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Ci sono momenti nella quale non è possibile bloccare il tempo. Devi vivere. Vivere rischiando. Vivere sperimentando. Ma vivere non significa sopravvivere.
Bisogna sempre aprire gli occhi e guardare i dettagli di un mondo pieno di insidie, bisogni, mancanze e rinunce.
Mi alzo di scatto dal letto. Sono sudata e affannata dopo l'incubo avuto in cui Patrick mi faceva male.
Controllo l'ora dallo schermo dell'orologio digitale posto sul comodino e infilandomi una vestaglia di seta, a piedi nudi, raggiungo la cucina.
Il freddo mi penetra nelle ossa. Saltellando e rischiando di bruciarmi le dita, accendo il fuoco riscaldandomi le mani e i piedi.
In breve, la stanza si riempie di calore.
Giro intorno al bancone aprendo la dispensa. Accendo il tostapane infilando dentro delle fette di pancarrè e il bollitore.
Controllo in frigo e recuperando un avocado e delle uova preparo la colazione.
All'angolo della cucina, ci sono ancora i fiori che zia Marin ha disposto in un vaso per rallegrare l'ambiente. Stanno appassendo ma non li toglierò perché mi faranno ricordare lei, la sua presenza in casa.
Spero vivamente che si trovi bene in quella clinica. Emerson ha già provveduto a pagarle un anno di cure in modo tale che io possa occuparmi del debito con l'ospedale.
Il pensiero mi fa attorcigliare lo stomaco. Non so proprio come fare. Posso pagare un anticipo ma non tutta la somma.
Ho solo un mese di tempo prima che qualcuno inizi a pignorare qualcosa. Spero che zia Marin non abbia firmato niente senza prima avere letto per bene anche le clausole. E spero di non essere sfrattata.
Le fette di pancarrè saltano fuori leggermente dorate e croccanti al punto giusto, come piacciono a me. Il profumo invade la cucina.
Le prendo, bruciandomi i polpastrelli, disponendole su un piatto.
Trito l'avocado con olio e pepe spalmandolo sulle fette di pane e sopra dispongo l'uovo prima di chiudere il panino e tagliarlo in due lasciando scivolare come lava il tuorlo.
Salgo in camera con il piatto e una tazza fumante di caffè in mano.
Accendo il portatile e sedendomi comoda alla scrivania, controllo gli annunci di lavoro in ambito pubblicitario.
Ho iniziato come fotografa la mia piccola carriera. Prima ancora ho fatto parecchi lavori. Mi sono dovuta adattare. Sono cresciuta in fretta senza mai allontanarmi troppo da me stessa, trovando sempre un modo per divertirmi.
Lavorare non mi spaventa. Ho solo paura di non avere un futuro roseo. Per questa ragione. Preferisco non pensare al domani vivendo quest'oggi che ho davanti agli occhi senza rimpianti.
Accetto un lavoro di grafica creando subito una locandina per una rock band che si esibirà in un locale in centro il prossimo mese e dei biglietti di compleanno per una ragazza prossima ai suoi sedici anni.
Nel frattempo mangio e tra una modifica e l'altra, avvolta dalla musica classica, controllo anche le e-mail aggiornando i social e aggiungendo una nuova foto sul blog, rispondendo anche a qualche complimento lasciato dai nuovi visitatori del sito.
Finisco di fare colazione in totale tranquillità e senza fretta.
Dalla finestra penetra lieve uno spiraglio di luce che mi spinge ad avvicinarmi ammirando l'alba di una giornata tranquilla.
Porto il piatto in cucina lasciandolo sul lavello e tornando in camera recupero il beauty-case concedendomi un lungo bagno rilassante al gusto di cocco e olio di argan.
Sono sul punto di addormentarmi quando sento il mio telefono squillare.
Esco dalla vasca rischiando di scivolare sulle piastrelle lisce.
Avvolta malamente da un asciugamano corro in camera. Quando arrivo davanti alla scrivania, lo schermo si sta spegnendo. Questo solo per pochi secondi, visto che torna a vibrare rumorosamente sulla superficie andando a cozzare contro il raccoglitore.
Riconosco il numero. Non è la prima chiamata che arriva.
Ieri, quasi subito dopo il colloquio ne è arrivata una ma non ho risposto. Così com'è successo anche ieri sera.
