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7

Viaggiamo in silenzio ritrovandoci in strade che non avevo mai visto. New York a volte sembra cambiare. Non è così piccola come vuole sembrare. In realtà è piena di vicoli, stradine che si intrecciano diramandosi ovunque. E, anche se ti abitui a percorrere lo stesso tragitto, ti capiterà sempre di cambiare strada scoprendo qualcosa di nuovo, vedendo nuovi locali, nuove persone. Incrociando altri sguardi, sorrisi.
Abbasso il finestrino lasciando entrare l'aria fredda dentro l'abitacolo che odora di sigaro e pelle. Inspiro ed espiro lentamente chiudendo gli occhi.
Mi concedo un breve momento di pausa prima di riaprirli e accorgermi del suo sguardo sfuggente. Mi spia cercando di fingersi disinteressato alle mie strane manie, ai miei gesti sempre troppo impulsivi. Non sempre sono prevedibile. Tutto dipende da come incasso ogni colpo.
«Non vuoi ancora dirmi dove stiamo andando?»
Non mi sento nervosa ma il non sapere quello che ha in mente, mi fa salire addosso una certa ansia. Nonostante ciò, cerco di non agitarmi proprio davanti a lui, mostrandogli un lato sgradevole della mia personalità.
«Non dovevi cambiarti?»
Imbocca l'incrocio che conduce al mio quartiere e curiosa attorno abbassando la testa, osservando gli alberi quasi del tutto spogli, le foglie sparse ovunque e i vicini dietro le finestre delle loro piccole case.
Si ferma davanti il cancello, la staccionata bianca vecchia e cadente. Viene ad aprirmi la portiera abbassando quando più possibile la testa in modo tale da nascondere il viso.
Esco mettendo finalmente piede fuori, sentendomi nel mio ambiente, apro il cancello lasciandolo aperto e salgo velocemente sul portico con il mio solito slancio, come se dovessi trovare zia Marin dentro casa ad aspettarmi.
Aprendo la porta, spingendo e bloccando quella a zanzariera mi accorgo però di essere sola. Lei mi manca. Mi manca il suo sorriso, il suo abbraccio caldo e confortante. Mi mancano le nostre chiacchierate, persino i suoi rimproveri. Mi manca il potermi sentire utile. E sono solo passate poche ore, rifletto.
Mi volto e lui se ne sta appoggiato allo sportello dell'auto, i pugni dentro le tasche della tuta che indossa. Nera come la sua anima tormentata.
«Entra o congelerai qui fuori», esclamo facendo cenno di avvicinarsi.
Valuta per qualche istante la mia proposta, quasi stupito, poi lentamente si avvicina alla porta fermandosi sulla soglia. «Sicura?» Chiede indicando qualcuno alle sue spalle.
Sbircio alzandomi sulle punte dei piedi per superarlo e, anche se malamente a causa della sua altezza, noto dietro la tenda la vicina. Ci sta spiando senza imbarazzo. Senza discrezione alcuna.
Sorrido. «Si, non preoccuparti per loro.»
Travis entra in punta di piedi in casa. Come se si trovasse in un campo minato. Notando che non c'è nessuno, rilassa le spalle.
Deve metterlo proprio a disagio la presenza di estranei pronti a guardarlo, a giudicarlo o a compatirlo.
Chiudo la porta avviandomi nella mia stanza. È tutto come l'ho lasciato. In perfetto ordine.
Recupero un paio di blue jeans stretti, un maglione morbido nero dal cassettone. Mi volto per prendere il beauty-case e non trovo nessuno in camera.
Sbircio dalle scale e lui si è appena seduto sulla poltrona, con i gomiti sulle ginocchia. Fissa qualcosa davanti a sé standosene in religioso silenzio.
Sembra così triste. Così distante dal mondo.
Mi sposto in bagno dove, dopo avere fatto una doccia veloce, finalmente mi cambio indossando qualcosa di comodo. Pettino i capelli legandoli di nuovo, lasciando qualche ciuffo fuori dalla crocchia scomposta.
Quando esco dal bagno spedita e decisa a raggiungerlo, lui sta entrando nella mia stanza. Per poco non ci scontriamo. Si appoggia allo stipite della porta sbarrandomi la strada mentre io faccio un passo indietro infilando le mani dentro le tasche. Per distrarmi cerco le scarpe da ginnastica. Non trovandole, gironzolando per la stanza, indosso un paio di stivali bassi.
«Così... è questo il luogo in cui avviene la creazione o dovrei dire la magia?» punta il suo sguardo all'angolo dove si trova il divisorio e la scrivania. Vaga intorno, ovunque, anche verso il tetto e sul letto. I suoi occhi si posano sulle mie cose studiandole fugacemente, senza vergogna. Fa una smorfia quando nota la chiazza dovuta all'umidità ma non commenta.
«Non dovrei mostrarlo per evitare che qualche stalker mi segua, ma si, è dove mi siedo a studiare e a creare i video che guardi.»
Abbozza un sorriso ma sembra subito riscuotersi. Come se avesse fretta di uscire. Sentire il rumore delle auto che si fermano a poca distanza lo mette in allerta. Ma qui non arriverà mai nessuno, a parte Dan.
«Hai finito? Sei pronta?»
«Si, davvero non vuoi dirmi dove mi stai portando?»
