35
E poi di colpo ti accorgi che quello che fai non basta mai. E ti accorgi che anche se dai tutto sembra poco. Che a volte non basta sperarci o crederci davvero. L'amore non basta. Non ti salva.
Qualsiasi cosa faccia, ad uscirne con le ginocchia sbucciate e il cuore malridotto sono e sarò sempre io. Io che continuo a non farcela. Ne esco malandata come quando sali su una giostra pur avendone paura. Mi sono illusa perché ho sempre pensato che sorridendo mi avrebbero sorriso, essendo sincera sarebbero stati sinceri con me, che dimostrando amore prima o poi qualcuno mi avrebbe amata davvero. Invece non è così. Ci sono amori che generano sensazioni ed emozioni opposte come l'odio, il risentimento, la tristezza e tanta di quella rabbia da creare scompiglio nel tuo cuore.
Ma per una come me che ama a perdifiato e ama tanto, non è mai semplice.
Busso alla porta una sola volta. Attendo qualche secondo sentendo la voce flebile di zia Marin che mi permette di entrare.
«Sono tornata con una coperta morbida e super profumata di ammorbidente, una scatola di tartufi e una bottiglia di spumante tutta per me. Ah, e c'è anche il pandoro. Buon Natale zia», le bacio la guancia quando si protende. La sua pelle è fresca nonostante in camera ci siano i termosifoni accesi.
Sedendomi accanto a lei sul letto, sistemo la bellissima cesta di vimini al centro mettendole subito la coperta sulle gambe.
Mi avvicina con un braccio intorno alla schiena, la mano sul fianco e appoggio la testa sulla sua spalla. «Buon Natale piccola mia», mi dice dandomi un bacio sulla tempia facendo pressione per circa due secondi sulla pelle. «Non dovevi rinunciare al pranzo con le tue amiche per venire qui. Sai che ormai non posso muovermi da questo letto», sospira stanca.
«Sei tu la mia famiglia. Vedrò le amiche domani o stasera, non è un problema. Allora, da cosa iniziamo? Ho chiesto il permesso al medico e mi ha rubato il vasetto di Nutella», esclamo.
Sorride. «Ma hai salvato quella al pistacchio», mi guarda complice.
Apro il cartone tirando fuori il piccolo pandoro. «Questo dobbiamo proprio assaggiarlo», taglio un pezzo spalmando sopra la crema verde. Ho portato piatti e posate dietro e tutto l'occorrente per mangiare insieme a lei una fetta di pandoro e qualche dolcetto. Anche se ha già pranzato, può assaggiare qualcos'altro. Me ne sono assicurata chiedendo al povero infermiere di turno in un giorno di festa. Lui al contrario ha chiesto a me. Questo perché ho un aspetto terribile. Ne sono consapevole. Ma attualmente non posso fare miracoli. Persino la mia pelle sta risentendo lo stress.
È passata una lunga settimana e non mi sono ancora ripresa del tutto dalla decisione presa. Sto anche tentando di non buttarmi giù, di mantenere la calma e la concentrazione. Soprattutto di dedicarmi alle cose importanti.
Nel frattempo ho cambiato numero di telefono, alloggio e ambiente. Non mi sono mai fermata, ho lavorato tanto sul sito inserendo nuovi video per tenermi distratta in quelle poche ore libere. Ho anche ripreso a studiare per gli esami finali prima della laurea e ricevuto il risultato dell'ultimo test che ha avuto esito positivo con il massimo dei voti. In fondo, non sono poi così ignorante come si pensa.
Zia Marin assaggia gustando tutto come se fosse la prima volta. Emette un verso di pura estasi e mi fa sorridere questa sua reazione, anche se allo stesso tempo questo piccolissimo dettaglio mi fa pensare a lui. La persona che nessuno osa nominare in mia presenza.
Ho avvisato tutte le mie amiche. Ho detto loro la verità. Sa tutto anche zia Marin che, non ha ancora aperto bocca sull'argomento. Mi sembra persino strano e non è proprio da lei tenere dentro le cose. Solitamente trova sempre un modo per dirle, magari facendo una battuta. Invece niente.
Mangiucchio un pezzetto minuscolo di pandoro con un cucchiaio abbondante di crema al pistacchio. «È davvero buona!» ammetto.
Zia Marin pulisce le labbra bevendo un sorso di latte. «Dove l'hai trovata questa?» Chiede prendendo il barattolo con l'etichetta color oro e mangiandone un cucchiaino senza pandoro.
