, eppure... Quegli sguardi creavano un campo magnetico visti dall'esterno.
Il punto era fondamentalmente che Janise era una persona fantastica, sotto quella facciata dura. E lei era la prima a non esserne consapevole. Mi ero ritrovata mille volte a spiegarle che sottovalutarsi era un gravissimo errore, eppure lei l'aveva sempre fatto.
Janise voleva essere abbastanza, anche se brillava come una stella.
Quando bussammo alla porta di Kacey, fu proprio lei ad aprire, tutta sorridente. Portava un tubino bianco aderente che le fasciava i fianchi così bene, che avrei capito all'istante se Alex mi avesse abbandonata per correre da lei.
Ma lui non fece niente di tutto questo, tantomeno Caleb con Janise. Anzi. Alex mi tenne la mano tutto il tempo, nonostante i tentativi di Kacey di distogliere la sua attenzione da me. Eppure non sembrava esserci verso. Ed io riuscii di nuovo a sentirmi felice, quella sera. Lo fui davvero.
Riconobbi molte persone della scuola, e ne ignorai altrettante esterne. Kacey aveva invitato un mare di gente. «Non ci credo, Chloe!» mi chiamò una voce. Quando mi girai, fui felicissima di vedere la mia amica Hayley. Era perfetta nel suo tubino blu, con i capelli biondi arricciati alle punte e quel sorrisone che le faceva venire le rughe agli occhi azzurri. «Hayley, ciao!» salutai entusiasta. Immaginai che alla prima occasione Alex se la svignasse, invece rimasi colpita perché non fu assolutamente così. Anzi, appena qualcuno alzò il volume, mi prese per mano e mi trascinò in pista. Non avevo mai partecipato a molte feste, quindi non ero abituata a ballare. Non che non ne fossi capace, ma per i primi minuti trovai difficoltà, nonostante il fatto che Alex prese a guidarmi, con le mani sulla schiena. Quando capii che non c'era un vero e proprio schema, che c'era persino chi non faceva altro che saltare sul posto e agitare le braccia in aria, lasciai che la musica prendesse il sopravvento sul corpo e mi scatenai a ritmo. Alex sorrideva a denti scoperti, e giuro, era uno spettacolo. Con quei jeans stretti e la maglia blu che indossava, il mio sguardo ricadde accidentalmente sulle sue labbra. Inutile negarlo: era tutta la serata che ci pensavo.
Il suo sguardo mi trasmise una scossa elettrica, e quando mi attirò più vicina a sé, i corpi che si toccavano, ogni centimetro in cui la sua pelle aderiva con la mia cominciò a bruciare piacevolmente.
Poi il suo sguardo dirottò sulle mie labbra carnose. E non ci fu più niente a trattenerci. Il muro che ci teneva separati si sgretolò totalmente, tramutandosi in polvere, e le nostre labbra cozzarono davvero. Il bacio fu delicato, come se Alex temesse sul serio di spezzarmi, ma talmente intenso che mi sembrò di poter fluttuare. Durante il bacio mi sentii come su una pista di pattinaggio. E allora capii che per quanto potessi ostinarmi a negarlo, quello sguardo e il sapore delle sue labbra mi avevano già segnata da qualche parte.
Quando ci staccammo, una fitta di dolore mi fece urlare ed accasciare al suolo. «No, no, non di nuovo» pregai a denti stretti, mentre lo sguardo di Alex cadeva nel panico. Fu momentaneo, però, perché prontamente mi si accovacciò accanto, e come se non pesassi niente mi sollevò, tenendo un braccio dietro la schiena e un altro dietro le ginocchia. Di colpo, sentii le lacrime inumidirmi gli occhi. «Chloe, cosa succede? Dove senti dolore?» chiese preoccupato. Stupido, stupidissimo tendine d'Achille. La rabbia tornò in me, si innalzò come uno tsunami, e si abbatté nel mio corpo con tutta la sua forza distruttiva. Aveva rovinato il mio sport preferito, una delle mie ragioni di vita, e adesso anche il momento in cui ero riuscita a rievocare quella sensazione di felicità. «Il tendine... Il tendine d'Achille» risposi fra un fiato e l'altro. «Oh mio Dio, te lo sei rotto! Dobbiamo subito andare in ospedale!»
Senza che io avessi potere su quello che stava facendo, mi condusse subito fuori dalla villa e mi fece direttamente sedere in auto, al sedile del passeggero. «No, no, Alex fermo! Sto... Sto bene.»
«No, Chloe. Ti fa male, si vede dalla tua espressione, te lo sei rotto e devo portarti in ospedale. Non fare storie» caspita, era davvero preoccupato, ma io stavo bene. L'avevo solo sforzato troppo. «Alex! Sta fermo! L'ho soltanto forzato troppo» ammisi riluttante. «C-come solo forzato? Vuol dire che...» non gli diedi il tempo di finire la frase, che la sua schiena si rilassò subito contro il sedile dell'auto. Spense il motore e mi guardò interrogativo, aspettando una spiegazione. Se fosse stata un'altra persona al suo posto, non so quale sarebbe stata la mia reazione. Ma con Alex non potei fare a meno di sospirare e cominciare con la narrazione. Mi fidavo.