Scende dalle scale porgendomi il cappotto lasciato all'entrata sull'attaccapanni di legno accanto alla porta. Lo indosso stringendo il laccio intorno alla vita.
«No. Per una volta non avrai tutto sotto controllo e ti rilasserai. Sai, ho notato che se non hai tutto in ordine, ti senti a disagio o dai di matto. Posso solo dirti di non preoccuparti. Non voglio farti alcun male. Adesso smetti di chiederlo ogni due per tre e seguimi?»
Apro e richiudo subito la bocca pronta a dissentire.
«Promemoria per te, Bambi: vorresti controllare tutto, ma ci sarà sempre qualcosa in grado di sfuggire al tuo sguardo attento.»
Il solo pensiero di dovermi arrendere lasciando andare le cose così come sono mi fa agitare. «Credi che sia meglio così? Credi che sia meglio non tenere le cose nel giusto ordine?» gesticolo ampiamente.
Travis annuisce. «A volte è meglio così. Vivere senza programmi, senza legami. Non puoi controllare tutto e anche se ci riesci ci sarà sempre un imprevisto, un incidente dietro l'angolo pronto a far saltare ogni tuo piano.»
Me ne rendo conto solo ora di come mi vede realmente. So di essere insicura. Questo mi spinge a tenere tutto sotto controllo o come dice lui: in ordine. Ho un grosso problema a fidarmi e seguirlo con tante incognite, senza battere ciglio per me è già un gran passo avanti.
Di nuovo in auto, allaccio la cintura serrando la mandibola, tenendo chiusa la bocca che rischia costantemente di aprirsi ed esprimere un parere non richiesto. Mi costringo a non emettere un fiato, a non agitarmi mentre ci allontaniamo dal mio piccolo quartiere e poi anche dall'Upper Est Side.
Di tanto in tanto mi controlla. Sa che sto tenendo a bada ogni istinto, proprio come sa che prima o poi non riuscirò più a trattenermi.
«Chiedimi quello che vuoi», spezza il silenzio spegnendo per qualche istante la ventola che provoca un forte rumore e anche un calore sgradevole addosso.
Per poco non urlo. Tanto sono concentrata a non fare danni. «Proprio tutto o dobbiamo applicare qualche filtro? Se devo chiedere qualcosa devo sapere prima se evitare qualche argomento nello specifico, in modo tale da non commettere degli errori.»
Stringe la presa sul volante e il tessuto del guanto nero sfregato contro la gomma lascia uscire un rumore inquietante. Vedo che rallenta ma rimane attento alla guida. «Niente domande sul mio aspetto o sul privato. Non siamo ancora amici e non risponderei a prescindere da ciò», si volta e mi sorride spiazzandomi per la bellezza che sfoggia in un solo gesto. Sulla guancia, l'accenno di una fossetta. Un bacio dato a metà da un angelo custode volato via troppo in fretta.
L'aria dentro l'abitacolo si surriscalda o forse sono io che sto andando a fuoco e chissà per quale strana ragione. In fondo, è solo un sorriso.
Non ha tutti i denti dritti. Solo quelli dell'arcata superiore lo sono. Mentre tra quelli dell'arcata inferiore due incisivi sono lievemente fuori asse. Non ha neanche le labbra sottili. Questo dettaglio non mi dispiace.
Cerco di non perdermi. Distrarmi è facile, specie adesso che sono sola con lui in uno spazio ristretto, in direzione di un posto apparentemente lontano. Però non mi è nuova questa zona piena di piccole villette a schiera. Devo esserci passata già qualche altra volta.
«Di cosa ti occupi esattamente? Non inventare che sei un ambientalista o un animalista perché la tua casa è priva di segni di questo tipo. Non sei neanche vegano o vegetariano, ho notato nella dispensa il tonno e quando hai aperto il frigo gli insaccati.»
Cambia marcia. «Sono un semplice uomo d'affari. Una comunissima persona proprio come te. Niente superpoteri nascosti. E si, sono carnivoro. Così tanto che potrei darti un morso e constatare se sei così acida come mostri di essere», si volta mostrando ancora i denti.
Piego la testa guardandolo storto. «Sei anche cannibale curioso a quanto pare.»
Inumidisce le labbra concentrandosi.
«Sei molto attenta, devo tenerlo a mente. Trovo i fondi per ristrutturare palazzi, ville e tanto altro. Mi piace anche occuparmi del sociale nel tempo libero. Ho una palestra in casa e mi alleno all'alba o quando ne ho il tempo.»
«Da quanto?»
Non capisce al volo la mia domanda.
«Da quanto lavori come uomo d'affari?»
Si irrigidisce forse sentendosi preso in contropiede. «Un paio di anni», non nasconde la sua reazione ma risponde mantenendo una certa compostezza, un certo contegno.
«E ti piace?»
«Non è poi così male», dopo avere detto ciò, fermandosi, si volta. «Come te ho dovuto adattarmi», indica la sua faccia uscendo dall'auto.
Quando lo raggiungo, mi ritrovo di nuovo davanti la villa che, oggi più che mai sembra un set da film dell'orrore.
Attorno c'è solo nebbia. Una nuvola bianca ad aleggiare ovunque.
La giornata sembra essersi capovolta nell'arco di poche ore dal mio risveglio sereno. C'era il sole, adesso è tutto grigio. Tutto cupo. Un po' come dentro di me.
Travis apre il cancello togliendo il lucchetto e la grossa catena lasciandola penzolare incurante sulla sbarra.