Apro la scatola di tartufi. «Vicino al mio nuovo alloggio c'è un negozio italiano con questi prodotti importati dalla Sicilia. La scelta è stata parecchio difficile. C'erano così tante cose buone che alla fine ho riempito la dispensa», dico cacciando in bocca un tartufo.
Zia Marin prende un altro pezzo di pandoro. È sempre stata golosa ma la sorte le ha concesso pochi zuccheri da potere assumere.
«Ma non hai riempito la pancia. Non mangi come si deve», dice preoccupata.
Lecco le dita. «Mangio abbastanza», rispondo distratta prendendo un libro.
Zia Marin posa il barattolo chiudendolo per non avere altre tentazioni e per non esagerare.
«No, non mangi che è diverso», afferma guardandomi dritta negli occhi. «Non ti ha ancora trovata?»
«Non credo di volerne parlare», svolto pagina. «Leggiamo questa oggi?»
Mi toglie il libro dalle mani mettendoci il piatto con una fetta generosa di pandoro e crema al pistacchio. «Prima mangia e parliamo», non ammette replica.
Sospiro forzandomi. Il mio stomaco ad un certo punto protesta. «Non ce la faccio», dico dopo due morsi allontanando il piatto, correndo in bagno. Mi aggrappo al lavandino respirando a fatica. Apro il rubinetto sciacquando i polsi, il viso, il collo. Lego i capelli continuando a contare fino a dieci e poi di nuovo.
«Bambi, tutto ok?»
Tossisco. «Si», mi riprendo e torno da lei. «Scusa ma non riesco a mangiare tanto», ammetto.
Fa una smorfia. «Posso farti una domanda?»
«Dipende dell'argomento», mordo il labbro bevendo un sorso di acqua.
Zia Marin riflette poi decide di chiedere lo stesso: «Hai ricominciato ad avere problemi con il cibo?»
«No. Ho mangiato qualcosa prima di venire qui», mento. Lo faccio con tutta la convinzione che ho in corpo. In realtà non so con esattezza quando sia stato l'ultimo pasto solido prima del pandoro.
Zia Marin soppesa il mio guardo senza mai tentennare o distoglierlo. Mi scava dentro trovando da sola la risposta. E lo so che si sta già allarmando ma posso farcela, posso controllare anche questo problema che mi porto dietro ormai dall'adolescenza, quando dimenticavo di mangiare perché avevo troppe cose da fare e troppi conti da saldare.
«Non ricadere più nello stesso errore», mi dice duramente. Sto già annuendo. «No, è tutto sotto controllo. Non preoccuparti. So come moderarmi», abbozzo un lieve sorriso mentre dentro il senso di colpa mi divora viva. Perché non è facile uscire da certi vizi. Quando inizi ad averne uno non smetti. Non riesci più a spegnere quella vocina che ti spinge a sbagliare. Un po' come per l'amore.
«Bene, perché non ho intenzione di vederti ridotta pelle e ossa. Sei già dimagrita tantissimo e vederti così mi fa stare male. Perché è come se ti avessero risucchiato la vita.»
Deglutisco a fatica. Non voglio darle altre preoccupazioni. «Sto bene, ok? Mangio. Sono solo piena ed ho lo stomaco un po' sottosopra, tutto qua.»
Liscia la coperta. «Se ci fosse stata tua madre in questo momento ti avrebbe urlato addosso. Sai che non sopportava vederti priva di appetito. Ricordi cosa diceva?»
Sorrido tenendo per me quel groppo enorme che si forma alla gola e che ricaccio in fondo. «Che il cibo a volte può essere la risposta a tutto? Oppure che il cibo è l'unica gioia che abbiamo in questa vita? A me sembrava più una campagna per avvicinarti al sovrappeso.»
Zia Marin ride. «Tua madre voleva solo dire che in determinati momenti mangiare, seppur con moderazione, può cambiarti la giornata. Quante volte ti sei sentita sottotono e hai avuto bisogno della cioccolata o del tuo amato yogurt?»
Arriccio il naso percependo una nuova ondata di nausea al pensiero dello yogurt che, mi ricorda sempre e solo la persona che ormai infesta i miei pensieri, le mie paranoie e ogni mio riposo.
«Non riuscirò più a mangiarlo», ammetto senza un motivo. Forse ho bisogno di parlarne per rendere il tutto più reale, visto che non appena sono tornata mi sono messa al lavoro per riorganizzare al meglio la mia vita distrutta dagli eventi e persino dall'amore.