«Pratico pattinaggio sul ghiaccio da quando avevo cinque anni. Sono praticamente dodici anni. Non ridere di me per favore, se ti dico che questo sport è una delle mie ragioni di vita, oltre che un sogno. Voglio andare alle olimpiadi» sorrisi tristemente. Alex poggiò una mano sulla mia. «Non riderei mai per una cosa così importante, per te.»
Le sue mi fecero addirittura sorridere. Mi resero davvero felice. «È impressionante» gli sorrisi, mettendo l'altra mano sulla sua e stringendola dolcemente. «Che cosa?» sorrise lui. «Il fatto che hai saputo dire la cosa giusta. E sei stato gentile, e non hai riso di me. Anche quando ieri hai capito che la storia del gatto era una bugia» ridacchiai. A pensarci, l'idea di tirarmi uno schiaffo era sempre valida. «Già, era una bugia davvero pessima» rise di gusto. «Comunque, mi stavi raccontando di quello che ti è successo. Capisco se non vuoi, quindi ti prego di dirmelo se...» lo fermai, scuotendo la testa. «No, voglio parlartene.»
«D'accordo, ti ascolto.»
Cominciò a descrivere dei piccoli cerchi con il pollice, sul dorso della mia mano. Quel semplice movimento mi rilassò come non mai. «Dicevo, sono dodici anni che pratico pattinaggio ed è lo sport della mia vita. E poi cinque mesi fa, durante una gara, sono atterrata male dopo un salto e mi sono rotta il tendine d'Achille. Mi ci vorrà circa un anno, per guarire totalmente... Ho finito la riabilitazione, ma non posso sforzare troppo la caviglia. Appena faccio qualche sforzo di troppo, vengo colta da fitte lancinanti e devo riposare» spiegai.
«Mi dispiace davvero tantissimo, Chloe. Per quanto sia difficile, se il pattinaggio è il sogno della tua vita allora sono sicuro che ce la farai. Ma se continui a sforzare troppo la caviglia finirai a dover riprendere tra più di un anno. Quindi adesso ti riporto a casa, d'accordo?»
«E tu? Puoi restare alla festa, se vuoi. Io posso tornare a piedi» lo guardai, cercando di scorgere qualsiasi segno di cedimento da parte sua. Avevo paura di essere una palla al piede, e volevo evitare delusioni se davvero lo fossi stata. Anche se il bacio che ci eravamo scambiati mi solleticava ancora le labbra. «Non se ne parla, ti accompagno io. E non mi va di stare alla festa senza di te» rispose, facendomi sorridere. Sentii le guance in fiamme e sperai che il buio mascherasse il tutto, ma diventò del tutto inutile quando velocemente, mi posò una mano sulla guancia per attirarmi a sé e mi stampò un altro bacio sulle labbra. Dolce come quello di prima, ma ancora capace di stordirmi. A quella distanza, di sicuro aveva visto il mio rossore. «Sai che sei più carina quando arrossisci?» sorrise dolcemente, per poi prendere il cellulare e cercare un numero. Ecco, pensai, di sicuro adesso chiama qualche ragazza. Io scopro che è fidanzato, che mi ha preso in giro e che quei baci non siano stati nulla per lui. Mi scaricherà a casa soltanto per cavalleria e poi dovrò accontentarmi di vederlo nei corridoi.
La voce che rispose invece, fu tutt'altro che femminile. Tirai un sospiro di sollievo quando capii che aveva chiamato Caleb. Se non l'avete ancora capito, ero una persona estremamente pessimista. «Caleb, sì, stiamo bene, tranquillo. Chloe ha sforzato un po' troppo la caviglia, la riporto a casa, okay?» disse Alex al suo migliore amico. Non sentii la risposta. «Cosa? No, dici a Janise che è tutto apposto, sul serio. Ci penso io a Chloe.»
Caleb rispose qualcos'altro, ma ancora non capii. «Idiota, smettila. Ci vediamo domani» attaccò e poi mise in moto. «Alex, un momento. E Caleb e Janise come ci tornano a casa?» chiesi, ma una chiamata interruppe la conversazione. «Janise» risposi leggendo il nome sullo schermo. «Chloe! Ma che cavolo, ti ho chiamato tre volte prima che tu rispondessi. Mi hai fatto prendere uno spavento da matti! Stai bene?» urlò. Dovetti allontanare di qualche centimetro il telefono o i miei timpani ci avrebbero rimesso. Immaginando la situazione Alex ridacchiò. «Janise, per l'amor del cielo, calma! Non sono mica partita per l'Afghanistan senza avvertirti!» sbottai «sto bene, sul serio. Pensa a divertirti.»
Evitai qualche battuta su Caleb o qualsiasi suggerimento, ma pensai che per Janise fosse implicito il significato delle ultime tre parole.
«Okay, d'accordo. Ma per favore avvertimi appena torni a casa. E domani non provare ad alzarti dal letto se ti fa male la caviglia. Passo da te domani mattina, okay?»