Dopo solo poche ore, sta tornando all'attacco. Non so se rispondere e arrabbiarmi, rovinando così questa giornata partita proficuamente, oppure ignorarlo e procedere con il mio rituale di bellezza rilassandomi ancora, prima di tornare nel mondo degli adulti, dandomi da fare per scegliere bene a chi regalare la mia purezza.
Mordo il labbro. Sto avanzando l'idea di rinunciare. Continuare con i video e rischiare di fallire miseramente.
Il telefono torna a ronzare per la terza volta con insistenza.
Non demorde. Continuerà a chiamare più di ieri. Lo so.
Sospiro. Il dito tra i due tasti. Come se davanti a me avessi una bomba con un conto alla rovescia breve. Il tasto verde farà esplodere tutto, quello rosso mi salverà per qualche altro minuto.
Abbasso la testa, la scrollo. Al diavolo!
«Pronto?»
«Pronto? È così che si risponde dopo circa dieci chiamate senza risposta?»
Mi siedo sul bordo del letto. «Le hai anche contate. Che cosa vuoi? Mi sembra di essere stata chiara con la tua amica Nan ieri», dico acida. «Se non rispondo è perché non voglio avere a che fare con te.»
«Non mi arrendo facilmente. Non dovresti farlo neanche tu», esclama con un tono tra il divertito e il rilassato. Non sembra neanche ascoltare le mie parole o accettare il mio rifiuto. È come se per lui niente fosse cambiato.
Mi sdraio fissando il tetto dove si trova qualche macchia scura a causa delle infiltrazioni.
Dovevamo fare riparare le assi e le travi ma non ne abbiamo mai avuto il tempo. Non ho neanche avuto l'occasione di ridipingere le pareti, rendendo più accogliente la mia stanza.
«Hai finito di fare la paternale? So per cosa vale la pena lottare. Adesso basta, ti auguro una buona giornata. Io torno alla mia, che per inciso stava andando piuttosto bene prima della tua chiamata», alzo il tono.
«Non vuoi sapere il perché di queste chiamate?» Torna all'attacco.
Ci rifletto. «No».
Sospira. «Siamo partiti con il piede sbagliato io e te. Ti ho chiamato per capire la ragione del tuo rifiuto alla mia proposta di lavoro», dice esasperato. «Cosa non andava di preciso? Hai già avuto a che fare con case da ristrutturare, in fondo stai studiando per questo, sai come agire, come lavorare per riportare tutto in piedi.»
Mi alzo dal letto. «Non c'è una ragione. Non mi è piaciuto il fatto che tu abbia mandato la tua domestica a farmi da cicerone, ad illustrarmi i lavori che vorresti affidarmi», spiego camminando avanti e indietro. «Non hai avuto il coraggio di affrontarmi! Questo la dice lunga su di te», faccio una smorfia. «Adesso non ho tempo di arrabbiarmi. Devo andare. Buona giornata», riaggancio senza neanche dargli la possibilità di replicare.
Metto in ordine la camera e vestendomi esco per raggiungere l'università.
Il tempo fuori, nonostante il freddo, ci regala una splendida giornata di sole. Una nella quale potere approfittare per fare una passeggiata, una corsa, un giro in centro senza fretta.
Seguo svogliatamente le lezioni, impedendo alla mia mente di ripercorrere gli ultimi giorni appena trascorsi.
Sono stati davvero intensi, stressanti, pieni.
Lasciare andare zia Marin su quel taxi con al suo fianco quel medico ieri sera, è stato un po' traumatico. Come essere abbandonati per la terza volta.
Ma so che starà bene. Lei deve stare bene.
E spero che ogni mio sacrifico alla fine non sia vano. Le voglio troppo bene per vederla svanire. E non sono pronta a lasciarla andare. È preziosa la sua presenza nella mia vita.
Poi, ho dovuto tenere a freno i sentimenti che Dan spesso mostra quando mi sente distante o quando inizia ad essere geloso. E per ultimo, non per ordine di importanza, ho dovuto prendere parte ad uno scherzo di cattivo gusto da parte di uno stronzo che non ha neanche avuto il coraggio di guardarmi in faccia e ridere.
Lo avrei preferito alla sua assenza dentro quel rudere.