Quando ripenso a quei momenti, sento sempre quella forte fitta allo sterno che mi squarcia il petto raggiungendo il cuore ridotto ad una briciola.
«E perché mai? Tu adori lo yogurt. Lo mangeresti di continuo senza mai rifiutarlo o stancarti.»
«Perché mi fa ricordare lui», mi alzo andando a guardare fuori dalla finestra. «Lui è arrivato e mi ha spaccato il cuore a metà. Ha strappato la mia anima in due senza neanche rendersene conto. E adesso io mi ritrovo qui, da sola e in bilico.»
Sta nevicando lentamente. Le strade però sono tenute pulite grazie all'ausilio degli spazzaneve che, ininterrottamente passano per sgomberare la strada.
Il cielo grigio pallido riflette perfettamente il mio stato d'animo attuale. Dentro la stanza non fa freddo ma fuori, si gela. Eppure io lo sento appena.
Zia Marin sospira. «Bambi, piccola mia, tu non hai mai permesso a nessuno di destabilizzarti così tanto o di distruggere tutto ciò a cui tieni e che ti piace. Quindi smettila di piangere sul latte versato, smettila di rimuginare di continuo e va avanti. Ricordati sempre che l'universo o Dio, hanno sempre qualcosa in serbo per noi. Ricordi la legge dell'attrazione? Esiste e devi solo focalizzare le cose senza mai perdere la speranza oppure devi lasciarle andare. Se è destino, quel qualcosa ti raggiungerà. E con il passare del tempo, tutto tornerà normale.»
Quando una storia importante finisce quasi sul nascere non senti più niente. Ti allontani sempre di più da te stesso fino a perderti. E non te ne frega più niente delle frasi dette per consolarti, neanche quando ti dicono che è solo questione di tempo prima che tutto passi, perché è proprio quel tempo a tramortirti, a colpirti al cuore, a scuoterti l'anima, a svuotarti e a renderti incredibilmente debole, così fragile da spezzarti con una parola, con un gesto, una frase, persino un respiro.
Quando qualcosa in cui hai creduto finisce, non hai spazio per niente. Non c'è più spazio per le belle parole, per i sorrisi, per gli abbracci. Non c'è spazio neanche per te stesso. Ti senti stanco e inizi a perdere la voglia. Quello che semplicemente desideri è rannicchiarti in un angolo tranquillo e non sentire più niente. Non ascoltare più quelle parole che lanciano disprezzo verso chi ti ha fatto stare bene e poi ti ha travolto con il dolore. Non sentire più il peso della tristezza. Non sentire più amore.
«Credo che userò proprio la seconda opzione per come ho già fatto molte volte. Lascerò andare tutto e se sarà destino tornerà indietro tutto.»
Zia Marin annuisce riflettendo su qualcosa. «Dimmi a cosa pensi», la esorto a mettermi al corrente dei suoi pensieri.
Chiude gli occhi dopo avere bevuto un lungo sorso di latte. «Lo so che ti manca. È normale. Ma non devi mai lasciare indietro i tuoi sogni, ogni obbiettivo per un ragazzo. Inoltre, ricorda di avere anche un amico. Anche se Dan ha sbagliato, c'è sempre stato per te. Adesso vorrebbe solo che la sua migliore amica ci fosse per lui. Non gli sto dando ragione, non sono dalla sua parte ma una volta tanto bisogna affrontare le cose comportandosi da adulti. Dan sta soffrendo per quello che ha fatto e solo tu puoi alleviare il suo dolore, perdonandolo. E se non vuoi vederlo o non sopporti proprio l'idea di ciò che lui ha fatto, salutalo. Ma va avanti. Non lasciare indietro qualcosa. Non trascinarti i rimasugli di un passato che potrebbe ferirti ancora», parla pacatamente senza mai prendere un momento per respirare. Alla fine si mette comoda. «Adesso vattene. Hai bisogno di divertirti e di una compagnia meno deprimente della mia.»
Provo ad aprire la bocca per dirle che in realtà non ho nessun programma, lei però mi ferma. «No, devi assolutamente uscire da questo posto. Io sono stanca e credo proprio che mi metterò a dormire. Non sarò di compagnia.»
Aspetta una mia risposta. Prendo fiato gonfiando il petto. «Ok», sussurro sentendomi cacciata via. Raccolgo tutto rimanendo in silenzio. «Buon Natale zia», sussurro.
«Buon Natale Bi», mi saluta.