Lo seguo ma, anziché entrare dal portico, superiamo il giardino dove sono già stati sistemati dei picchetti con del filo per delimitare la zona e per mostrare il limite da non superare per il viale che, verrà costruito probabilmente con dei ciottoli incastrati a mosaico per permettere all'auto di sostare senza cadere in mezzo al fango e in parte anche per non calpestare il prato.
Entriamo dal garage. È quasi tutto buio e più volte ho l'istinto di aggrapparmi al suo braccio per non perdermi. Ma so di non poterlo fare perché non ho quel grado di confidenza.
Infine mi ritrovo di nuovo fuori, in una striscia di terreno morbido che non avevo ancora visto nella recente visita. La luce, dopo un paio di minuti passati a rantolare nel buio, mi acceca e sono costretta a strizzare gli occhi.
Una grande siepe nasconde il giardino. Superiamo l'arco pieno di erba tenuta in buono stato entrando in una sorta di labirinto, dove l'odore di terriccio e foglie umide è parecchio intenso, pungente.
Seguo il suo passo agile, l'odore emanato dalla sua pelle che si mescola intorno a quello tenue dei fiori.
Si ferma solo quando raggiungiamo il centro del labirinto. Qui vi è una fontana circolare piena di rampicanti e fiori di loto a galleggiare sulla superficie limpida. Sporgendomi, più che curiosa, noto piccole rane e qualche pesce a nuotare tranquillo sul fondo.
Sulla parte alta della fontana: la statua di una donna con un'anfora tra le mani. Da questa dovrebbe uscire l'acqua una volta azionato il motorino, attualmente spento.
«Non perderti.»
Mi volto e Travis sta superando uno degli archi presenti in questa circonferenza. Mi affretto a seguirlo con un forte senso di eccitazione dentro che pervade ogni poro, ogni fibra del mio corpo pian piano che lo raggiungo.
Mi sta aspettando ai piedi di un enorme arbusto pieno di foglie e rose rigogliose di quel colore particolare e unico.
Qui, l'odore non è di umido, ma di petali profumati, delicati. Di rose e dolcezza.
Mi avvicino senza fiato, incantata, fino a trovarmi a pochi centimetri di distanza da lui. Fisso incredula una delle tantissime rose, una più bella dell'altra, avanzando con le dita nella sua direzione. Mi fermo a pochi millimetri sfiorandola senza mai toccarla per paura di ferirla. Avvicinandomi a quella più bassa annuso la sua fragranza. Anche l'odore è diverso dal resto delle rose. Non è forte o fastidioso. Piuttosto è delicato, tenue.
Sono così stupita e imbambolata da non accorgermi di nient'altro. Non sento neanche un suono simile alla carta che viene tagliata in fretta da un paio di forbici.
Solo quando riprendo coscienza ritornando al presente mi accorgo che lui me ne sta porgendo una nel pieno della sua bellezza, della sua vita e quindi prossima a seccarsi, a svanire. Ogni singolo petalo è aperto, incurvato e incastrato al successivo in un gioco cromatico pieno di sfumature dal rosso scuro al nero.
«Come vedi, nessun cimitero, nessun corpo, nessuna vittima seppellita sotto le mie rose», solleva il labbro posando le forbici su un tavolo posto all'angolo dove vi sono degli attrezzi da giardino.
Annuso ancora la rosa con un sorriso. Accarezzo i petali simili ad un tessuto così delicato da farmi formicolare i polpastrelli.
Fisso ancora incredula il roseto che si dirama a cupola circondando un rettangolo pieno di boccioli e foglie intrecciate tra loro che, coprono persino il cielo.
Mi volto e lui è lì che mi osserva, che mi guarda intensamente prima di sparire con il viso attraversato da un'ombra, un pensiero che fugace si sta annidando nella sua mente tormentandolo.
Facendo attenzione a non pungermi, stringo il gambo uscendo dal suo posto preferito per non rovinarlo della sua bellezza naturale.
Adesso capisco che cosa c'è di speciale in questo posto. In qualche modo, Travis ha ritenuto che fosse necessario mostrarmelo per potere capire davvero l'importanza di un rosa e della casa.
Rischio di perdermi ma alla fine riesco ad uscire dal labirinto. Lui mi aspetta. Mi dà le spalle osservando il rudere che abbiamo davanti. Affiancandomi annuso ancora la rosa.
«È un modo per convincermi ad accettare il lavoro?»
«Pensavo di essere riuscito a convincerti già con la pizza e lo yogurt ma ho voluto tentare ancora la fortuna per esserne certo. Se non basta posso sempre tentare in altri modi.»
Scuoto la testa. «Non posso prendermi una responsabilità così grande», dico avanzando, sfiorando il muro umido e pieno di crepe. «Una casa è come un corpo. Ha un cuore, le ossa, le braccia, gli occhi. Togli una sola cosa di queste e tutto non ha più senso», parlo piano. «Un po' come le persone.»
Sento i suoi passi sulla ghiaia. «Per questo ho scelto te. Perché riesci a vedere vita laddove non c'è neanche più una luce di speranza. Questa casa non è importante quanto il ricordo che ho.»
Entra in casa lasciandomi impalata. Sentendomi stranamente a disagio da sola qui fuori immersa nel silenzio, lo seguo.