Mi sono sentita così ridicola da reagire come una bambina. Non ho mai commesso errori del genere. Non mi sono mai comportata tanto impulsivamente e solo per una persona assente, senza scuse.
Insomma, non lo conosco neanche. Non l'ho mai visto. Non può avere un così forte impatto su di me. Non può destabilizzarmi così tanto da modificare i miei atteggiamenti.
Il telefono si illumina segnando una e-mail in arrivo.
Sblocco lo schermo cliccando sull'icona della busta leggendo il messaggio.
"Cara B,
Non capisco questo tuo atteggiamento distaccato. Il tuo silenzio. Il tuo rifiuto alle mie chiamate. Non comprendo le tue parole cariche di disprezzo ed odio nei miei confronti. Non credo di avere sbagliato qualcosa e non ho commesso alcun crimine.
Come ho già detto, siamo partiti con il piede sbagliato deragliando verso un'altra direzione.
Cosa posso fare per farti cambiare idea?
In attesa di risposta,
- MisterX".
Leggo e rileggo il messaggio. La voce del professore mi riporta a lezione e nascondendo il telefono dentro la tasca per non avere tentazioni, mi concentro.
Terminata la lezione, mi fermo a prendere un bagel e un bicchiere di caffè amaro con una spruzzata di cannella dal mio furgoncino preferito.
Mi siedo su una panchina simile ad un blocco di marmo, mangiando, osservando la struttura davanti e quelle a circondarmi in questo spazio che sembra restringersi di colpo. I ragazzi che camminano in gruppo. Dei vecchietti impegnati in una visita guidata verso il museo più vicino.
Deglutisco a fatica quando sento ronzare il telefono. Controllando mi accorgo del numero che appare sullo schermo.
Sbuffo. «Vuoi davvero continuare a pendermi in giro?»
«Ancora con questa storia? Ho notato che hai salvato il mio numero. Non hai risposto con: "pronto". Questo mi fa ben sperare.»
«Si, ho salvato il tuo numero con l'unico nome che mi è venuto in mente e cioè: stronzo!»
Ride. «Puoi fare di meglio, lo so», mi stuzzica.
«Fai sul serio?»
«È circa la terza volta che ti chiamo oltre all'e-mail alla quale non hai risposto. Non è una dimostrazione anche questa? Non ti basta per capire che non voglio prenderti in giro in alcun modo? Non voglio neanche disturbarti o torturarti. E, ammetto di non essermi mai fatto tanti problemi a lasciar perdere».
Bevo un sorso di caffè. Faccio una smorfia. In questo momento è tutto amaro. «Che cosa te lo impedisce?»
«Tu».
Corrugo la fronte alzandomi. «Non è una risposta», getto la carta e il bicchiere vuoto.
«Sei permalosa oggi. Come mai?»
«Lo sono sempre», brontolo incamminandomi verso la metro.
Il cielo adesso grigio, non minaccia pioggia, quindi me la prendo comoda, soprattutto perché ho un anticipo di circa un'ora. Sono uscita prima da lezione perché il professore ha avuto un impegno dell'ultimo minuto non presentandosi. Ciò mi ha fatto pensare a lui, alla persona con cui sto parlando.
«No, c'è qualcosa nel tuo tono».
Mordo forte il labbro fermandomi davanti uno dei negozi di intimo che, hanno già iniziato a sbizzarrirsi con gli addobbi natalizi.
«Sono rimasta sola in casa e sono solo in pensiero per zia Marin. Si trova a distanza, in una clinica in cui lei sarà un esperimento. Inizio a chiedermi se sarà davvero la cosa giusta per lei. Tutto qua», dico superando un gruppo di turisti incuriositi da un tabellone pubblicitario.
«E poi?»
«Poi cosa?» chiedo fermandomi in attesa che scatti il verde per i pedoni. Guardo a destra poi a sinistra finché non alzo la testa dando uno sguardo al cielo che si intravede tra due grattacieli e palazzi a fargli da cornice.
«C'è dell'altro, sputa il rospo!»
«Non c'è nient'altro», evito di parlare di Dan. Il mio amico deve starne fuori.
«Puoi prendere in giro chi vuoi ma non me. C'è qualcosa che ti preoccupa. Non è per tua zia. Non è neanche per il lavoro. Lo sento dalla tua voce.»