«Sta' tranquilla. Fai la brava e pensa soltanto a divertirti» sorrisi, anche se lei non poteva vedermi «ci vediamo domani.»
«A domani» rispose lei per poi attaccare. Alex mi sorrise. «Siete molto legate» disse sottolineando l'ovvio. «Molto» confermai con un sorriso «la conosco da quando era un soldo di cacio. Forse non proprio, ma penso tu abbia capito» ridacchiai, facendo ridere anche lui. «Si vede. Sai, anch'io conosco Caleb dall'asilo. È come un fratello.»
Passammo il resto del tempo a parlare del più e del meno. Mi raccontò di essere un appassionato di nuoto, poi aveva dovuto abbandonare per problemi alla schiena. Però si era appassionato al basket. Infatti nella vecchia scuola era il capitano della squadra. «E quindi, tu saresti un ex capitano. Figo» ridacchiai, un attimo prima che la sua auto inchiodasse accanto a casa mia. «Direi proprio di sì» la sua risata riempì il veicolo. Ed io provai il desiderio di rimanere ad ascoltare quel suono ancora per un po'. Mi ero già presa una cotta stratosferica, insomma. Sembrava gentile, dolce, e poi era così bello...
Di nuovo, spostò lentamente il proprio viso a pochi centimetri dal mio. Stavolta fui io ad azzerare le distanze. Prima gli posai un bacio sul naso, e poi premetti le mie labbra sulle sue. La sua mano raggiunse immediatamente la mia nuca, ed io mi contorsi sul sedile per stargli più vicina possibile. Un attimo prima che il bacio diventasse più esigente, ci staccammo entrambi. Mi rimasero le farfalle nello stomaco, ma capii che ad entrambi andava bene così. Sorrisi. «Ti va se domani sera andiamo a farci un giro?» mi chiese inaspettatamente. Sentii uno sfarfallio al cuore. «Certo» risposi raggiante. «Perfetto. Magari ti mando un sms per l'ora, se...» non finì la frase, che mi porse il suo cellulare. Contenta, gli scrissi il mio numero. «Ci vediamo domani» gli stampai un bacio leggero sulle labbra, prima di scendere e tornare in casa. Una volta chiusa la porta alle mie spalle, mi affacciai alla finestra. Aveva aspettato che entrassi per andare via, perché fu proprio in quel momento che premette sull'acceleratore e partì. Mi abbandonai con la schiena contro la porta, e sorrisi mentre sentivo il cuore battere troppo veloce per i miei gusti. Poi scrissi un messaggio a Janise.
Sono a casa. Domani devo raccontarti un sacco di cose.
Janise a quanto pare, aveva preso alla lettera quello che le avevo scritto per messaggio. Dovetti sorbirmi un'altra ramanzina sul fatto che fossi stata imprudente per quanto riguardava il mio incidente, e poi si mise all'ascolto. Quando arrivai a raccontarle del bacio, Janise cascò letteralmente dal letto. «Janise! Ti sei fatta male?» accorsi ad aiutarla. «Ti ha baciata!» esclamò su di giri «già vi immagino al vostro matrimonio! Caleb mi deve dieci dollari, ah!»
Il suo sorriso si estendeva da un orecchio all'altro. «Janise! Che significa che ti deve dieci dollari? Avete davvero scommesso su me ed Alex?» chiesi inorridita. «Non ti arrabbiare, dai! Caleb ha detto che non aveva mai visto Alex così agitato per una ragazza. Ha iniziato a dire che sembrava una ragazzina e che non avrebbe avuto il coraggio neanche di sfiorarti, neanche se si fosse trattato di un semplice bacio. E io ho detto di sì» spiegò.
«Santi numi» sospirai «prima accetti di andare alla festa, poi scommetti su di me, Caleb ti ha totalmente rincoglionita. E a proposito, raccontami della tua serata» ammiccai. «Innanzitutto, come siete tornati a casa?»
«Una cosa alla volta» sorrise «abbiamo ballato tutta la serata, ci siamo divertiti un sacco. Amber, una delle amiche di Kacey ha provato a sottrarmi il mio Caleb» quasi ebbi paura potesse ringhiare. Come pensavo, Janise era totalmente andata per quel ragazzo. «Caleb abita a due isolati da Kacey. Siamo andati a prendere la macchina e mi ha accompagnato. E mi ha baciata.»
Fu il mio turno, esultai dandomi alla pazza gioia. «Com'è stato? Sono curiosa!» ribadii. «Calma, curiosona» ridacchiò «è stato bello, davvero. E dolce, anche se è stato per pochissimo.»
Le feci un sorrisone a trentadue denti. «Hai proprio fatto strike.»
¶¶¶
Da mesi, Alex era ufficialmente il mio ragazzo. Ed io la ragazza più fortunata della terra.
Alex sapeva essere molto stronzo, vero, ma era anche capace di una dolcezza fuori dal comune. Era disponibile, intelligente, caparbio, ed io avevo il cuore che mi batteva veloce come le ali di un colibrì in volo, appena pensavo a lui.