Mi piacerebbe pronunciare talmente tante di quelle parole da riempirci un oceano. Invece, rimango zitta. Me ne sto in silenzio. E tutti i pensieri, le paranoie, le parole non dette, i sorrisi nascosti, mi inondano dentro come lacrime di un temporale improvviso.
Non oso parlare. Non oso disturbarlo. Mi limito a guardarmi ancora intorno girando più volte su me stessa immaginando questo posto diverso, pieno di luce e vita.
«Io sono sicuro del lavoro che riuscirai a svolgere», continua tagliando una ragnatela per lasciarmi passare. Mi abbasso per non toccare il filo spesso e bianco.
«Ma non lo sono io», rispondo stridula. «Io non lo so se sono sicura di riuscirci.»
Ci troviamo in quella che dovrebbe essere la cucina. Non è ampia come le altre stanze ma piccola, confortevole, anche se terribilmente trascurata, vuota, piena di polvere e muffa. L'odore qui è sgradevole e lo diventa di più quando Travis mi guarda male.
«Sono sicuro che saprai rianimare questa casa riportandola alla vita. In questo momento è una vecchia carcassa, lo so», esce dalla cucina e ci troviamo tra l'entrata e il soggiorno.
Guarda il buco creato dalla mia quasi caduta. «Quello l'hai fatto tu?» chiede preoccupato.
Annuisco in imbarazzo. «Stavo indietreggiando, non pensavo che da lì a poco il mio piede sarebbe sprofondato. Le assi sono marce.»
Gratta una tempia confuso. «Mi stai dicendo che ci sarà bisogno di sostituire anche il pavimento?»
Annuisco con le braccia dietro la schiena ondeggiando lievemente. «Non solo. Oltre al pavimento ti toccherà abbattere due o tre pareti a causa dell'umidità. Dovrai smembrare e ricostruire questa casa.» Ascolta attento ogni mia parola valutando i danni. Spostando poi delle travi per convincersi, fa uscire erroneamente una famiglia di scarafaggi e ragni.
La mia reazione è immediata. Caccio un breve urlo scappando fuori dove saltello tra i brividi causati dalla mia stupida fobia.
Sento la sua risata poi i passi. Compare sul portico avvicinandosi, tenendo in mano qualcosa.
Indietreggio. «Non un passo in più», ringhio spaventata e minacciosa.
«È solo un ragnetto, guarda», apre il palmo e quel coso con le zampine gli cammina sulla mano.
Balzo indietro. «Allontanalo da me!»
Ride. «Non ti farà niente. Punto primo: per mangiarti ci metterebbe troppo tempo e direi che morirebbe per sazietà. Punto secondo: se accetterai non troverai più nessuna ragnatela», lascia andare il ragno battendo poi le mani per pulirle dai fili bianchi rimasti attaccati al tessuto del guanto.
Mi abbraccio tenendo al petto la rosa come se fosse un peluche. «Me lo prometti?»
«Ti mostri tutta forte ed equilibrata e poi urli per un insetto», scuote la testa divertito.
Lo guardo male sentendomi presa in giro. Alza subito i palmi in segno di resa. «Ok, ok. Spariranno. Farò gettare degli insetticidi intorno per allontanarli.»
Vedendomi insicura piega la testa di lato.
Tengo il labbro tra i denti guardando la casa. «Mi serviranno le piantine, sapere la posizione delle tubature. Bisognerà partire dalle fondamenta», dico con il broncio.
Il sorriso che sfoggia per poco non mi abbaglia. Avvicinandosi mi porge la mano. «Un patto è un patto», esclama. «Nessuno si tira più indietro.»
Insicura stringo la sua mano ed entrambi sgraniamo gli occhi percependo il colpo di frusta freddo che ci raggiunge nell'immediato. È come essere folgorati dopo avere toccato un cavo elettrico esposto, con le mani bagnate.
Provo a staccarmi per non destabilizzarlo ma lui fa una mossa che non mi aspetto. Mi avvicina tirandomi lievemente a sé.
Rimango spiazzata e senza fiato. Non so proprio che cosa fare. Quando il suo viso si abbassa sul mio le mie gambe tremano. Il mio corpo ha una stranissima reazione adagiato al suo. Mi sento tesa, come la corda di un violino. Il petto schiacciato dall'affanno. Il cuore imbizzarrito, pronto ad esplodere.
«Hai accettato. Mi sto fidando, non farmene pentire.»
Deglutisco a fatica osservando la curva delle sue labbra, quel taglio improvviso ad intaccargli la pelle e poi quei segni che devono avergli causato un dolore terribile.
Mi piacerebbe sfiorarli uno ad uno per potere sentire sotto i polpastrelli la consistenza. Ma non riesco a muovermi.
Percepisco il suo fiato caldo sulla pelle, il suo odore in modo permanente, in grado di appannarmi ogni senso.
Quando finalmente mi lascia andare, riprendo a respirare. «E tu non mettermi pressioni. Non te ne pentirai», replico allontanandomi di un passo sentendomi ancora avvolta dalla sensazione di stordimento che mi ha appena causato. Drizzo le spalle. Notando il suo sorriso incrocio le braccia.
«Ti senti realizzato adesso, non è vero?»
Alza il mento guardandomi soddisfatto e quasi con sfida. «In realtà si. Ma se punto in alto lo faccio solo perché so di vincere.»
