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48


Un anno e mezzo dopo...

L'aria fresca e penetrante dell'inverno, si insinua sotto la fessura della porta provocando in casa una sorta di ululato raccapricciante.
Continuo a rigirarmi nel letto, sul materasso nuovo, sotto il morbido piumone azzurro carta da zucchero a tenermi al caldo.
Eppure non riesco proprio a dormire. Non è la prima volta da quando mi sono trasferita qui dentro. Non dovrebbe essere poi così tanto difficile adattarmi, visto che questa è stata la mia casa dai quindici anni in su.
Purtroppo, è come se in qualche modo il mio corpo, persino la mia mente rifiutassero di stare qui dentro, in una casa che in parte non sento più mia. Neanche l'odore di nuovo mi piace. È tutto come doveva essere ma non è esattamente quello che voglio.
Ma ho lasciato il piccolo appartamento solo qualche settimana fa e non posso di certo tornare indietro.
La proprietaria non era poi così contenta, visto i soldi che incassava mensilmente e puntualmente senza mai dovere bussare alla mia porta, ma adesso non dovrò pagare l'affitto e riuscirò a mettere qualcosa da parte per i miei viaggi. Quelli che ho organizzato ormai da parecchio tempo. Lo zaino, infatti, è pronto ma non il mio coraggio. Quello mi manca ormai da mesi.
Sospiro alzandomi per sgranchirmi un po'. Scosto la coperta è più in fretta che posso scendo dal letto camminando avanti e indietro dentro questa stanza che è la bella ricreazione della mia. Un po' più organizzata e illuminata, un po' meno spenta e anonima.
Faccio una smorfia. È come se mi sentissi a disagio. Come se non meritassi di stare qui dentro. C'è troppa ricchezza di dettagli mentre prima era tutto più semplice, disorganizzato. Persino i mobili erano diversi l'uno dall'altro eppure potevo chiamarla ancora casa. Forse perché questa non sa di luogo vissuto.
Guardo l'ora dall'orologio sul comodino e non manca poi così tanto all'alba.
Apro l'anta scorrevole dell'armadio che ho fatto costruire a parete per avere più spazio e indosso un paio di jeans, un maglione nero e calzini pesanti.
Scesa al piano di sotto raggiungo l'entrata mettendo il cappotto e un berretto. Con la borsa a tracolla esco di casa con l'idea di prendere la colazione e andarla a mangiare al parco, seduta comodamente sulla mia panchina preferita.
Le strade sono ancora silenziose e ingrigite dal tempo minaccioso. Persino Times Square a quest'ora sembra addormentata. I pezzi di un giornale quasi sciolto dentro una pozzanghera svolazzano lievemente sospinti dal venticello freddo. Fa quasi impressione l'atmosfera che si respira e che vedo proseguendo verso il mio posto tranquillo.
L'alba è proprio uno dei miei momenti preferiti, un po' come il tramonto, quando tutto si spegne e puoi staccare la spina per un attimo semplicemente dormendo.
Questo solo quando ci riesci.
Mi fermo a prendere un croissant e un bicchiere di cioccolata calda con un pizzico di caffè per svegliarmi da un ambulante fermo vicino all'entrata del parco. Ormai lo conosco ed è piacevole scambiare con il ragazzo quattro chiacchiere quando per tutto il tempo durante la settimana non ho fatto altro che starmene zitta, a parlare con me stessa.
«Un po' presto per venire al parco, come mai sei già qui oggi?» Mi fa notare dandomi il solito, visto che ormai sa i miei gusti.
«Non riuscivo ad aspettare», sorrido infilando la banconota dentro il barattolo.
Guardando verso l'angolo della strada, noto il solito clochard steso sotto lo strato di coperte, su un materasso sottile che ormai da tempo dovrebbe essere sostituito.
«Il solito anche per lui.»
Wally il ragazzo dai capelli ricci che ho davanti tutte le mattine, annuisce incartando l'ordinazione. «Rimani un momento qui, così puoi vedere che accetta sempre la tua colazione e che io non ti frego i soldi.»
Rimango ad osservarlo mentre attraversa la strada svegliando l'uomo che guardandomi con un sorriso sdentato mi fa un breve cenno di ringraziamento rifocillandosi e riscaldandosi dopo una nottata passata sotto il gelo.
Wally, ritorna da me con la sua andatura da rapper. «Ecco fatto. Ti ringrazia.»
«Grazie a te. I tuoi croissant sono i più buoni di New York, non dimenticarlo.»
Gongola di fronte al mio complimento arrossendo lievemente. «Sei troppo buona Bambi. Persone come te sono rare al giorno d'oggi. Nessuno offrirebbe la colazione a quell'uomo mentre tu lo fai tutti i giorni, anche quando non hai denaro a sufficienza per te. Gli hai portato persino delle coperte pulite e una lettiera per il suo gatto. Sei incredibile, lasciatelo dire.»
Arrossisco nascondendo il mento sotto il colletto e la sciarpa. Non credevo lo avesse notato. «Grazie. Ci vediamo!»
Faccio solo due passi prima di tornare indietro posando dentro il barattolo altre due banconote.
Wally cerca di capire.
«Nel caso non tornassi in tempo per la colazione visto che domani è festa», indico l'uomo. Lui annuisce e poi serve altri clienti arrivati come me al parco in questa mattina fredda di dicembre.