Mi stampò un bacio sulle labbra, sapeva di menta e d'estate. «Ce la puoi fare, è sempre stato il tuo sogno.»
Finalmente, l'anno nuovo era arrivato, avevo completato con successo la terapia ed il tendine d'Achille era ormai tornato come nuovo. «Sì, ce la posso fare. Grazie di tutto Alex. Ti amo» sussurrai labbra contro labbra, prima che lui si lanciasse in un bacio mozzafiato, facendomi mancare la terra sotto ai piedi. Mi mordicchiò il labbro inferiore e mi baciò, fino a che le mie labbra non diventarono totalmente insensibili. E intanto il cuore martellava, e lo stomaco galleggiava ormai in un mare di farfalle. Scariche elettriche scaturirono dal punto in cui teneva le mani, sulla schiena, inondandomi tutto il corpo. Quel bacio mi scombussolò tutta, tanto che, quando ci staccammo, il mondo sembrò vacillare per un attimo.
Alex si appoggiò alle inferriate dell'enorme pista di allenamento, e mi guardò allacciare i pattini. Non stavo più nella pelle. Appena misi piede sulla distesa di bianca di ghiaccio, Alex alzò un pollice. Non saprei dire quanto gli fossi grata in quel momento. Avevo lo stomaco contorto sotto un misto di emozioni che non sapevo descrivere. L'ansia, l'attesa, perfino la paura. Ma era la felicità a prevalere su tutto. La regina dei ghiacci era finalmente tornata.
Dopo tutta una vita passata sui pattini, non fu difficile abbandonarmi ai gesti che il mio corpo già conosceva. Mi era mancato tutto, il peso dei pattini alle caviglie, che mi tenevano ben ancorata a terra, il freddo pungente che per me era come una carezza sulla pelle, persino le strisce che le lamine d'acciaio lasciavano al mio passaggio.
Mi abbandonai totalmente a quel flusso di emozioni che mi travolsero, e cominciai a danzare, permettendo al mio corpo di eseguire ancora e ancora quei movimenti. E poi, decisi di provare a saltare.
E il mio cuore cominciò a battere così forte che temetti potesse uscire dalla gabbia toracica. Lanciai uno sguardo verso Alex e vidi che aveva le sopracciglia aggrottate. Doveva essersi accorto che c'era qualcosa che non andava. Proprio mentre il mio ginocchio si fletteva per saltare, l'altro piede leggiadro nell'aria, la più brutale delle verità mi tolse ogni briciolo di fiato per un secondo. Il cuore esplose in un tuffo, sprofondò per metri e metri, tanto che dovetti combattere l'istinto di toccarmi il petto, per vedere se c'era ancora.
Non riuscivo a saltare.
E non era per le gambe, né per il tendine d'Achille. Non mi faceva male. La forma fisica non c'entrava, mi sentivo perfettamente. Uno sportivo conosce i sintomi che precedono un malessere fisico per affaticamento, avevo dovuto farci i conti qualche volta. Sapevo con certezza di stare più che bene. Era tutto dentro di me, era un blocco emotivo. E si era attivato nel momento in cui avevo compreso a pieno la situazione.
Rotta come il mio tendine d'Achille l'anno prima, caddi in ginocchio sulla pista ghiacciata. Portai le mani a coppa a coprirmi il viso, e lasciai che le lacrime scorressero sulle guance, scuotendomi le spalle a singhiozzi. «Chloe! Chloe!» la voce di Alex si fece più vicina in qualche secondo. Ma che... Alzai lo sguardo quel tanto che bastava per vedere cosa stava succedendo, e lo vidi affaticarsi con le sue scarpe da ginnastica per raggiungermi. Sulla pista ghiacciata, camminava più o meno come un pinguino ubriaco. Mi avrebbe fatto ridere davvero, come solo Alex riusciva a fare, se non fossi stata così male. Se quel blocco emotivo non mi avesse colpito il cuore come una martellata.
«Amore, cos'hai? Ti sei fatta male?» Alex era finalmente riuscito a raggiungermi. Prontamente mi issò fra le braccia, o almeno ci provò. «Ti prego parlami. Ti fa di nuovo male il tendine d'Achille? Riesci a pattinare fino a bordo pista?» dal suo tono capii che era davvero allarmato. Mi costrinsi a fermare per un attimo i singhiozzi che mi sconquassavano il petto. «Sto bene» dissi con voce rauca, prima di togliere le mani dal viso e ancorarle alle sue. Ora come ora, Alex era la mia ancora.
Lo aiutai lentamente a tornare a bordo pista, il tutto senza smettere di piangere. Era bianco come un cencio, sembrava avesse visto un fantasma. La preoccupazione dominava nel suo sguardo, agguantandolo con le sue mani oscure in una morsa, ed era tutta colpa mia.
Era colpa mia per l'infortunio.
Colpa mia se non riuscivo a saltare.
Colpa mia se adesso, dovevo dire addio al mio sogno. Colpa mia se Alex era spaventato.
Tutta colpa mia.