«Solo perché una persona è disposta ad assecondarti non significa che puoi continuare ad approfittare della sua pazienza o peggio: della sua bontà. Non puoi neanche fare leva sui sentimenti o sulle debolezze. Perché anche se sai che non reagirà mai male, prima o poi però se ne andrà perché sarà stanca di sopportare i tuoi stupidi giochetti.»
Detto ciò, mi avvio all'auto lasciandolo di stucco.
Guardo ancora quella che tra qualche mese sarà di nuovo una casa prima di salire in auto.
Travis chiude il cancello raggiungendomi. Non parla. Non mi guarda. Accende il motore guidando lentamente facendo attenzione alla strada.
«È sempre stata tua o l'hai acquistata?» chiedo piena di domande mentre torniamo indietro.
«L'ho acquistata di recente. Non ho mai trovato nessuno qualificato quanto te. E per la cronaca, il giardino non devi neanche toccarlo», mi ammonisce usando un tono simile ad una minaccia.
«Ok capo.»
«E intendo nessuna passeggiata, nessun furto delle mie rose, niente di niente. Nessuno dovrà mai entrarci.»
«Sei geloso delle tue rose?» Mi stupisce.
Gratta il mento annuendo. «Parecchio.»
Trattengo un sorriso annusando la mia. «Se ne sei geloso perché allora questa è la seconda che mi regali? Insomma, l'hai strappata via dalle sue compagne per...»
Si ferma ad una piazzola di sosta spegnendo l'auto. Si volta appoggiando il braccio al volante. «Non è un regalo.»
«Ah no?» alzo il sopracciglio.
«Vedilo come un incentivo», ghigna.
Lo spingo. «Stronzo!» Ride. «Incentivo? Non ne ho bisogno.»
«Dici? Non te ne accorgi ma per fare qualcosa devi sempre valutare bene tutto. Non dico che sia sbagliato ma a volte fa bene commettere degli errori, lanciarsi a capofitto in qualcosa. Così, ti ho dato un incentivo. I fiori sono regali preziosi. Prima, ho notato che la mia rosa sulla tua scrivania, è ancora in salute...»
Lo fisso a bocca aperta. Ecco perché i suoi occhi continuavano a posarsi all'angolo sulla scrivania. «Perché è uno dei regali non richiesti che ho ricevuto in un momento particolare e non voglio che svanisca.»
«Per questo te ne ho affidata un'altra», sorride.
Alzo gli occhi al cielo. «Sei un vero idiota! E comunque io lo prendo come un regalo e non come un incentivo.»
Riaccende il motore dell'auto. «Vedila anche come la tua promessa.»
«E la tua?»
Ride. «Ragnatele e scarafaggi, ricordo perfettamente.»
Arriccio il naso. «Se solo ne trovo uno in giro firmo le dimissioni in seduta stante.»
Con questo clima allegro mi riporta a casa.
Questa volta non entra. Semplicemente si ferma sulla soglia dopo avermi scortata fino al portico. «Ti invierò il contratto da firmare.»
«Quando posso iniziare?»
«Ti direi anche da subito, ma so che prima devi avere tutto in ordine quindi, dopo avere firmato il contratto io toglierò le ragnatele così potrai iniziare i lavori.»
«Non dimenticare la piantina della casa e tutto il resto. Ne ho bisogno per organizzare al meglio i lavori», sorrido appoggiandomi allo stipite.
«Certo», annota qualcosa nel suo smartphone che, ormai da qualche minuto, continua a suonare.
Sembra improvvisamente sfuggente. Come se avesse dimenticato un appuntamento importante.
«Bene. Sei a casa incolume e nessuno ti ha fatto niente. Credo di potermi dileguare. Non vorrei che qualche vecchia vicina avesse un infarto nel vedermi.»
Rido forte facendo abbaiare proprio il cane della vicina più anziana. Tappo la bocca tornando seria. «Non sono insensibile», punto l'indice su di lui. «Sei tu quello che non si accorge di essere umano.»
«Ok, adesso devo proprio andare. Stammi bene, B.»
Annuisco.
Vedendolo ancora impalato e distratto, mordo il labbro riflettendoci un solo secondo durante il breve silenzio che aleggia tra di noi. Poi mi butto. Alzandomi sulle punte poso un bacio sulla sua guancia. «Passa una buona giornata, MisterX», batto le ciglia e prima ancora che lui possa replicare chiudo la porta appoggiandomi alla superficie. Alzo il viso lasciando uscire un lungo sospiro mentre continuo a sorridere incredula.
Spio dal vetro della porta e lo vedo raggiungere la sua auto. Dopo poco questa prende vita riempendo il silenzio intorno.
Guardo subito la rosa salendo in camera, dove la sistemo dentro il vaso accanto all'altra ancora nel pieno della sua bellezza e mi stendo sul letto fissando il soffitto.
Dopo un paio di minuti, controllo il telefono. Sono passate un paio di ore e trovo tanti, troppi messaggi per leggerli. Ho anche una gran fame. Così, su due piedi, videochiamo le ragazze mentre mi appresto a raggiungere la cucina.
La prima ad accettare la chiamata è Natalie.
«Tesoro, ci stavamo preoccupando. Che fine hai fatto?»
Sorrido. Quando si accorge della mia espressione da stupida si ferma. Sistema il telefono su una superficie e indietreggiando mette le mani sui fianchi. Indossa un grembiule con i pinguini vestiti da babbo natale, sotto: una maglietta leopardata e jeans aderenti.