Cammino lungo il sentiero acciottolato a mosaico bevendo la mia cioccolata calda fino a raggiungere dopo il ponte e il laghetto la mia panchina preferita dove mi siedo comoda.
Davanti a me i pezzi più importanti di una città. Non riesco a vedere da dove inizia e dove finisce. C'è solo il rumore continuo delle auto, delle persone, degli elicotteri, delle sirene. Ma non è questo a spaventarmi. No. È il sentirmi così vuota e sola dentro un posto così enorme. E non c'è fine a questa solitudine interiore.
Io lo so come ci si sente quando tenti costantemente di riempire un vuoto e in realtà senti solo sciogliersi il cuore. So come ci si sente a vivere con un pozzo scuro dentro e non avere una luce per illuminarlo. So come ci si sente quando tutto diventa una trappola mortale e quello che desideri è solo scappare fuori e respirare.
Per distrarmi e godermi davvero qualcosa, frugo dentro la borsa pescando un libro tascabile, leggendone qualche pagina mentre assaporo la colazione in tutta tranquillità.
«Se leggi ti perdi il sorgere del sole.»
Mando giù il boccone dell'ultimo pezzo di croissant alzando gli occhi dalla pagina lentamente. Per poco non mi strozzo.
Un raggio di sole sbuca superando il palazzo pieno di finestre a specchio attraversando la figura che se ne sta davanti a me.
Una tuta della Nike nera, capelli scompigliati e sudore sulla fronte. Cuffie alle orecchie che toglie continuando a fissarmi sorpreso con i suoi occhi che sanno tanto di rimpianti, di parole tenute dentro e sentimenti nascosti.
Il mio cuore inizia a battere provocando un terremoto sul mio petto. Bevo un sorso di cioccolata per scaldare la gola improvvisamente formicolante e secca.
So esattamente di non averla superata. Immagino che questo sia perché non ho più la forza per contrastare i sentimenti, per allontanare qualcuno definitivamente dalla mia vita.
Tutti facciamo degli errori. Io più di ogni altra persona. Ho fatto cose in questi mesi per cui non basterà di certo una vita di scuse a perdonarmi. Ma in fondo, l'importante è trovare il giusto modo per andare avanti. Rialzarsi nonostante i problemi, le difficoltà. Perché prima o poi arriverà qualcosa di buono e positivo, lo sento.
Si siede accanto con nonchalance, riprendendo fiato, bevendo un po' di bibita energetica che odora di arancia rossa.
Gli porgo una salvietta imbevuta e accettandola la passa sulla fronte e sul collo appallottolandola e lanciandola dentro il cestino facendo centro.
«Questo thriller mi ha davvero rapita.»
Sono arrossita. Lo sento dalle orecchie ben nascoste dai capelli e dal berretto. Ma non posso nascondere le guance, quelle sono sotto gli occhi di tutti.
Guardo il sorgere del sole per qualche istante prima di sentire le sue mani sfiorare le mie nel tentativo di togliermi il libro dal grembo.
Infila il segnalibro sulla pagina dove sono arrivata e legge la trama senza lasciare trapelare alcuna emozione. Quando ha finito passa alla prima pagina. Ne legge solo due righe. Seguo i suoi occhi perdendomi nella sua intensità così distruttiva.
«Secondo me alla fine della storia si scopre che è stato il poliziotto.»
Lo guardo male e mi sorride in modo dolce, come un bambino dispettoso.
«Che c'è?»
«Quando lo hai letto?»
«Circa tre giorni fa.»
Gli sbatto il libro sull'addome poi lo ripongo dentro la borsa. «Grazie per lo spoiler ma lo leggerò lo stesso perché ho finito la mia scorta e non sono riuscita ad andare in libreria per prenderne altri.»
Guarda davanti a sé con una gamba sull'altra e il braccio sullo schienale della panchina. Beve un sorso della bevanda ed io mi concentro sulle mie mani che tengo strette sulle ginocchia.
«Non sei riuscita neanche a scrivermi. Tranne per il giorno del mio compleanno. A proposito, grazie per il regalo. Ma tornando a noi, hai avuto parecchio da fare in questi mesi», risponde acidamente.
«Sono successe troppe cose e ho staccato per un po' la spina.»
Si piega sulle ginocchia posando la bottiglia dentro la mia borsa. Non mi disturba questo gesto, solo il suo atteggiamento improvvisamente sull'attenti.
«Hai staccato completamente tirando persino il quadro elettrico, Bi», sibila tra i denti inumidendosi le labbra. Passa poi la mano sulla testa scompigliandosi i capelli umidi.
«Ho saputo di tua zia.»
Ricevo come un colpo secco e freddo sulla nuca. Non mi scompongo. Ho imparato a reagire a questo genere di cose.
«Prima o poi sarebbe accaduto. Non era una grossa novità per me.»
Fa una smorfia voltandosi ed io invece guardo davanti a me per non perdermi. Stringo persino la presa sul bicchiere dopo avere bevuto l'ultimo goccio freddo di cioccolata.
«Mi dispiace lo stesso. Sarei venuto a trovarti.»
Alzo le spalle passando la lingua sulle labbra. In bocca ho solo il sapore amaro di quei momenti. «Il funerale è stato intimo. Non che lei avesse poi così tanti amici. Adesso però è con suo marito e i miei genitori, forse.»