Prendo fiato. Come fa a capirmi?
«Hai finito?» superate le strisce scendo in metro. Sorpasso un paio di persone ferme usando l'abbonamento. Mi affretto a scendere ancora fino a fermarmi appoggiandomi alla colonna, infilando le cuffie.
«No, non ho neanche iniziato», replica usando un tono rude. Si sta spazientendo. Come biasimarlo?
Sbuffo. «Devo riagganciare. Sono sul treno», rispondo vedendolo arrivare. Quando le porte si aprono, entro e mi siedo nell'unico posto libero che trovo in fondo al vagone.
«E non puoi parlare ancora un po' con me?» adesso sembra tanto offeso.
«Fammi pensare...» prendo giusto pochi secondi di tempo per tenerlo sulle spine. «No, non posso. Sei sempre lo stronzo che non si è presentato ad un colloquio di lavoro mandandomi in una casa attempata che, per inciso mette i brividi. Ad ogni modo sono persino cascata dentro il pavimento e avevo il terrore dei ragni. Quindi no, non mi va di parlare ancora con te perché non sei sincero con me. Perché non ti sei presentato. Perché mi sento presa in giro e perché non posso continuare in questo modo. Non hai altri impegni? Io si, la mia vita ne è piena, quindi adesso riaggancio. Buona giornata Trav», premo il tasto rosso e infilando il telefono dentro la tasca ascolto un po' di musica godendomi il viaggio di ritorno verso casa.
Sto per entrare in casa quando la musica si abbassa e ricevo una chiamata. Senza controllare rispondo, aspetto ancora notizie da zia Marin per sapere come la trattano e come si trova.
«Ti piace proprio riagganciare e scappare, vero? Per rispondere alla tua domanda: oggi non ho molti impegni perché ho accelerato i tempi e quindi ho concluso un affare di un mese di trattative in sole due settimane.»
Alzo gli occhi al cielo togliendomi il cappotto. Modesto il ragazzo.
«Stai diventando fastidioso», ammetto. «Tanto.»
Ride. Ancora una volta questo mi colpisce. Il suo essere genuino mai artefatto o il solito ragazzo pronto a dire qualcosa di melenso pur di conquistare una ragazza mi stuzzica, mi piace.
«In realtà volevo solo chiederti di venire a cena».
Rimango spiazzata. Questa non me l'aspettavo di certo. «Tu... vuoi invitarmi a cena?»
«Si. Voglio dimostrarti di non essere, com'è che hai detto a Nan? Ah, un signore fantasma. Non lo sono ma ho avuto un imprevisto. Adesso sto cercando di rimediare quindi non renderlo così tanto difficile o drammatico.»
Prendo un respiro lungo incassando le sue parole, salendo in camera. Aperto il portatile mi collego sul sito.
«È un altro dei tuoi scherzi. Non ci casco».
Sento dei rumori in sottofondo dall'altra parte della cornetta. «Mi chiederai scusa di presenza», mi provoca.
Corrugo la fronte guardando lo schermo come se mi avesse appena derisa. «Io? Forse non hai capito che quello a dovere chiedere scusa, sei proprio tu. Mi hai mandata in un posto pericoloso, facendomi accogliere dai coniugi dell'orrore. Non potevi semplicemente inviarmi le foto e chiedermi di realizzare un progetto?»
«No, dovevi vedere il posto e decidere di lavorare per rimettere in sesto la villa perché ne vale la pena. Accetta il mio invito, che hai da perdere?»
Questa sua domanda mi porta a riflettere. Mordo l'interno guancia. «Non capisco se ci sei o ci fai».
Sorride. Lo sento. «Accetti sì o no?» freme.
Seduta sulla sedia girevole oscillo lievemente. «Posso fidarmi, si o no?»
Sospira. «Il mio autista, Mitch Lester, lo conosci già, verrà a prenderti alle sette e mezzo in punto», riaggancia.
Fisso lo schermo del telefono imbambolata e stupita. Mi ha appena riagganciato in faccia, che stronzo!
Presa alla sprovvista dall'evento inatteso, mi alzo di scatto dalla sedia facendola cadere a terra.