«Deduco sia andata bene?»
Nel frattempo si unisce a noi anche Beverly, e in contemporanea Emerson.
«Cazzo! Ci hai fatte allarmare. Stavamo per contattare la squadra speciale», esclama Beverly salutando.
Raggiungo la cucina dove aperto il frigo, prendo gli ingredienti per fare un risotto.
«Sto bene. Sono appena rientrata a casa. Scusatemi, davvero. Ho perso la cognizione del tempo.»
Non riesco a smettere di sorridere. Lavo le mani. Prendo poi la zucca iniziando a tagliarla a dadini sul tagliere.
«Che cosa hai fatto?»
Emerson si sporge scrutandomi attentamente assottigliando i suoi occhi grandi. Mi guarda come una sorella sospettosa.
Soffriggo la cipolla poi aggiungo la zucca insaporendola con del sale e le spezie.
Intanto metto a bollire l'acqua per il riso.
«Sono andata a cena. Inizialmente è andato male l'incontro poi invece abbiamo in qualche modo trovato un contatto e abbiamo passato una stranissima serata tranquilla», replico concentrandomi sul pranzo.
«E? continua!» mi esorta curiosa Natalie anche lei ai fornelli. Alle prese con dei biscotti a forma di tacchino.
«E non è successo niente. A parte il fatto che mi sono addormentata sul divano della sua sala cinema e per me è stato imbarazzante», gesticolo con una paletta di legno.
«Cosa? Hai dormito da lui?» urlano tutte e tre all'unisono eccitate dalla notizia.
«Mi sono addormentata. Ero sfinita», provo a giustificarmi.
«Eh no signorina. Ti sei addormentata, ma non sei scappata prima perché quel tizio era messo bene o...»
«Non abbiamo fatto niente. Abbiamo solo parlato. Non ha dormito con me», corrugo la fronte.
«Ne sei sicura?» Beverly alza entrambe le sopracciglia alludendo a qualcosa in particolare. Muove persino le spalle.
«Si. Non era con me al risveglio. Mi ha anche preparato la colazione», sorrido assaggiando la zucca e abbassando un po' il gas. Intanto getto il riso dentro l'acqua portata ad ebollizione.
«Bambi, ci racconti quello che succede?»
A chiedere è proprio Emerson. Anche se tenta di fare la seria so che sta nascondendo il divertimento.
«Non succede niente. Sono andata a cena con un uomo, volevo tornare a casa poi mi ha convinta a restare e... ho passato una serata diversa. Questa mattina poi mi ha portata nel mio nuovo luogo di lavoro. L'ha fatto solo per convincermi ad accettare la sua proposta, tutto qua.»
Nessuna delle tre parola. «Ditemi quello che pensate.»
«Lui com'è?»
«Già, com'è?»
«È... straordinariamente originale. Niente di artefatto. È genuino. Sincero. Diretto.»
Mentre elenco contando tutto sulle dita della mano continuo a sorridere e a guardare il soffitto. «È stato attento, misurato. Non ha mai minimamente osato toccarmi.»
Adesso che ci rifletto, penso a quel momento, quello in cui mi ha avvicinata a sé. Alla sensazione che ho provato. Il mio stomaco si contorce.
«Quindi non è un vecchio porco? Che fortuna!»
Scolo il riso versandolo poi sulla padella. «No, non lo è.»
Riempio un piatto sedendomi a tavola. Come sempre ho cucinato una porzione in più, ma zia Marin non è qui con me.
«A me capitavano sempre quei maniaci anziani. Sono tornati i miei figli, adesso devo andare. Ci vediamo in web!»
«Bene, io pranzo e probabilmente dopo mi metto a studiare. Se ho tempo registrerò un nuovo video.»
«Ottimo! L'uscita con quest'uomo deve averti giovato. Mi chiamano, devo andare. Ciao», Emerson mi strizza l'occhio.
«Ti lascio al pranzo. Vado a prendere a sculacciate il mio ragazzo», Beverly ghigna eccitata.
Rido. «Buon divertimento!»
«Ciao!»
Dopo la videochiamata con le ragazze mi sento meglio.
Il telefono ronza sul ripiano quando sto per assaggiare il risotto. C'è una nuova e-mail.

"Cara B,
A causa tua stavo dimenticando un appuntamento di lavoro importante. In qualche modo la tua presenza ha accelerato il tempo attorno bloccando il mio internamente.
Sei pericolosa!
Non volevo disturbarti ma sto per andare a pranzo e spero vivamente che tu stia mangiando e riposando. Ti voglio in forze per il lavoro.
Spero inoltre che non te ne penta. Ho puntato tanto su di te.
Buon pranzo,
- MisterX
Ps: ho già inviato qualcuno a pulire la "vecchia carcassa" dalle ragnatele. Quindi preparati, si lavora! ;)".

Sto per rispondere ma qualcuno bussa alla porta. Controllo dal vetro trovando fuori Dan, che se ne sta infreddolito sulla soglia. I pugni dentro il trench nero e gli occhi a vagare ovunque.
Apro la porta e lui senza neanche attendere mi abbraccia brevemente entrando in casa. «Pensavo di non trovarti.» Toglie il cappotto appendendolo.
Prendo subito un piatto offrendogli del riso. «Oggi non ho particolari impegni.»
Ci sediamo a tavola. Di tanto in tanto mentre mangiamo noto che mi guarda. «Che c'è?»