«Non vai mai a trovarla», la sua non è una domanda. Non usa un tono di rimprovero quanto di accondiscendenza.
Sicuramente Emerson gli avrà riferito qualcosa per tenerlo aggiornato sulla mia vita andata letteralmente a rotoli.
Prima ho perso la possibilità di avere una famiglia tutta mia quando ero pronta a farlo, a lasciarmi andare totalmente, poi ho perso anche lei e sono rimasta sola. Mi sono ritrovata con più debiti addosso, con più spese da fare e molto stress da sedare.
«Non ho bisogno di portare dei fiori su una tomba per ricordare qualcuno.»
Continua a fissarmi come se mi fossero cresciute tre teste. Forse sono stata un po' troppo dura.
«Ma potevi anche chiamare gli amici.»
Annuisco. «Per dire che cosa?»
«Che non volevi stare da sola o che ti serviva del tempo per riprenderti del lutto. Nessuno ti avrebbe di certo obbligata...»
Lo so, è arrabbiato e ne ha tutto il diritto.
Stringo però i pugni in vita guardandolo male.
«Vuoi che ti dica che mi dispiace? Ok, sono dispiaciuta se ho perso la possibilità di crearmi una famiglia perché sono stata stupida ad affrontare un pazzo che adesso spero marcisca in galera a vita dopo che mi ha massacrato di botte. Mi dispiace se ho creduto in un ragazzo che mi ha solo frantumato il cuore facendomi credere che fosse morto e che adesso si trova esattamente dove deve stare. Mi dispiace se ho perso mia zia e non ho avvisato nessuno, ma ho dovuto organizzare ogni cosa secondo il suo volere. Per inciso: è stata una vera stronza opportunista, proprio per quello che era. E scusami se ho dovuto cercare altri lavori, abbandonare il mio alloggio, laurearmi con mesi di ritardo e traslocare in una casa che non sento mia e non ho avuto il tempo di piangere o disperarmi perché dovevo andare avanti. E scusami se non ho proprio avuto voglia di scrivere perché...»
Sbuffo gettando il bicchiere dentro il cestino con rabbia e alzandomi finalmente lo guardo davvero negli occhi tirando sulla spalla la tracolla.
«Mentre tutti andavano avanti con la loro bellissima vita fatta di amore e spensieratezza, unicorni e fiori, io mi spegnevo.»
Si alza a sua volta. «Bi io...»
«Non ti ho dimenticato. Non lo farò mai. Ma non posso darti una famiglia e non posso e non voglio renderti infelice facendoti rinunciare ad altri sogni che spero vivamente per te possano un giorno realizzarsi. Quindi scusami se ho cercato di lasciarti libero da un peso morto.»
Mi volto ricacciando dentro il nodo. Alzo gli occhi al cielo e mi ricompongo.
«Buona giornata, Trav...»
Cammino a passo spedito verso l'uscita del parco.
Ripercorro la strada che conduce nei posti più esclusivi della zona, l'angolo caotico e già pieno di gente a fare la fila persino per una tazza di caffè da tre dollari, e decido di mettermi sul vagone della metropolitana per ritrovarmi altrove.
Così, senza una ragione ben precisa, scendo i gradini spingendomi a prendere un biglietto.
Il telefono dentro la borsa squilla. Lo pesco in fretta e lo faccio ormai più per abitudine pensando che qualcuno potrebbe chiamarmi dalla clinica, ma poi penso che alla fine è già successo. Dopo il matrimonio di Emerson, quando tutto era sereno ed io ero felice, il giorno dopo hanno chiamato dandomi la notizia. Ed io non ero con lei. Non c'ero. Dovevo lavorare e avevo fatto tardi dopo la colazione per cui non ero andata a salutarla per come avevo fatto prima del matrimonio.
Mi sono sentita così in colpa quel giorno da non essere riuscita neanche a raggiungere la clinica.
Non ho saputo e potuto dirle addio. E forse è stato meglio così. In fondo, era ormai in coma da tempo. A quanto pare ha avuto una crisi e si è addormentata completamente, eternamente. Per fortuna non ha visto niente, non ha sentito dolore.
Per quanto riguarda Dan e Nic sono entrambi da qualche parte a marcire in galera. Il primo forse anche in una che ha una clinica psichiatrica.
Non ho neanche voluto sapere quello che al contrario tutti non fanno altro che chiedersi. So solo che non usciranno facilmente. Hanno fatto arrabbiare le persone sbagliate. Almeno questo mi ha dato un po' di forza e sollievo. Il resto invece si è come dissolto.
Emerson è stata brava a rappresentarmi in qualità di mio legale e per questa ragione ho deciso di restituirle tutto quello che mi aveva offerto per non avere alcun debito.
«Pronto?»
«Ehi, dove ti trovi?»
Mi guardo in giro. Il tabellone giallo pieno di palle colorate ad indicare le fermate della metro davanti a me mi fa capire che sto sbagliando di nuovo tutto quanto. Che sto scappando e non è questo il momento per una breve fuga, perché potrebbero avere bisogno di me.
Sono le amiche a tenermi legata ancora qui, altrimenti sarei già volata altrove tagliando definitivamente quel filo. Ma non voglio deluderle come ho fatto con me stessa.
«Ero al parco a fare una passeggiata. Oggi ho un giorno libero e volevo rilassarmi un momento senza prendere alcun impegno.»