Continuai a piangere disperatamente, le lacrime scendevano a grosse gocce impedendomi la visuale. Fui vagamente consapevole del fatto che, arrivati a bordo pista, Alex mi sollevò con una facilità disarmante, e andò a sedersi su uno degli spalti.
Mi prese il viso tra le mani e cercò di asciugarmi al meglio le guance fradice. «Chloe, parlami, per favore. Cosa ti è successo? Perché piangi?» mi chiese. Era decisamente allarmato. Ma per quanto ci provassi, non riuscii a formulare una sola parola. Ogni volta che ci provavo, venivo scossa da un singhiozzo.
Senza preavviso, Alex mi baciò dolcemente, posando le labbra sulle mie. Era un bacio delicato, che aveva il sapore di lacrime e paura, ma fu l'unica cosa che riuscì a farmi calmare, almeno il necessario per parlare. «Shh» sussurrò «parlami.»
Lasciai che mi tenesse stretta. «Non riesco a saltare. Ci stavo provando, prima. E poi mi sono resa conto che non ci riuscivo» spiegai. Il battito del suo cuore mi infuse calma. Appoggiata al suo petto riuscivo a sentirlo, e mi confortò.
Mentre con una mano mi sorreggeva la schiena, l'altra si incastrò perfettamente con la mia, mentre intrecciammo le dita. Quelle mani, sembravano essere state create soltanto per intrecciarsi fra di loro. Come il pezzo di un puzzle, che non può essere incastrato a qualsiasi altro pezzo. «Cosa ti blocca?» chiese Alex. Quel ragazzo dimostrava una calma pazzesca, unita ad una pazienza infinita. «Non lo so» risposi, ancora con la voce alterata dal pianto «pensavo semplicemente che dovevo saltare. Il cuore ha iniziato a battere e mi sono rivista un anno fa. E ho capito che quel salto non sarei riuscita a farlo.»
«Chloe, ho visto milioni di video mentre pattinavi. E in ognuno di quelli ho visto che ci mettevi davvero il cuore. Lo sappiamo tutti e due che è questo il tuo sogno, non avrebbe senso abbandonarlo. Probabilmente hai solo paura, o hai perso fiducia in te stessa.»
Alle sue parole, abbassai il capo. Sì, la fiducia in me stessa l'avevo proprio persa. Come avrei potuto tornare a pattinare?
Mi strinse, circondandomi la schiena con le sue braccia dai muscoli ben definiti. Quelle mani sapevano essere tanto delicate quanto forti e decise. «Devi capire che sono incidenti che capitano a tutti, specialmente agli sportivi come te. Lo so che adesso hai paura, ed è comprensibile. E so anche che forse chiedertelo adesso è troppo, ma devi lasciarti alle spalle ciò che è successo.»
Caspita, sembrava proprio deciso. Quasi quasi non lo riconosevo.
«Sì, Alex. È troppo chiedermelo adesso, di lasciarmi tutto alle spalle. Se dovessi... Farmi male di nuovo?» scacciai le lacrime che spingevano per oltrepassare le ciglia, e lo guardai. Diritto in quegli occhi ambrati e caldi che si ritrovava. In quella tempesta che era il suo sguardo. La violenza delle sensazioni che mi travolsero mi tolse il fiato per un attimo. Seppi con assoluta certezza che credeva fermamente in quello che stava dicendo, e per questo era giusto ascoltarlo.
E magari anche provare a dargli ragione, suggerì una voce nella mia testa.
«È questo il punto. E se invece non dovessi? Se dovessi realizzare il tuo sogno, partecipare e vincere addirittura le olimpiadi? Vuoi davvero arrenderti così?» chiese.
«Non ho detto che voglio arrendermi, è solo che non ci riesco» sbottai, quasi esasperata dalla piega che stava prendendo quella conversazione. Non mi piaceva per niente, ed il dolore di quelle parole, e di tutto ciò che comportavano sembrava insormontabile. «A me sembra che tu stia dicendo questo. Non riesci proprio a capire?» rimase stranamente calmo, come se la risposta fosse proprio sotto al mio naso, ma io non la vedessi per qualche strana ragione. «Ma che cosa dovrei capire?» chiesi esasperata, nervosa non soltanto per tutto quel che stava succedendo, ma anche perché a quanto pare qualcosa mi stava sfuggendo. Ed Alex era sempre così maledettamente calmo.
Mi sentivo un'idiota.
«Che il non ci riesco è la balla più grande che ti sia mai detta nella tua vita!» esclamò ovvio. «Devi credere in te stessa, è questo il punto. Devi farlo perché il tuo sogno è troppo importante per gettarlo in un cassetto e chiuderlo a chiave. Finirai per spezzarti anche il cuore, oltre che al tendine. Lo capisci?»
La potenza di quelle parole mi travolse come un uragano. Non credevo più in me stessa. Io non ci credevo più.
E fu come se un altro pezzetto di me crollasse. E non ci furono più dighe che tennero, le lacrime sgorgarono dagli occhi e mi resi conto di averlo già capito nel momento esatto in cui non avevo saltato. «Sì, ma come...» provai a parlare, ma le parole mi morirono in gola. O probabilmente non c'erano parole e basta. Come si fa a credere in sé stessi, a credere di potercela fare, quando sembra così palese che sia il contrario?