Sono nel panico. Non ho avuto la possibilità di rifiutare perché in fondo non volevo dire di no. La mia curiosità mi ha sempre spinta a scavalcare limiti su limiti. Lui è quel limite che attualmente non riesco a superare. Mi destabilizza spingendomi ad agire impulsivamente.
Mordo il labbro e presa dal panico crescente cerco conforto inviando un messaggio nel gruppo chiamato "gliangelidelpeccato" su Whatsapp.
Bambi: "SOS ragazze!
Mi hanno appena invitata a cena e non so assolutamente cosa mettere. In realtà non so neanche se andare. Consigli?"
Attendo solo pochi secondi prima di ricevere una risposta.
Beverly: "Guai in vista?"
Natalie: "Appuntamento di che tipo?"
Bambi: "A quanto pare si, sono nei guai. E, sono anche nel panico. Non vado ad una cena da tempo."
Emerson: "Ci vediamo per un aperitivo? Credo tu ne abbia bisogno."
Bambi: "Ci sto! Ho bisogno di una boccata d'aria."
Emerson: "Arriviamo subito!"
Attendo circa un quarto d'ora prima di vedere ferma per strada un'auto bianca vistosa. Il finestrino si abbassa e da questo sbuca la capigliatura vaporosa e indomabile di Beverly.
Sorride radiosa facendomi cenno di sbrigarmi ad entrare, a raggiungerle.
Natalie, al contrario apre la portiera accogliendomi con un ampio sorriso.
Vista da vicino è parecchio alta e robusta. Davvero giunonica. I suoi capelli corvini le coprono le spalle in morbidissime onde dai riflessi blu. Indossa una giacca grigia. Un tubino nero scollato sul davanti e stivali alti.
Emerson guida l'auto mentre Beverly si volta quando salgo mettendomi comoda sul sedile. Lei indossa una giacca leopardata apparentemente morbida, un tubino aderente, direi quasi striminzito.
«Sei davvero bella», conferma Natalie.
Mi guardo: indosso un cappotto color caramello, jeans e un maglione a tenermi al caldo, visto che sento sempre freddo. Mi sento anonima.
«Anche voi non siete da meno», abbozzo un sorriso timido. «Scusatemi se vi ho disturbate. Come vi ho anticipato è da tempo che non mi invitano a cena».
«Dovevo uscire da quella stanza. Lo studio mi stava uccidendo!» replica Beverly. «Per non parlare del mio ragazzo», sbuffa.
«Hai intenzione di comprare qualcosa di intimo o ti servono solo consigli?» chiede al contrario in modo pratico Emerson.
«Niente intimo. È per un colloquio di lavoro andato male. Vuole rimediare invitandomi a cena».
Beverly ancora una volta si gira ma questa lo fa di scatto. I suoi occhi felini mi si puntano addosso come una freccia scoccata prendendo bene la mira. «Fammi capire... hai accettato un invito a cena da uno che...»
Mi affretto a spiegare: «No. Insomma c'è questo ragazzo barra uomo che intende offrirmi un lavoro ma oggi al colloquio, in una casa da ristrutturare da cima a fondo, non si è presentato mandando la domestica e il marito e per questa ragione, visto che ho reagito un tantino male, e forse sentendosi in colpa, vuole scusarsi, anche se non ha usato questo termine», parlo in fretta.
Natalie sorride spingendomi. «E hai mai visto questo datore di lavoro?»
Nego abbassando gli occhi sulle mani in grembo. «Ci siamo solo scambiati qualche e-mail. Mi ha trascinata in un posto dove fanno lo yogurt più buono del mondo e poi mi ha inviato a casa la colazione e una rosa. Dite che devo preoccuparmi se ancora non si è fatto vedere?»
Emerson posteggia nell'area apposita del centro commerciale. C'è un gran via vai di auto e gente. Una confusione che non mi dispiace in un momento come questo. Ho bisogno di circondarmi di persone.
Scendiamo dall'auto e mi raggiungono creando una sorta di barriera tra me e il resto del mondo.
«Che impressione ti ha dato questo tizio?» chiede attenta. Tre le tre sembra quella più guardinga e misurata. Forse lo è a causa del suo lavoro.