«E se ti proponessi un pranzo da me? Sono sola e non mi va di mangiare in silenzio o in compagnia della tv quando Brian non c'è. Che dici? Ti va? So che stai cercando un giorno libero ormai da mesi ma ti prego...»
La immagino implorarmi di non abbandonarla.
In questi mesi mi sono lasciata trascinare continuamente dalle sue strane proposte. So la ragione e in parte gliene sono grata. Soprattutto per il fatto che non ho più postato alcun video sparendo completamente dal mondo dei social e lei non si è arrabbiata. In realtà non ha neanche battuto ciglio quando sul conto in banca si è ritrovata l'intera somma del suo lavoro. Me lo ha solo fatto pesare quando non sono riuscita ad uscire più con loro per qualche settimana per recuperare qualcosa creando locandine.
«Che c'è per pranzo?»
«Parmigiana?»
Massaggio la fronte. «Si, sarò lì per le tredici.» Non me la sento di dirle di no.
«Perfetto, ti aspetto. Bi...»
«Si?»
«Va tutto bene? Sembri strana.»
Strizzo le palpebre. «Si, va tutto a meraviglia.»
«Ok, hanno appena citofonato. Ci vediamo dopo.»
Riaggancia ed io abbasso le spalle appoggiandomi alla parete. Inspiro ed espiro poi risalgo le scale camminando lungo le stradine che ho imparato a conoscere e che ho esplorato durante i miei momenti di svago.
Qui nelle vicinanze ci sono alcuni dei miei negozi preferiti. In uno compro i cioccolatini che adora tanto Emerson poi mi fermo davanti la vetrina dei cuccioli. Osservo i gatti, sembrano così tristi...
Il telefono segna una notifica.

"Cara B,
Non era mia intenzione farti intristire. L'emozione nel vederti è stata così tanta da farmi reagire male quando ti sei comportata con distacco. Questo anche perché non sapevo quello che hai dovuto tenere dentro per non ferirmi. E lo so che l'hai fatto per me. Ma fidati, mi ha ferito lo stesso e mi ha fatto anche incazzare sapere che ti hanno fatto del male ed io non ero con te a difenderti, ad aiutarti. Mi ha ferito questa tua freddezza perché io ti amo e non smetterò, non mi arrenderò neanche se dovessi trovare qualsiasi cosa per allontanarmi. Quindi smettila di fingere che non ti importi. Smettila di dire che stai bene. Ti si legge in faccia che stai soffrendo. Puoi prendere in giro chi vuoi ma non me. E il non poterti abbracciare o anche solo sedermi accanto a te fa stare male anche me. Sono deluso e arrabbiato. Quindi quando trovi il coraggio, sai dove puoi trovarmi.
- Travis".

Le sue parole in un momento del genere mi destabilizzano e non poco. Soprattutto per il fatto che abbia usato il suo nome per firmarsi e non il nomignolo.
Mi sento in bilico. So di avere avuto sempre un comportamento da bambina ma non ho mai negato i miei sentimenti.
Mi sono chiusa per troppo tempo e adesso non so più come si fa ad uscire alla luce del sole. Per questa ragione sto perdendo tutte le occasioni più importanti.
Entro in libreria passando in rassegna molteplici volumi. Alla fine esco con una borsa di carta piena zeppa di thriller e storie strappalacrime comprate con il chiaro intento di sentire qualcosa. Perché è così che mi sento: vuota, incompleta, priva di sentimenti. Non sento niente.
Faccio anche un po' di shopping comprando qualche maglione nuovo morbido per proteggermi dal freddo, dei completini intimi che non ho più messo ma che sono in saldo.
Porto gli acquisti a casa lavandoli e poi infilandoli dentro l'asciugatrice per poterli usare in fretta, preparandomi per il pranzo dalla mia amica che, quasi sicuramente avrà invitato anche le altre.
Mi manda a prendere con il suo autista forse per assicurarsi che io sia puntuale.
Questo strano modo di controllare tutto mi insospettisce parecchio ma non mi lamento. Non mi dispiace qualche attenzione. Ogni tanto glielo concedo.
«Buongiorno», saluto entrando in auto.
«Signorina.»
È sempre così rigido e silenzioso, rifletto guardando fuori dal finestrino mentre superiamo il mio quartiere per dirigerci nell'Upper Est Side. Uno dei posti più lussuosi di Manhattan.
Mi piace sempre osservare i palazzi, le strade tenute pulite, le limousine e le vicine ricche di Emerson che ostentano attraversando le strisce pedonali sui tacchi, strette nelle pellicce vere lasciando muovere le loro borse firmate tenendo al guinzaglio i carlini.
L'aria è satura dell'odore di soldi e affari. Ecco perché piace ad Emerson. Ecco perché alla fine sono rimasti a vivere qui abbandonando il sogno di trasferirsi altrove, magari in un posto meno esagerato e sfarzoso.
Quando raggiungo il pianerottolo, percepisco l'odore tipico di Emerson. Persino il corridoio che conduce al suo appartamento ne è carico e impregnato. Mi domando come facciano i vicini a resistere.
Suono il campanello poi busso una volta per farle capire che sono io e che sto surgelando. Saltello infatti soffiando sulla sciarpa per scaldarla. Faccio lo stesso con le mani.
Emerson apre la porta con un ampio sorriso. Reggo la mia parte cercando costantemente di non ripensare a quel messaggio, ai suoi occhi.