«È vero, non sarò un giudice di gara e di pattinaggio ne capisco quanto tu di danza classica. Ma per me sei la miglior pattinatrice che esista. Chloe, io credo in te. E devi imparare a farlo anche tu.»
Io credo in te.
Quelle quattro parole mi fecero sentire una strana sensazione, come un fuoco che brucia al centro del petto, senza danneggiare nulla. Un fuoco che brucia tutte le incertezze, non tutto quel che incontra.
Alex aveva capito prima di tutti, prima di me stessa cosa mi stava succedendo. Mi aveva solo aspettata al traguardo.
«Hai capito, Chloe?» fu proprio lui a strapparmi dai miei pensieri. La frustrazione andò via come polvere soffiata via al suono della sua voce. Il macigno che portavo al centro del petto sembrava essersi distrutto, eppure avevo un'amara sensazione. Era la consapevolezza di ciò che mi stava succedendo, e seppi che se volevo riuscire a saltare, allora dovevo lasciar andare tutte le paure, e credere di potercela fare nonostante tutto.
«Sì» gli risposi debolmente, prima di avvicinarmi e posargli un bacio sulle labbra. La sua stretta si fece più forte mentre mi circondava la vita con il braccio, mentre con l'altra mano risaliva fino alla nuca. Il bacio passò da dolce ad esigente, il cuore sembrava impazzito, ad ogni battito cozzava contro la cassa toracica ed io venivo catapultata in mondi diversi ogni secondo.
«Dio, Caleb, hai dell'insulina?»
Non ebbi bisogno di girarmi per capire che la voce apparteneva a Janise. Caleb scoppiò a ridere, piegandosi in due. Come dargli torto... Le uscite di Janise erano così inaspettate che anche se infelici, non si poteva far a meno di ridere. Risi contro le labbra di Alex e sentii che lui faceva lo stesso, così mi staccai e guardai Janise. «Ehi, ma... Stai bene?» domandò svelta, improvvisamente preoccupata. Mi chiesi come avesse fatto a capire che fosse successo qualcosa, per poi rendermene subito conto. Evidentemente dovevo essere un disastro. «Adesso sì, sto meglio» feci segno a tutti e due di avvicinarsi e sedersi sugli spalti. Janise volò subito accanto a me e mi guardò preoccupata. «Alex, andiamo?» chiese Caleb. Avevo totalmente dimenticato che quei due avevano un importante allenamento di basket, e Caleb era venuto a prendere Alex. «Sì, andiamo. E mi raccomando, fate le brave, tutte e due» mi strizzò un occhio il mio ragazzo. Sorrisi, Alex era senza dubbio un'idiota, ma era davvero il miglior idiota che potessi desiderare al mio fianco. «Sono un angioletto, io» bofonchiai, per poi salutarlo con un bacio a fior di labbra. «Allora bada tu a questo mastino infernale» si intromise Caleb, riferendosi a Janise. «Questo mastino infernale ti farà volare in Tibet con un cannone, se non la smetti subito» borbottò Janise. «Sì, sì, come no. Come farai senza di me?» le rispose Caleb. Al che io guardai sorridente Alex. Sapevamo entrambi che Janise e Caleb non riuscivano a stare l'uno senza l'altra. «Mi troverò un altro ragazzo. Sono fantastica» si pavoneggiò, mettendosi le mani sui fianchi «e nessuno è in grado di resistermi.»
Caleb strinse i pugni e assottigliò lo sguardo, battibecchi come quello erano all'ordine del giorno fra di loro. «E allora vuol dire che, in Tibet, mi troverò un'altra ragazza anch'io.»
«Povera ragazza allora! Sei insopportabile» sbottò lei, chiaramente gelosa.
Io ed Alex non potemmo far altro che scoppiare a ridere, guadagnandoci subito degli sguardi assassini. «Andiamo, Cal» lo esortò Alex. Caleb si riscosse subito, poi con assoluta naturalezza sorrise a Janise. Era incredibile la velocità con cui cambiavano umore tutti e due. Lei si sciolse subito sotto il suo sguardo e ricambiò il sorriso, così lui la baciò a fior di labbra e si salutarono.
L'ultima cosa che vidi, fu il sorriso sincero di Alex mentre spariva dietro gli spalti, verso l'uscita.
«Allora, cosa ti è successo?» chiese Janise, di nuovo preoccupata. Guardai la pista e sospirai, mi sembrò quasi che Janise trattenesse il fiato. «Ho provato ad allenarmi, e stavo andando bene. Poi ho provato a fare un salto ma non ci sono riuscita» spiegai, sentendo gli occhi lucidi. «Intendi che non ci sei riuscita perché sei caduta? Anche le campionesse cadono, e tu non ti alleni da mesi» replicò dolcemente. Janise sapeva meglio di chiunque quante volte ero caduta, ma ero sempre riuscita a dare il meglio, alla fine. Scossi la testa. «No, intendo proprio che dovevo saltare, e non l'ho fatto.»