«Non ti vedevo così serena da anni», dice spazzolando il piatto.
Bevo un sorso d'acqua. «È un bene o un male?»
«È positivo. Mi chiedo però se sia per il fatto che hai del tempo libero oppure perché qualcosa è cambiato.»
Alzandomi lo abbraccio da dietro appoggiando la guancia sulle sue spalle massaggiando i palmi sul suo petto scolpito sotto il maglione.
«Ho del tempo libero, sono sola in casa e sembra che ogni cosa stia andando per il verso giusto. Ho anche il mio amico qui con me a pranzo», gli schiocco un bacio sulla guancia. «Non mi serve nient'altro.» Preparo dei sandwich. «A proposito, come mai sei qui? Non dovresti essere al lavoro?»
«Ho lasciato da soli i ragazzi. Una volta tanto possono cavarsela anche senza di me. Zia Marin mi ha chiamato. Sembrava circospetta e sai che quando inizia ad avere strane idee per la testa diventa peggio di una pulce nell'orecchio», mi aiuta creando i sandwich alla Dan, dandomi una spinta con il fianco per farmi spostare.
«Davvero? Non mi stupisce», esclamo cacciando in bocca un pezzo di lattuga.
Abbozza un sorriso. «Mi ha detto che eri strana ieri. Che l'hai liquidata troppo in fretta.»
Ovviamente non posso prendere in giro zia Marin. Mi ha cresciuta, mi conosce.
«E ti ha inviato a controllare che fossi in casa», concludo per lui.
Annuisce imboccandomi. Mi siedo sul ripiano. Lui si avvicina e divaricandomi le gambe si sistema nel mezzo.
«E sei a casa», conferma.
Sorrido masticando piano. «Ma non sei qui solo per questo, vero?»
Nega. Tolgo un po' di salsa dal suo labbro e fissa in riflesso subito le mie. «Mi manchi», dice sincero guardandomi da sotto le ciglia.
Lo abbraccio. «Sai che puoi venire a trovarmi quando vuoi. Senza scuse.»
Si stacca scrutandomi attentamente. «Lo so. Sono preoccupato per te. Adesso che sei sola mi sento quasi in diritto di proteggerti assicurandomi che mangi, che dormi...»
Gli spingo un pezzo del sandwich in bocca per fermarlo. Spalanca gli occhi. «Che diavolo fai?» Biascica.
«Non sei mio padre ma il mio amico. E in quanto tale ti ordino di non tenermi d'occhio o sarò costretta ad arrabbiarmi e a mandarti a quel paese», provo a spingerlo ma lui si avvicina ulteriormente.
«Sai che mi piace farti incazzare!»
«Ah ah, idiota!»
Sorride schioccandomi un bacio sulla guancia. «Se non mi prendo io cura di te chi deve farlo?»
Lo abbraccio. «Sai che ti voglio bene?»
Mi sorride in modo triste sfiorandomi il naso con l'indice. «Sai che ti amo e non permetterò a nessuno di farti soffrire?»
Sgrano lievemente gli occhi. «Che cosa intendi? Perché sei qui esattamente?»
«Ti vedi con qualcuno?»
Sbuffo. «No. Ho trovato un lavoro così nessuno si prenderà la mia vergini...»
Preme le labbra sul mio collo facendo finta di volermi mordere per non farmi concludere. Rido spingendolo. Scendo poi dal bancone mettendo in ordine mentre lui mi aiuta.
«Che lavoro?»
«Ristrutturerò una casa.»
Inarca un sopracciglio. Non sembra stupito ma curioso. Lui crede nelle mie capacità perché sa quanto mi piace il lavoro che ho scelto davvero e non per bisogno.
«Da sola?»
«Devo organizzarmi. Se avrò bisogno del pranzo, quindi di rifocillarmi, ti chiamerò e correrai in mio soccorso.»
Asciuga le mani. «Contaci.»
Va in soggiorno ad accendere il camino. Toglie le scarpe mettendole all'angolo. Sedendosi sul divano accende la tv. Prendo posto accanto a lui, rannicchiandomi quando mi circonda le spalle con un braccio. «Era da tempo che non stavamo più così. Quando è stata l'ultima volta?»
Afferra la coperta ripiegata da parte sul divano sistemandocela addosso. «Non me lo ricordo quasi più. Forse prima di Nic. Lui non voleva vederci così.»
Faccio una smorfia. «Non era colpa sua se ti infilavi anche nel mio letto», rido.
Passa la mano sul viso arrossendo. «Dio, è stato imbarazzante quella volta. Non pensavo di trovarlo steso su un fianco ad osservarti. Zia Marin non mi aveva avvertito. Che stronza!»
Continuo a ridere al ricordo. «Avevo la febbre e lui voleva solo assicurarsi che stessi meglio. Mi aveva portato il mio te' preferito con i biscotti. Dormivo come un ghiro. Solo quando avete litigato mi sono svegliata trovando il caos nella mia stanza.»
«Era vecchio per te. Si comportava come un padre apprensivo. Stava sempre qui ad aggiustare tutto e ad assicurarsi che voi due ve la cavaste. Proprio come facevo io da prima.»
Lo guardo male. «Non è vero. Era sempre gentile e attento anche con te. Inoltre non mi ha mai ordinato di fare qualcosa o di smettere di essere me stessa. Mi amava tanto», abbasso gli occhi sulla coperta.