Dentro casa che profuma anche di cibo speziato e raffinato, sento le voci delle mie amiche. In aggiunta quelle di Oliver, del marito di Natalie, dei suoi bambini e di Brian.
Non dovevamo essere solo noi due? Perché c'è puzza di trappola?
Le offro i cioccolatini confezionati nella busta color Tiffany.
«Non dovevi mandarmi per forza il tuo autista. Sarei arrivata in tempo per il pranzo.»
Sorride scartando la confezione come una bambina il giorno di Natale. Ma manca ancora solo qualche ora al ventiquattro e quindi alla vigilia.
La casa di Emerson è davvero nel suo stile. C'è un enorme albero all'angolo tutto pieno di palline e fiocchi ma ad attirare l'attenzione sono gli innumerevoli regali sistemati sotto in ordine di grandezza.
Io non ho addobbato la nuova casetta in cui abito. Non credo che lo farò proprio adesso. Ho perso i vecchi addobbi e con essi anche lo spirito di festeggiare.
Inoltre, il venticinque sarà il giorno del mio compleanno e non ho alcuna intenzione di sentirmi la protagonista di qualcosa. Sarà proprio un giorno come tutti gli altri, anche perché lo passerò da sola ad ingozzarmi di schifezze davanti la tv.
«Prima o poi dovrai abituarti ai miei inviti con aggiunta di autista», dice chiedendomi di togliere il cappotto e le scarpe, portandomi in soggiorno dove saluto tutti con un "ciao" generale e poi vado a prendere in braccio la piccola Tabitha.
«E tu che ci fai qui?»
Mi sorride protendendo le manine paffute sul mio viso.
«Solo da te riesce a farsi prendere in braccio senza urlare come una da esorcizzare», esclama Beverly più che divertita. «Ricordo la pessima figura che ci ha fatto fare quando la sorella di Oliver ha tentato di tenerla in braccio al ristorante.»
Rievoca alla memoria il giorno del battesimo. Li è stato un momento strano. Non ero in vena di festeggiare ma alla fine la bambina non aveva nessuna colpa per cui mi sono lasciata un po' andare.
Gioco con lei facendola ridere, infine la metto in braccio a Beverly per la poppata.
«Non hai ancora avuto il coraggio di cambiarle latte?»
«Sto aiutando il suo sistema immunitario. Un giorno la birbante mi ringrazierà», replica prontamente alla domanda di Natalie che nel frattempo ha appena messo in castigo i suoi figli.
Mi abbraccio sedendomi sul bracciolo del divano sentendomi in qualche modo di troppo. In parte mi fa stare male vedere tutti quei bambini e loro insieme ai mariti, allegre, così innamorate.
«Mi aiuti in cucina?»
Emerson mi fa cenno di seguirla.
Gliene sono immensamente grata, ma quando raggiungo la cucina la trovo impegnata a riempire due bicchierini di vodka liscia, la sua preferita.
Me ne porge uno. Le tremano le mani.
«Mandalo giù insieme a me perché sto per darti una notizia e so che ci resterai male ma non volevo avvisarti davanti a tutti. Brian lo ha già rivelato prima ed è stato un po' imbarazzante per me tenergli nascosta questa cosa...»
Appare confusa e agitata. Le prendo le mani stringendole. «Dimmi che succede. Strappa il cerotto.»
«Ecco... io e lui... cioè lui vuole ingrandire la famiglia e lo sto accontentando ma a quanto pare non riesco a tenere nel fagotto nessun bambino. Sono mesi che proviamo e qualcosa non va.»
Batto le palpebre stordita. «L'hai detto a Brian? Vuoi che ti accompagni a fare delle visite?»
Beve anche il mio bicchierino. «Si, volevo chiedertelo. Sempre se non ti fa stare male tornare in quel posto. Non voglio dirlo alle altre perché prima hanno iniziato a fare delle pessime battute. Solo tu mi puoi capire.»
L'abbraccio cercando io stessa un po' di conforto. «Vedrai che non è niente e presto renderai felice Brian.»
Si intristisce. Vedo come muta il suo sguardo sempre determinato e raggiante.
«Mi dispiace...»
Sorrido tenendo a freno le lacrime. «Che cosa prepariamo?» mi ricompongo. «A proposito, non mi avevi detto che eri da sola oggi?»
Se ne accorge ma non dice niente. «In realtà è tutto pronto. Torna pure di là.»
«Tesoro ma stiamo aspettando ancora qualcuno o possiamo iniziare? I piccoli hanno fame.»
Brian le circonda il ventre con un braccio ma non dice o fa niente davanti a me. Emerson deve averlo messo al corrente della delicatezza della notizia ma non gli ha ancora parlato della possibilità di non potere essere fertile.
«Vado a vedere se vogliono giocare, così si distrarranno.»
Emerson mi ferma come se avesse appena ricordato un qualcosa di importante da dirmi.
«Ho fatto anche una cazzata e ti arrabbierai.»
Sentiamo il campanello e ogni muscolo si tende fino allo stremo. Sento proprio il dolore dentro.
Brian va ad aprire e i piccoli strillano allegramente il suo nome.
Emerson soppesa il mio sguardo ma non le do a vedere quello che in realtà mi provoca sapere che ha organizzato tutto questo per farci incontrare. Non sa che proprio qualche ora fa abbiamo avuto una discussione o meglio io ho reagito come una pazza isterica e lui è scoppiato dopo averci riflettuto sopra abbastanza ed avere capito di dovere esternare finalmente tutta la sua rabbia.