«Hai avuto paura? O qualcuno ha perso la fiducia?» mi strinse la mano, cercando di confortarmi. «Si capisce così tanto? Non lo so, è che mi ha travolto un'ondata di emozioni diverse. Avevo paura di non farcela, di dover rinunciare al mio sogno» cercai di spiegare, feci per dire altro, ma mi bloccai. Era così strano da spiegare. «Sì, si capisce tanto, almeno per me che ti conosco. Chloe, ascolta» mi guardò negli occhi, decisa come non mai «tu sei la persona migliore che conosca. È solo che non ti rendi mai conto di quanto in alto puoi arrivare. Quando dai il massimo di te stessa è impossibile non vederti brillare sulla pista. Il tuo problema è che non ci credi abbastanza. Pensi sempre di dover fare chissà cosa, chissà quale fatica. Tu hai già scritto la tua strada, la fatica non ti spaventerà perché ami quello che fai, quindi tu mettici solo tutta te stessa. Devi credere in te, non capirò molto di pattinaggio, ma so che hai le capacità per diventare chi vuoi. Sempre.»
Rimasi per un attimo senza parole. Qualche volta Janise sembrava un'ottantenne, perché sapeva sempre cosa dire e quando. Perché sapeva farmi sentire meglio, e perché quando mi abbattevo, lei stava lì a spiegarmi perché dovevo mettere le cose al loro posto. Perché dovevo rialzarmi e continuare sulla mia strada. Perché lo sapevamo io, lei, Alex, Caleb, Evelyn, i miei genitori e tutti i miei amici, che il pattinaggio era la mia strada. Dovevo solo crederci di più. Abbracciai il mastino infernale più dolce del mondo. «Questa volta mi hai zittita sul serio. Grazie, Jan, sul serio. Ti voglio bene.»
La sua stretta quasi mi soffocò, ma non mi importò. Aveva la forza di un grizzly, eppure quell'abbraccio mi fece bene. «Te ne voglio anch'io.»
¶¶¶
Quanto mi ci era voluto per recuperare un po' di fiducia? Un mese, due? Tre, probabilmente, oppure mi ci sarebbero voluti anni.
Dopo quella giornata, qualcosa in me aveva cominciato a cambiare. La prima volta in cui ero riuscita a saltare, Janise era con me. Avevamo fatto i salti di gioia, eravamo così felici che sembrava impossibile spiegarlo. Ed io mi sentivo meglio, molto meglio. Qualche volta ancora mi capitava di non riuscire a saltare. Si trattava perlopiù di momenti, ma quelli mi mandavano l'umore sotto i pattini, probabilmente nel nucleo della terra. E mi ci voleva tutta la forza che avevo per ritrovare il coraggio di saltare e di credere in me stessa. Dovevo solo lasciarmi inondare da tutto l'amore per il pattinaggio e la tenacia che avevo sempre avuto, e ricordarmi le parole di Alex e Janise. Loro credevano in me, credevano che avessi gli strumenti per diventare chi volevo, quindi perché non potevo crederci io stessa? In fondo, Janise aveva ragione quando diceva che avevo scritto già la mia strada. Non mi restava che percorrerla.
«Allora, tesoro, sei pronta?» mi chiese la mamma per l'ennesima volta. «Sì» risposi, anche se in realtà ero tutta agitata e tremavo come una foglia. Dopo quasi un anno, eccomi ritornata a gareggiare.
Riuscirò a saltare? Mi ero domandata tante volte in quei giorni, ma cercavo sempre di correggermi. Devo credere che ce la farò. Perché posso, ricordavo a me stessa.
Io posso farcela. Era diventato una sorta di mantra in quei mesi, ogni volta in cui cadevo cercavo sempre di tenere a mente che avevo le capacità. Quindi, cosa mi impediva di saltare?
Le persone, a volte, la facevano facile. Quando si perde la fiducia in sé stessi è molto difficile recuperarla. Ma dovevo farlo, perché non potevo abbandonare il pattinaggio, la mia strada. Che ne sarebbe stato, altrimenti, della mia felicità?
«Chloe!» chiamò Janise da lontano. Ovviamente né lei, né Alex e persino Caleb avrebbero mai potuto mancare al mio ritorno. Le corsi incontro ignorando la mamma che mi urlava qualcosa, e la abbracciai. «Forza, campionessa. Puoi farcela» mi disse una volta che mi ebbe stretta e che ci fossimo staccate. Annuii vigorosamente, cercando di convincermi delle sue parole. Un istante dopo, Alex sbucò dalla porta d'ingresso accompagnato da Caleb. Gli corsi subito incontro, e fu una sensazione bellissima quando mi prese per la vita, e tenendomi stretta mi fece piroettare. Lo baciai. «Come ti senti?» chiese lui, accarezzandomi i capelli sullo chignon, attento a non rovinarmi l'acconciatura. «Agitatissima» rabbrividii, ringraziandolo mentalmente quando mi strinse forte. «Devi battere tutti. E ricorda, qui ci crediamo tutti in te» mi baciò la fronte, poi di nuovo le labbra, più dolcemente di quanto avesse mai fatto. «Grazie, Alex» gli sorrisi «darò il meglio di me.»