Dan mi solleva il viso per il mento. «Era un bravo ragazzo. Un po' coglione ma...» ride quando gli mollo un colpo sul petto.
Afferrandomi il polso mi tira a sé. Lo abbraccio. «Mi manca», ammetto per la prima volta ad alta voce. «Mi manca la vita che avevamo.»
Inspira. «Siamo cresciuti, ricordi?»
Mordo il labbro. «Adesso ripeti le mie frasi?»
Si rilassa sul divano tenendomi tra le braccia nascondendo il viso nell'incavo del mio collo. «Si, hai ragione. Stiamo crescendo. E io non intendo perdere più altro tempo. Quindi smettila di rifiutarmi.»
Accarezzo i suoi capelli lentamente. «Dan, Dan, Dan...»
Mi guarda intensamente. «Mi darai mai una possibilità?»
«Siamo sempre stati così, non è successo tempo prima, non succederà adesso.»
Annuisce. «Mi metterò l'anima in pace. Ma quando troverò la mia persona, tu dovrai essere gelosa ed intrufolarti nel mio letto per riequilibrare le cose.»
Rido. Abbassandosi strofina la punta del naso sul mio. «Non dimenticherai mai la vergogna provata, vero?»
Nega. «Mai, mai, mai», mormora dandomi piccoli baci sulla guancia.
«Hmm», mi stringo a lui. «È stato divertente. Lui che ti urlava contro di uscire dalla mia stanza e tu che reagivi dicendogli che non lo avevi notato. Per te era normale, per lui invece no perché ha visto che ti stavi spogliando», rido mentre mi schiaccia sotto il suo peso.
«E zia Marin che rideva a crepapelle dal soggiorno mentre tu ignara di tutto dormivi tranquillamente. È stato terribile», arriccia il naso. «Eravamo abituati a dormire insieme in intimo. Avevi la febbre e volevo abbracciarti. Ma c'era lui.»
Sollevo le ginocchia incastrandolo e mi afferra il viso. «Quindi devi assolutamente provare una simile vergogna.»
Nego. «Te la sei cavata bene», esclamo alzando le spalle.
«Bene?» mi guarda come se lo avessi deriso. «Mi ha mollato un cazzotto in faccia abbastanza forte da stordirmi. Mi ha spinto fuori dalla stanza minacciandomi rabbiosamente. E sai che diventava una furia quando qualcosa riguardava te.»
Non smetto di ridere asciugandomi le lacrime prima di abbracciarlo nascondendo il viso sul suo petto caldo. Le spalle sussultano e dalla mia bocca esce un singhiozzo.
La verità è che sono stata fragile quando se ne è andato all'improvviso lasciandomi spezzata in due. E, non ho più avuto la forza di rialzarmi. L'ho fatto solo, fingendo di stare bene, per aiutare chi mi stava ancora intorno, chi mi voleva bene, ma non ho mai più amato tanto forte, non mi sono più fidata di nessuno.
Ho ignorato tutto: i pregiudizi, i giudizi affrettati, le cattiverie, le opinioni non richieste della gente.
Ho messo da parte tutto. Ammassando ogni singolo dolore provocato dalle parole di conforto, dagli sguardi di compassione, all'angolo più nascondo e profondo del mio cuore malridotto.
Adesso mi vogliono meno stronza, più impacciata. Ma sono ancora io. Sono la timida ragazza che entra in punta di piedi nelle vite degli altri per paura di urtare erroneamente, con la sua sbadataggine qualcosa, magari un sentimento. Sono ancora io: lunatica, sulla difensiva, imbronciata. Sono io e le mie ferite nascoste. Sono io, ancora in piedi, ancora a pezzi. Sono io, sopravvissuta al dolore.
Ho imparato a vivere nel buio, a camminare verso una direzione silenziosa, piena di tristezza e solitudine, a saper distinguere in esso qualsiasi cosa, anche la più inutile sfumatura. Inizialmente non sopportavo il modo in cui riempiva ogni briciolo della mia esistenza. Ma, con il tempo ho imparato a convivere con il dolore, con il vuoto, con l'infelicità attaccata sotto pelle. Con me stessa.
«Ehi», mi solleva il viso.
Asciugo le lacrime. «Era impulsivo. Ma aveva anche un gran cuore. Anche se non riusciva ad ammetterlo ci teneva davvero anche a te. Come quella volta che ti sei cacciato in quel guaio.»
Si sdraia. Mi bacia il collo lentamente. «Si, non lo dimenticherò mai. Per questo accetterò ogni tua decisione. Perché per me siete stati una salvezza.»
«Tu sei la mia famiglia, ok? Non dimenticarlo, mai!»
«Nonostante tutto», sussurra.
«Nonostante tutto», ripeto con una forte tristezza dentro.
Il passato è come una grossa catena. La vita invece è come una corda troppo tesa, tirata allo stremo. Uno strattone da parte del destino e questa si spezza irreparabilmente.
Nella vita ho imparato tanto. Soprattutto a saper perdere. Ho imparato che le parole non dette, i desideri nascosti, gli sguardi persi, con il tempo diventano la tua forza, il tuo scudo, la tua protezione. Ho imparato che le tracce lasciate dal dolore, le lacrime perse, i sorrisi spenti, con il passare del tempo formano la tua corazza. E ti senti forte, invincibile anche se sei ormai invisibile.

♥️

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