«Non sembra volermi fare del male ma è un tantino sospetto il fatto che non si sia ancora fatto vedere. Sentite, ho solo bisogno di qualcosa da mettere che non sia un jeans strappato o una camicia. Non farò niente con lui. Porterò dietro lo spray al peperoncino».
Ridono. Beverly circondandomi le spalle con un braccio mi incita a camminare. «Sei davvero ingenua. I maschi sanno quello che vogliono e se questo tizio ti ha invitata a cena significa solo una cosa...» fa un gesto allusivo con le mani.
Mi fermo spalancando la bocca. «Cosa? No! Dite che devo rifiutare inventando una scusa?»
«Non necessariamente. Ma se ti mette le mani addosso o noti che è un vecchio maniaco, scappa!» risponde Natalie, quella più protettiva del gruppo. «Personalmente non mi farei neanche abbindolare da un bel faccino. Quasi sempre sono i peggiori. Pur non avendone diritto mettono le mani ovunque.»
«Starò attenta.»
Passiamo circa due ore a perlustrare vari negozi e ad aspettare Emerson e Beverly nella loro fase da shopping compulsivo. Alla fine, usciamo con così tante buste da non avere spazio sul sedile anteriore.
Dopo il centro commerciale, ci fermiamo in un locale esclusivo per bere qualcosa.
Emerson insiste per offrirci un aperitivo che, diventa più una sbronza tra amiche, seppur analcolica.
«È stato rigenerante.» Natalie controlla il suo telefono appuntando qualcosa mentalmente. Alzandosi avvia una chiamata. «Adesso devo andare a prendere i bambini. La piccola è a danza mentre il maschio è a scuola calcio», fa una smorfia. «Quell'idiota del padre non sa fare niente da solo senza di me», sorride con dolcezza. «Sto arrivando!» esclama al telefono.
Mi abbraccia. «Non avere paura», mi accarezza la schiena con le sue mani piccole e gonfie.
«Ciao, ci vediamo in web», sorride alle altre.
«Sei pronta?» chiede Beverly avvicinandosi e guardandomi con i suoi occhi grandi.
Forse ha capito che inizio a sentirmi nervosa. In parte non dovrei neanche esserlo, ho affrontato cose ben peggiori.
«No. Non lo sarò mai», alzo le spalle ammettendo a me stessa di avere un attimo di esitazione.
Emerson, rimasta zitta per un po', finalmente mi rivolge uno sguardo alzando gli occhi dallo schermo. «Non devi fare niente», dice con fermezza bevendo un sorso del suo Martini.
Accanto a noi passa il cameriere. Lei lo segue con malizia infilando in bocca l'oliva. Il poveretto per poco non combina un pasticcio.
Bevo un sorso del cocktail che mi sta porgendo Beverly, nel tentativo di aiutarmi. «E se ho una brutta reazione o se combino qualche guaio?»
Si scambiano un'occhiata. «Ti stai preoccupando delle tue reazioni?»
Annuisco. «Sono molto impulsiva. Non sempre riesco a trattenermi».
Sorridono. «Meglio. C'è bisogno di forza a questo mondo e più maschi sottomessi.»
Ridiamo.
Quando mi ritrovo da sola e di nuovo a casa, faccio un bagno veloce poi scelgo cosa indossare per la cena con MisterX.
Alla fine opto per qualcosa di semplice: pantaloni a vita alta, un top con il pizzo e una giacca in stile Chanel sopra. Scelgo anche delle scarpe comode, niente più tacchi al momento.
Lascio i capelli sciolti in morbide onde truccandomi leggermente con del mascara, un po' di fard e del rossetto nude.
Durante l'attesa, mi siedo davanti il camino valutando i pro e i contro.
Da una parte so di dovere fare attenzione. Non è un gioco. Ho venduto la mia anima al diavolo e adesso credo sia giunto il momento del riscatto. Ma, c'è anche una parte di me che intende fare nuove esperienze.
Il telefono squilla. Controllo e mi rilasso.
«Bambi, tesoro.»
Sorrido sentendo la voce di zia Marin serena. «Allora, come ti trovi?»
«Non ci crederai ma qui mi servono e mi trattano come una regina.»
«Ne sono felice. Hai assaggiato il budino?»
Emette un verso di disgusto. Ha sempre odiato quella massa morbida e viscida, a suo dire.
Rido. «Come stai?»