«Ora sì che ti riconosco» mi sorrise.
Salutai anche Caleb. «Vincerai, a patto che ti impegni.»
«Lo farò» gli risposi, poi presi Alex per mano, e guidai il resto del gruppo accanto ai miei genitori. Il mio ragazzo, ormai andava d'accordissimo con mio padre e mia madre. Qualche volta, dicevo che addirittura sembrasse lui il loro figlio, anziché io. Ovviamente scherzavo, lo sapevano anche loro.
«La gara inizia tra dieci minuti, devo prepararmi a bordo pista perché sarò la seconda» avvisai. «Faremo il tifo per te» mi sorrise Janise stringendomi le mani. «Vai e facci vedere. Io sono qui» mi disse Alex, sussurrandomi le ultime tre parole. Arrossii come una ragazzina al primo appuntamento, a volte non riuscivo proprio ad evitarlo. Dopo aver fatto un ultimo saluto a tutti, scesi velocemente gli spalti per andare ad unirmi ai ragazzi a bordo pista.
Presto, troppo presto, arrivò il mio turno. «Numero due!» tuonò la voce della presentatrice della gara. Feci un ultimo respiro, e scivolai al centro della pista, mettendomi subito in posizione di partenza. Il pubblico applaudì caloroso, ma tre voci spiccarono sui battiti delle mani. «Forza, Chloe!» urlarono Alex, Janise, e sorprendentemente anche Evelyn. Doveva essere arrivata quando ero ad aspettare il mio turno a bordo pista. Alzai il capo velocemente, per vedere la bambina tenere la mano a Caleb e sua sorella.
La musica partì un istante dopo, e come sempre, lasciai che il mio corpo ricordasse per me i movimenti. Mi lasciai trascinare da tutta la passione che sentivo per lo sport che amavo, dalla musica e dalle emozioni che sentivo.
Ci siamo, pensai. Posso farcela.
Flettei il ginocchio, lasciando l'altro piede sospeso leggiadro nell'aria, e saltai. L'applauso del pubblico e le urla d'incitamento mi riempirono le orecchie. Individuai subito, tra la folla, lo sguardo orgoglioso di Alex. I suoi occhi ambrati mi trasmisero un moto di energia e vitalità, un fuoco prese a bruciarmi nel petto ed io seppi, seppi davvero che potevo farcela. Per me e per chi amavo. E allora lasciai che l'energia fluisse nei miei salti, nelle braccia e nelle gambe, e ripresi a volare come un albatro nel cielo, lo stesso che tanto lodava Baudelaire.
E alla fine, il triplo toe-loop riuscì alla perfezione, l'intera esibizione riuscì alla perfezione, ed io sconfissi quel timore tanto selvaggio, quelle incertezze antiche quanto i miei anni di ragazza, sconfissi quella me stessa che non credeva, che si lasciava bloccare, e che dentro di sé ruggiva come un leone. Finalmente, tornai davvero la regina dei ghiacci.
E quando terminai, il fiatone ed il cuore che rimbombava fortissimo dentro la cassa toracica, le urla e gli applausi mi riempirono il cuore.
Ce l'avevo fatta. Ce l'avevo fatta davvero senza bloccarmi.
Con un sorriso a trentadue denti uscii dalla pista. L'adrenalina e l'ansia mi lasciarono sulla pelle una sensazione bellissima, sapevo di aver dato il meglio di me stessa ed ero felice.
Non mi accorsi di quel che stava succedendo, fino a quando due braccia non mi circondarono. Riconobbi subito il tocco e il profumo che amavo tanto, e quando mi girai cozzammo labbra contro labbra, io ed Alex, più uniti che mai.
Quel bacio mi scosse fin nel profondo dell'anima, rilasciando scariche elettriche ed adrenaliniche. Le labbra di Alex si incastravano contro le mie perfettamente, che anche solo staccarle in quel momento sembrava una cosa tanto lontana ed impossibile. «Ce l'hai fatta» sussurrò contro le mie labbra «brillavi sulla pista. Sono fiero di te.»
Gli sorrisi, un sorriso sincero, di quelli che mi sapeva strappare con un semplice gesto, fosse questo un bacio o una parola. Alex era il mio mondo, un pezzo del mio cuore. Ed era anche grazie a lui se ce l'avevo fatta. Perché aveva creduto in me quando ne avevo più bisogno, quando non l'avevo fatto io stessa.
Ed ebbi, per la millesima volta, la conferma che lo amavo. Come avrei fatto altre volte nella vita e nella carriera, sempre.
E quando ricevetti la medaglia d'oro, seppi con assoluta certezza che mi sarei impegnata ed avrei realizzato il mio grande sogno.
Dopo essere scesa dalla pedana, Janise corse ad abbracciarmi, di nuovo. «Io te l'ho detto, che puoi fare quel che vuoi.»
La strinsi in un abbraccio anch'io.
Ero tornata la Regina dei Ghiacci. Avevo persino battuto Nancy Jones.
Ero felice.
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