«Ciao, finalmente sei arrivato!»
Brian lo accoglie calorosamente.
Natalie si volta verso di me che sto mettendo in ordine la tavola. Come sempre mi rilasso per qualche istante facendo qualcosa di stupido come apparecchiare o innaffiare le piante per evitare il mondo reale.
«Si, dove eri finito?»
«Scusate ma ho dovuto concludere un affare importante e poi sono corso qui.»
I bambini strillano divertiti e lui probabilmente li solleva.
Scuoto la testa e corro in bagno dove chiudo la porta a chiave sedendomi sul water a trovare un modo per andarmene.
Potrei inventare tante scuse ma so già che non ci crederebbe nessuno.
Potrei dire che non sto bene ma anche questa sarebbe la prima scusa che ho rifilato più volte per non dovermi sorbire amore e abbracci nell'aria.
Due colpetti mi fanno quasi urlare. Rimbombano in questo spazio troppo dorato.
«Si?»
«Zia Bi, mamma mi ha chiesto di venirti a prendere.»
Sorrido aprendo la porta, mi inginocchio davanti a lui.
«Mi vuoi davvero bene ometto?»
Annuisce in fretta. «Certo», mi getta le braccia intorno al collo.
Lascio perdere la scusa che avevo intenzione di rifilare a tutti usando proprio lui, comportandomi una volta tanto da adulta. Tenendolo in braccio andiamo in soggiorno.
«Eccoli!»
I miei occhi evitano di posarsi su di lui.
Emerson se ne accorge e guardando entrambi corruga la fronte intuendo di essersi persa qualcosa.
Le ho tenuto nascosta questa parte. Non le ho rivelato che non riuscivo più a scrivere a Travis perché non volevo rovinargli la vita o fargli rinunciare ad un sogno che ha sempre messo davanti a sé. E lo so che ci sono altre opzioni ma lui starebbe solo male nel sapere di non avere un bambino davvero suo.
«Visto che ci siamo tutti, spostiamoci in sala da pranzo e... che l'abbuffata abbia inizio!»
Mi siedo accanto ai bambini e lui davanti a me. Per tutto il pranzo in cui sento di esplodere guardo il piatto o seguo i piagnistei dei figli di Natalie, parecchio viziati in fatto di cibo.
Non oso alzare gli occhi e capire di avere rinunciato a tutto. Non voglio sentirmi così male. Devo solo resistere ancora qualche altra ora, mi dico.
«Sai come facevo a mangiare le verdure da piccola», mi abbasso sussurrandolo alla bambina che si fa subito attenta smettendola di fare i capricci.
Le tappo il naso. «Metti in bocca il broccolo e chiudi gli occhi. Mastica bene, ingioia e poi mangia un po' di mollica di pane. Vedrai che non sentirai niente. Vuoi provare la magia insieme a me?»
Annuisce. Con una mano tappa il naso, con l'altra mette disgustata il broccolo in bocca chiudendo gli occhi. Deglutisce e le passo in fretta la mollica.
Quando riapre gli occhi sorride con i denti imbrattati di verdure. «Grazie zia!» mi abbraccia.
«Hai visto che era buona?»
«Sapeva di pane. Posso averne ancora?»
Mi volto e Natalie e tutti gli altri ci stanno osservando. «Che c'è?»
Nessuno mi dà una risposta. Tornano alle loro innumerevoli conversazioni per cui avvertendo il bisogno di una boccata d'aria fresca esco un momento fuori sul balcone.
Aggrappata alla ringhiera inspiro ed espiro tutta l'aria che riesco a tenere dentro poi mi volto e sussulto lasciando uscire un breve urlo.
Massaggio il petto. «Mi hai spaventata», brontolo.
«Scusami Bi. Volevo solo vedere se stavi bene.»
Mi indico. «Si, come vedi non ho vomitato o altro. Avevo solo bisogno di un po' d'aria. Stavo per tornare di là.»
Emerson mi ferma stringendomi un braccio. «Quello che hai fatto prima con la bambina è stato fantastico. Natalie diceva che non hanno mai toccato le verdure e che nel giro di pochi istanti hanno spazzolato il piatto entrambi grazie a te. Saresti un genitore fantastico.»
Tappa la bocca. «Mi di...»
«Non dirlo. È ok.»
Mi incammino in soggiorno dove i bambini vogliono giocare a monopoli. Ignoro gli adulti divertendomi con loro poi noto che si sta facendo tardi ed alzandomi, nonostante le loro proteste saluto tutti con una scusa avanzando verso l'uscita.
«Bi...»
Emerson mi passa un contenitore con la torta. «Nel caso ti andasse in uno dei tuoi viaggi in treno.»
L'abbraccio. «Questa la mangerò a casa. Ho bisogno di adattarmi a quel posto e non pensare più a quei momenti.»
«Chiama pure se ti annoi o se ti va di uscire.»
Annuisco provando ad aprire la porta. Lei la richiude appoggiandovisi. «Per quanto riguarda Travis... pensavo avrebbe fatto piacere ad entrambi. Ma eravate assenti. È successo qualcosa?»
Gli occhi mi si appannano un momento. Inspiro. «No, no. Abbiamo chiarito da tempo.»