«Ho appena iniziato con la cura, chiedimelo tra qualche settimana», sospira. «Tu come stai?»
«Me la cavo», mi guardo intorno stringendomi nelle spalle.
«Non ne ho alcun dubbio. Che programmi hai per questa sera? Dan finalmente si è deciso?»
Alzo gli occhi al cielo. «No, farò le solite cose. Ho del lavoro da finire e dovrei anche mettermi a studiare per il prossimo esame.»
Sbuffa rumorosamente. «Sei sempre stata una guastafeste. Esci e va a divertirti. Soprattutto dà a quel ragazzo l'occasione di renderti felice.»
Mordo la guancia tenendo per me la notizia che sto per incontrare qualcuno. «Adesso devo andare», mi affretto raggiungendo la porta notando un'auto fermarsi davanti il cancello.
Mitch esce aprendo la portiera rimanendo in attesa.
«Richiamo domani per sapere se hai cambiato programma.»
«Va bene, a domani.»
«Ti voglio bene.»
«Anch'io te ne voglio.»
Apro la porta camminando come un robot. Saluto Mitch salendo in auto. Trovandomi sul sedile anteriore, mi sale addosso una forte ansia che, lascio andare mano a mano che i chilometri iniziano ad aumentare dandomi la forza necessaria per continuare con questa follia.
Ci troviamo in una zona facoltosa di Manhattan. Una serie di ville meravigliose, gran parte illuminate dalle prime luci a rendere la serata carica di emozioni.
«Com'è?» chiedo prendendo parola sporgendomi dal sedile.
Mitch mi guarda dallo specchietto retrovisore. «Una brava persona signorina Stevens», mi sorride.
«Da quanto lavora per lui?»
«Da anni ormai. L'ho visto crescere e diventare un uomo come pochi.»
Vedo spuntare sul suo viso pieno di piccole rughe l'accenno di un sorriso. È orgoglio quello che vedo nei suoi occhi attenti alla strada, alle auto e alla segnaletica.
«Quindi posso fidarmi?»
Annuisce. «Ad occhi chiusi.»
Ricambio il sorriso. «Scusi se l'ho disturbata. So che non dovrebbe parlare mentre guida ma apprezzo la sua sincerità.»
«Si figuri signorina Stevens.»
«Chiamami pure Bambi.»
Grazie alla conversazione con Mitch, mi lascio distrarre dall'atmosfera, dalla bellezza che mi circonda, fino a quando non ci fermiamo nel seminterrato di un palazzo pieno di auto costose e principalmente da persone snob, piene di soldi e ricchezze.
Mitch mi accompagna all'ascensore. Non sale con me. Semplicemente preme un tasto sul riquadro elettronico e, prima che le porte si chiudano mi fa un cenno di saluto.
Lo stomaco si strizza e l'ansia diventa come una fitta nebbia dentro la mia testa man mano che mi avvicino al piano.
Sono così distratta da sobbalzare quando sento il trillo dell'ascensore cogliermi di sorpresa.
Le porte si aprono e mi ritrovo in un corridoio dove vi è una sola porta presente al centro di una parete dallo stile barocco di un rosso cupo con rifiniture delicate color oro.
Drizzo le spalle e, prima ancora che io possa bussare, la porta si apre.
Ritrovo davanti Nan. Mi sorride lasciandomi passare mettendosi subito da parte.
«Buona sera», saluta cordialmente.
«Salve.»
Le lascio il mio cappotto e la borsa prendendo solo il telefono perché potrebbero sempre chiamare dalla clinica per zia Marin e mi guardo stordita attorno sentendomi strana.
«È sempre più inquietante», dico ad alta voce osservando un quadro in stile moderno alquanto singolare attaccato alla parete. Pende da una parte all'altra per qualche metro.
Nan non capisce. «Come ha detto?»
«Dammi pure del tu. Chiamami Bambi.»
«Il signore la sta... ti sta aspettando nel suo ufficio», mi indica la direzione allontanandosi con il suo tipico passo seguito dal ticchettio dei tacchi bassi che indossa.
L'entrata non è poi così piccola, ma particolare, bene arredata come l'enorme soggiorno che si affaccia dall'alto mostrando l'immagine della città nel suo splendore grazie alla grande vetrata.
