•Capitolo XXI•
[Quando del cuore rimane solo polvere ]
Inko aveva notato che qualcosa di terribile stava trascinando il suo amato bambino nelle braccia dell'oscura e gelida disperazione e che cercava di comportarsi come a pretendere di stare nella migliore forma possibile quando non era così.
Il sorriso che aveva stampato in volto, quella luminosa gioia che ne trasudava era in netto contrasto con il dolore e il freddo assoluto che il vuoto nelle sue iridi scurire da chissà quale esperienza e le borse violacee che spuntavano sotto i suoi occhi mal coperte.
Alla luce di queste sue scoperte e della sua apprensiva osservazione aveva lasciato che il ragazzo si chiudesse nella sua camera prendendosi il suo tempi nel rendersi conto di essere nel confortevole calore di casa e che c'era lì sua madre che lo amava e che avrebbe fatto tutto ciò che poteva per aiutarlo.
Lasciò che avesse un po' di tempo da spendere con se stesso per affrontare quelle emozioni che parevano ingestibili e poi gli avrebbe dato tutto l'appoggio che lui avesse richiesto e del quale avrebbe comunque avuto bisogno senza neppure conoscere la reale gravità di quel dolore spietato che lo stava afferrando malvagiamente e senza conoscere la causa di questo suo male.
Midoriya si rifugiò nella sua camera da letto che era perfettamente ordinata, identica in ogni duo particolare a come l'aveva lasciata per stabilirsi nel dormitorio della Yuheii, eppure se normalmente questo lo avrebbe fatto sorridere facendogli provare conforto in quel momento non gli faceva effetto alcuno.
Si concesse però di sciogliere il suo volto dall'oneroso obbligo di fingere buon umore quando ancore tentava di ritrovare tutti i pezzi in cui il suo cuore si era diviso mentre sistemava con religiosa attenzione la sua collezione cercando di tenere occupata la mente e di non far vagare il pensiero fino a fareirisi senza neppure desiderarlo.
Eppure venne distratto da quell'attività a cui si era dedicato con tanta concentrazione dallo squillo del suo cellulare, chiaro segno che qualcuno gli aveva mandato un messaggio e si stupì quando si rise conto di non conoscere affatto il numero riportato sullo schermo dell'apparecchio elettronico e si stupì di aver ricevuto una notifica.
In fin dei conti quella era appena l'ora della pausa pranzo, probabilmente la campanella aveva appena terminato di avvisare gli studenti di quel loro breve attimo di pausa e spinto da una curiosità decisamente pericolosa aprì l'icona lasciando che una foto venisse mostrata a schermo interno a quelle iridi che, in quel momento persero anche quel debole riverbero della luce che avevano posseduto.
Bastò quel messaggio, quella foto con quella breve descrizione a spazzare via tutto quello che del suo cuore gli era rimasto.
La foto mostrava la perfida ragazza che li aveva ricattato spingendolo a lasciare Bakugou e esplicitando che doveva farsi odiare da lui che baciava proprio il biondo con un sorriso ben contento, da quello che poteva vedere e quella foto era stata scattata con un'ottima angolazione perché certi dettagli non fossero visibili e sotto vi era una scritta che recitava «Non è passato neppure un giorno da quando vi siete lasciati e guarda, già non ti pensa più »
In quel preciso momento i pezzi già distrutti del suo povero cuore si tramutarono in cenere che venne spazzata via da un debole alito di vento che portava con se il gelo delle zone più fredde ed inospitali che esistessero sulla terra, lasciando che a colmarlo non ci fosse più nulla se non pessime emozioni che lo avrebbero portato sulla strada della pazzia.
Le sue grosse iridi smeraldo si fecero così piccole da sparire quasi e si finsero di un verde scurissimo simile a quello che assumono le foglie morenti degli alberi di notte, le sue labbra si aprirono leggermente in una smorfia fra rabbia e dolore, le sue dita si strinsero talmente tanto da mandare in frantumi il cellulare e una scossa di puro odio riverberò nelle sue membra ferite.
In un impulso di rabbia, di pura violenza e desolazione buttò tutto quello che gli capitò a tiro con violenza contro il pavimento della sua stanza e così nel giro di un minuto ogni cosa in quella stanza era ridotta in pezzi e lui al centro di quel macello era seduto con la schiena contro il materasso rannicchiato su se stesso.
I piedi nudi si toccavano come a volersi consolare, le sue mani erano immerse nelle nelle sue ciocche verdi e le tiravano con tanta violenza che vennero giù dei rivoli di sangue vermiglio, gli occhi ancora ridotti a due piccoli puntini quasi neri e le labbra assottigliate.
Midoriya era immobilizzato dal dolore, sentiva che nel suo petto c'era dolo il gelo lasciato dal nulla e quando sua madre preoccupata a causa del rumore entrò nella stanza e piangendo lo abbracciò senza a sapere che non c'era più nulla in quel petto freddo e morto da consolare provò a trasmettergli il duo calore.
Ma non era del suo calore che lui aveva bisogno, non erano quelle le braccia che voleva attorno al suo corpo, non erano quelle le labbra che voleva contro la sua fronte, non erano quelli i capelli che voleva a contatto con la sua pelle, non erano quelle le parole che voleva sentire, non era la sua la voce che voleva ascoltare e non era suo l'odore che voleva annusare a poca distanza da se.
Lui la allontanò da se e la cacciò dalla sua stanza urlando con la voce spezzata, con la voce graffiate come vetri rotti a conficcarsi nella pelle e lasciò uscire delle grida che parevano irreali se si pensava che provenissero da lui, dal dolce e calmo Midoriya Izuku eppure bisognava anche capire che in quel esatto momento lui era morto a causa del dolore che lo ave a soffocato.
Era come se la disperazione fosse emersa dal suo abisso nero, come se avesse lasciato le sue mani viscide scivolare sul suolo e avesse stretto nella sua presa le caviglie del ragazzo per poi trascinarlo con uno strattone secco e crudele con se in quel nero pece che finì per infiltrarsi in ogni parte di se e soffocare tutto ciò che era stato.
Ebbene così passò una settimana intera, rifiutando di nutrire il suo corpo ed il contatto con la donna che lo aveva dato alla luce, era come se per una settimana avesse rifiutato la sua medesima esistenza cercando di rifiutare quel dolore costante che aveva presso il possesso come giorni prima che parevano lontani una vita aveva fatto l'amore che lo aveva legato al biondo.
Poi un giorno si alzò dalla posizione in cui la madre lo aveva lasciato e nella quale era rimasto tutto il tempo senza muovere un muscolo che fosse volontario, si passò una mano fra i capelli sporchi e opachi per poi cercare freneticamente qualcosa fra il cumulo di detriti che ricopriva il suolo fella sua stanza per poi mettersi a scrivere qualcosa.
Qualche ora dopo andò in bagno e si fece una lunga doccia come se non avesse mai avuto un crollo psicologico, si vestì e uscì di casa con molti strati di vestiti sotto alla raccomandazione della madre che gli sorrideva calorosamente pensando che finalmente il suo piccolo ometto stesse finalmente bene.
E per lui era così, stava bene perché sapeva che l'unico modo che aveva per mettere a tacere quel mostro di dolore e rabbia che gli pulsava nelle vene era di smettere di sentire, di vedere e di provare emozioni, doveva rendere se stesso come era già da una settimana a quella parte, morto.
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