Emerson appare sospettosa. «Allora perché vi siete comportati come due estranei?»
«Che cosa dovevamo fare? Adesso devo proprio andare. Ci sentiamo...»
Mi ferma ancora. «Non passerai il tuo compleanno da sola.»
«È il mio giorno. Come regalo ho espresso proprio questo desiderio e dovrai accontentarmi.»
Fa una smorfia. «Lasciatelo dire Bambi Stevens sei impossibile da capire.»
Abbozzo un sorriso poi scappo via, letteralmente, scendendo in fretta le scale e poi i gradini esterni del palazzo.
Prendo la metro tornando a casa dove dopo dieci minuti mi ritrovo tutta sola, avvolta nel silenzio.
Entro in camera posando la confezione con la fetta generosa di torta sulla scrivania.
Fisso la telecamera, i miei attrezzi da lavoro e dopo tanto tempo sento il bisogno di sfogarmi. Ragion per cui apro il portatole collegandomi. Inserendo il cavo della fotocamera che sistemo davanti a me, vado in live sul sito.
«Ciao a tutti, lo so, sono imperdonabile. Ma ho dovuto ricostruire dalle fondamenta la mia vita e non mi sentivo più a mio agio dentro la mia stessa pelle. Non mi avete mai vista in faccia ma eccomi, sono una comunissima ragazza che ha tentato più volte di crearsi un futuro facendo le cose sbagliate. La verità è che ho vissuto nella paura. Per tutto questo tempo non ho fatto altro che chiudermi senza mai concedermi un attimo di piacere, di spensieratezza, di follia.»
Passo la mano sul naso. «Scusatemi ma non è facile per me parlare qui dentro. Magari non importerà neanche a nessuno di questo, visto il posto in cui ci troviamo ma è qui che mi sono rifugiata quando ne ho avuto più bisogno e abbandonare una famiglia senza dire niente, mi sembrava orribile. Quindi ho deciso in qualche modo di salutarvi tutti, raccontandovi un po' chi sono e augurarvi il meglio...»
Noto i primi messaggi sulla chat. Sono positivi e stanno attirando molte persone.
«O meglio... voglio raccontarvi chi non sono più. Perché le persone cambiano. Io sono cambiata. Voi... siete cambiati. Non ce ne accorgiamo ma succede e la maggior parte delle volte è inevitabile. Ci si ritrova diversi e altrove...»
Inspiro poi recupero la bottiglietta. «Ho scritto una "lettera" tempo fa e mi piacerebbe tanto leggerla ad alta voce perché non ho avuto ancora il coraggio di farlo e credo sia giunto il momento di mostrarvi qualcosa di me. So che vi annoierò ma potete sempre chiudere questa live e tornare alle vostre cose.»
Espiro guardandomi attorno. Prendo poi la lettera dentro il comodino. La tiro fuori dalla busta lisciandola sulla coperta con il palmo. Sulla carta piena di parole noto quelle sbiadite a causa delle lacrime e mi sale forte il magone.
Schiarisco la gola.

"Sai, è difficile chiedere scusa. Io ad esempio non ho mai chiesto scusa a me stessa. Forse dovrei iniziare davvero ad amarmi di più e a lasciarmi andare.
Ho sempre avuto un po' questa brutta tendenza ad allontanare le persone da me, dal mio strano mondo. Mi sono sempre sentita quella di troppo e per questo mi sono messa più volte da parte lasciando spazio. Non ho mai rispettato il volere del mio cuore perché ho avuto paura di liberarlo e sentire davvero il battito della vita.
Chiedo scusa a me stessa se sono caduta così tante volte e non sono riuscita a rialzarmi in fretta ma mi sono semplicemente adagiata al suolo lasciandomi schiacciare dal dolore, continuando a sbagliare, dando sempre molta importanza a chi al contrario mi ha distrutta.
Mi sono ritrovata infatti a pezzi. Tante piccole schegge di me in grado di ferire tutte quelle persone che tentano costantemente di volermi bene, di amarmi o anche solo capirmi.
Ho perso del tempo, quello che non potrò di certo riavere indietro, per salvare chi al contrario non voleva essere salvato. Ma ho amato tanto. Ho dimostrato più volte il mio affetto anche se a modo mio e sono rimasta delusa, come un po' succede a tutti, da chi diceva di volermi bene e al contrario mi pugnalava costantemente alle spalle facendomi sentire inadatta, incapace, sola.
Mi chiedo scusa se ho lottato da sola credendo di potercela fare con le mie sole forze, quelle che ho perso a rincorrere le cose sbagliate, quelle che alla fine mi hanno sempre strappato via il sorriso o la gioia.
Sai, tendenzialmente sono una persona empatica. Mi accollo sempre il dolore altrui, le emozioni altrui, credendo di poterle sorreggere insieme al mio che ho sempre messo da parte ignorando tutti quei segnali che forse la vita o il destino mi hanno costantemente messo davanti e che non ho neanche notato perché troppo presa e persa per rendermene conto. Per capire di essere caduta di nuovo in un posto circondato dal buio, dal silenzio.
Mi sono fatta male. Mi sono messa da parte. Mi sono protetta e ancora punita. Mi sono persa. Mi sono ritrovata. Mi sono spenta. Ma sono rimasta me stessa. Con i miei cocci rotti dentro. Con le mie assurde fantasie. Con le mie paranoie. Con i miei bisogni. Con il dolore. Con la paura.