Evito di imbambolarmi o curiosare troppo invadendo la privacy di un uomo ancora a me ignoto, avvicinandomi alla porta accanto all'enorme scala a chiocciola.
Mordo il labbro prima di bussare una sola volta con vigore.
«Avanti.»
Ok, ci siamo. Mi dico dandomi una spinta, evitando di pensare al fatto che non siamo in un ristorante ma nel suo appartamento. Prendo un respiro dietro l'altro e poi entro ritrovandomi in un piccolo studio.
Il tappeto enorme sotto le suole pieno di disegni intricati dai toni accesi che variano dal rosso al nero al marrone al bianco. Una scrivania davanti a me, un legno scuro lucido, due divani davanti e una poltrona girevole vuota dietro a questa.
Deglutisco rimanendo impalata sulla soglia. Vago con gli occhi abituandomi alla fioca luce proveniente dalla lampada posta su un mobile di legno scuro.
Davanti una finestra, una figura si erge nascosta nella penombra. È alta, slanciata. Sembra quasi una statua messa appositamente in quella posizione per spaventare i meno temerari. Solo quando si muove capisco che è lui.
«Ti ho sottovalutata. Ammetto che non pensavo che avresti avuto il coraggio di accettare l'invito», dice bevendo qualcosa. «Notevole!»
Non riesco ancora a vedere il suo viso. «Ero tentata», ammetto.
«Che cosa ti ha fatto cambiare idea?»
«Tu.»
Percepisco il suo sorriso e provo in modo intenso quella sensazione che si deposita dentro lo stomaco. Non è come quando l'ho sentita standomene dietro una cornetta. Arriva con una certa potenza nel cuore diffondendomi sulla pelle un calore piacevole.
«Non è una risposta», ripete le mie stesse parole.
«In realtà ero solo curiosa. Mi piace mandare a quel paese le persone guardandole direttamente in faccia».
Posa il bicchiere su un vassoio d'argento. «Non hai paura?»
Nego. «No. Dovrei? Poi perché mi parli così a distanza? Non ho una malattia, non sono contagiosa!»
Emette una breve risata troncata da un colpetto finto di tosse.
«Se lo faccio, se mi avvicino, scappi nel giro di pochi secondi. Ecco perché non mi sono presentato al colloquio. Ecco perché ti ho permesso di raggiungere la mia casa. È anche un modo per farti capire che mi sto fidando. Che non ho un doppio fine e che in parte, sei tu che stai invadendo il mio spazio».
Mi sento confusa. «Sono arrivata fino a qui. Adesso almeno abbi il coraggio di mostrarmi chi sei. Non me la prendo se sei un vecchio».
«Siediti», dice con un tono basso. Una nota di preoccupazione esce fuori aleggiando nell'aria lievemente carica di tensione che si innalza ad ogni mio battito o respiro a mescolarsi con il suo.
Non capisco perché dovrei sedermi. Sto bene anche in piedi. «Perché?»
«Ne avrai bisogno. Siediti. Ciò che sto per mostrarti ti destabilizzerà», dice perentorio. «Siediti», ripete.
Mordo il labbro. «Sono più vicina alla porta. Posso sempre scappare. Allora, vuoi continuare a nasconderti o ti presenti come si deve?» lo stuzzico.
Spegne la lampada e rimaniamo al buio, con la sola luce fioca proveniente dalla finestra.
Mi irrigidisco rimanendo impalata. Non so che cosa aspettarmi. Spero solo di non essere vittima di uno scherzo.
Sento una folata di vento vicina, un movimento, il suo profumo intenso. Chiudo le palpebre e quando le apro a rilento, nel medesimo istante si accende la luce.
I miei occhi impiegano pochi minuti ad adattarsi. Accanto a me non c'è nessuno.
Scorgo un movimento. Quando guardo davanti a me rimango spiazzata, paralizzata. Ed è proprio in questo momento che la mia mente arretra di un passo dal mondo in cui ho sempre vissuto pieno di cose belle e accettabili, facendomi precipitare in una realtà cruda e insostenibile.
Non provo né angoscia né paura. Nessuna sensazione di orrore o disgusto. Solo un opprimente senso di tristezza che mi investe pervadendo ogni fibra del mio corpo raggelandomi.
♥️
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