Sono rimasta me stessa sotto le macerie respirando polvere e tristezza, quella che mi ha fatto chiudere di nuovo in me stessa.
Sai, ho perso tutte le persone alla quale tenevo. Prima i miei genitori poi un ragazzo... il mio migliore amico, infine anche mia zia è andata via. Ho perso la mia vita. E mi sono sentita così abbandonata, così sola da non volere più affezionarmi a nessuno proprio per non perdere ancora una volta un pezzo della mia anima, del mio cuore malridotto e pieno di buchi neri, di vuoti incolmabili.
Ma l'amore vero quando arriva tira strani scherzi, non credi?
Un giorno incontri l'amore e non si stacca più. Non se ne va più. Ti accompagna in un posto che chiami subito casa. Un luogo che ti fa sentire protetto, al sicuro.
Io per la prima volta ho sentito di esistere quando mi hai vista. Quando ti sei accorto che esisto. Che ci sono. Che non sono invisibile. Ho sentito di esistere quando mi hai guardata negli occhi e non mi sono sentita sbagliata o una patetica ragazza in cerca di attenzioni.
E voglio dirti la verità. Voglio che tu sappia che adesso senza il tuo amore io mi sento persa.
Quando ci siamo incontrati non avevamo idea che le cose si sarebbero incasinate così tanto tra di noi, nelle nostre vite apparentemente diverse.
Noi che ci siamo amati e odiati. Noi che ci siamo fatti del male. Noi che abbiamo superato tutto guardando avanti. Noi che ci siamo sempre guardati negli occhi e abbiamo parlato in silenzio dicendoci tutto, anche le cose più dolorose e insopportabili.
E credimi, quando ti ho visto, quando ho visto nel tuo sguardo il peso di tutto quel dolore, io mi sarei fatta carico di ogni pezzo, di ogni frammento pur di non vederti soffrire ancora così tanto. Perché mi faceva stare male vedere così tanta bellezza e avere la consapevolezza che questa fosse causata da una profonda ferita.
Tu non lo meriti. Non meriti quello che hai vissuto. Non meriti di sanguinare ancora per il passato. Non meriti di essere triste. Non meriti di soffrire. Non meriti di avere paura. Non meriti di vivere nel panico. Perché sei la persona più preziosa e delicata che il mondo possa avere. Sei una persona rara e meriti di stare bene.
Tu meriti di essere felice, di essere completo. Meriti il meglio.
E mi dispiace se ti ho lasciato andare. Mi dispiace davvero tanto. Ma non volevo renderti infelice. Non volevo infettarti con la mia tristezza. Ma sappi che di te mi è rimasto addosso il calore della tua pelle, l'odore del tuo respiro. Mi è rimasto addosso la sensazione del tuo sguardo, dei tuoi occhi attenti e fissi sulla mia anima, dove hai scavato a fondo fino a costruirci una casa dove ti sei trasferito e non sei più scappato.
E mi dispiace se ti ho lasciato andare. Se non mi sono sentita all'altezza. Forse è da stupidi pensare proprio questo.
Nessuno è mai davvero pronto all'amore. Ci si sente sempre piccoli e insignificanti. Ci si sente in bilico. Ci si sente fragili. Ci si sente impauriti.
Sappi che avrei tanto voluto urlarti di tenermi, ma solo se potevi.
Perché io sono quella insicura, quella fragile che si nasconde dietro una forte corazza fatta di indifferenza. Sono quella che non si lamenta e che sta in silenzio. Sono quella orgogliosa. Quella che tiene tutto dentro per paura di ferire. Non sono brava con le persone. Io non so abbracciarle, stringerle forte al petto.
Non sono cattiva, ho solo paura. Sono quella che lascia. Quella che svanisce. Quella che si spegne. Quella che se ne sta da sola perché la compagnia la destabilizza. Sono quella che si perde.
Sappi che avrei voluto urlarti tante cose per farti restare. Purtroppo non sono capace a dimostrare amore. Perché la solitudine mi ha insegnato ad avere paura di una carezza, di un bacio, di uno sguardo. Mi ha insegnato ad avere paura della fiducia.
Ma so che continuerò a chiudere gli occhi immaginando un momento felice. E sarà sempre quello che mi porterà da te.
Non l'ho dimostrato spesso, lo so. Non ho superato l'orgoglio, lo so. Non l'ho detto spesso, lo so. Ma so che ti amo. Tanto."

Boccheggio singhiozzando come una stupida. Pur non vedendo niente premo il tasto stop chiudendo lo schermo della fotocamera e anche quello del portatile.
Corro di sotto. Prendo un bicchiere riempiendolo d'acqua per placare la sete e il fuoco che divampa lungo la mia gola. Lo tracanno in due semplici sorsate sentendo il mio corpo tremare dall'agitazione.
I miei singhiozzi continuano a riempire l'aria impregnandola di tristezza.
Tiro su con il naso facendo dei brevi respiri per riprendermi. Ma so che non starò bene così.
Allora, presa dallo sconforto e vinta da una stranissima sensazione, corro all'entrata, infilo il cappotto e gli stivali e spalanco la porta decisa ad inseguire il mio sogno. Anche se farà male.
La mia corsa però viene rallentata da qualcosa o per meglio dire: da qualcuno.

♥️

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