Mi sento immediatamente sola. Avverto come una folata di vento che mi si scarica sul petto. Mi abbraccio uscendo dalla clinica, camminando per un paio di isolati in direzione del centro abitato prima di chiamare il primo dei due taxi che dovrò prendere per eludere le persone che mi stanno seguendo. Perché sono stata attenta in questi giorni a non farmi notare troppo e, alla fine mi sono resa conto di essere in trappola lo stesso.
Sul secondo taxi chiedo gentilmente all'autista di portarmi a due isolati di distanza dall'appartamento che ho affittato. Il ragazzo, in parte bisognoso di soldi, come mi fa capire dalla breve conversazione che abbiamo, notando forse la mia tristezza, mi regala persino un giro in una parte della città che non avevo ancora avuto modo di vedere. Tutte quelle luci, tutte quelle decorazioni e tutte quelle persone ad affollare i ristoranti, le sale. Alla fine mi sento così in colpa per averlo fatto preoccupare da pagargli un extra.
Entro nel palazzo dall'aspetto trascurato, antico e sporco. Supero l'androne con il pavimento di un beige sporco pieno di puntini di diverso colore, l'ascensore con un avviso attaccato sopra e una striscia di nastro giallo ad indicare il guasto. Salgo le scale strette dalle pareti coperte dalla carta da parati consumata senza fretta e, anche a causa della caviglia quasi del tutto guarita.
Dopo avere aperto la porta marrone che cigola grottescamente, lancio la chiave sul mobile di legno ingiallito dagli anni, chiudo bene la porta e arrancando in cucina mi siedo sul divano avvolgendomi con la coperta perché qui dentro, in questo appartamento di qualche metro appena, non ci sono i riscaldamenti. In parte sono abituata anche a questi piccoli dettagli da non notare la differenza. Tranne adesso che vedo tutto nero nella mia vita.
Recupero un libro studiando poche pagine per sopraffare la noia e, ben presto anche la stanchezza che si fa strada dentro e fuori di me.
Ad un certo punto mi alzo stiracchiandomi. Mi avvicino alla finestra sedendomi sulla soglia aprendo di poco il vetro che sollevo a fatica. Sbircio fuori trovando sulla scala di emergenza poi guardo in su osservando i fiocchi simili a cotone scendere lenti e appiattirsi al suolo creando cumuli di bianco in grado di fare male alle mie iridi sensibili alla luce e sul punto di inondarsi e appannarsi.
Rientrata in casa, accendo la piccola tv guardando un vecchio programma di quiz, ma sentendomi come una vecchietta sola e senza gatti, decido di uscire. Mentalmente organizzo una passeggiata.
Una volta fuori supero due ragazzi che stanno spalando la neve dall'entrata di una lavanderia. Mi salutano e ricambio senza dargli motivo di fermarmi. Non ho proprio voglia di parlare.
Rischio un paio di volte di scivolare ma riesco a tenermi in piedi e lontana dalle brutte figure. Anche se non mi vedrebbe nessuno visto che in giro non c'è quasi anima viva. Chiunque con questo tempo preferisce rimanere a casa, circondato dalla famiglia. Ma io sono sola e devo accontentarmi di me stessa.
Raggiungo chissà come la pista di pattinaggio. Infilo i pattini e prendendo coraggio mi spingo al centro della pista prima di fare due passi indietro.
Sono sola. Sono l'unica a non avere più niente e nessuno. Immagino le persone sedute a tavola a giocare a carte, a raccontarsi qualche aneddoto divertente o a battibeccare prima di abbracciarsi. Immagino gli scambi dei regali fatti all'ultimo minuto, i brindisi e le sorprese.
Mi ritrovo a terra. Chissà come sono appena scivolata senza neanche rendermene conto. E sono giù. Non mi alzo neppure. Mi stendo sul suolo ghiacciato fissando il cielo dalla quale continua a cadere lenta la neve.
Solo quando sento ogni muscolo irrigidirsi mi alzo pattinando ancora per qualche altro minuto prima di tornare indietro.
Passo davanti un locale dove preparano dello yogurt sempre fresco e mi sento mancare. Mi sale proprio addosso il panico, davanti a me si parano molteplici immagini in grado di farmi drizzare la schiena e proseguire sempre più svelta per non permettere alla mia mente di perdersi.
Arrivo a casa con il fiato corto. Mi spoglio e più che infreddolita mi fiondo dentro la piccola vasca di porcellana rosa di questo posto simile ad una casa delle bambole. L'anziana signora che me lo ha affittato, è stata lieta di vedere qualcuno chiuso qui dentro, in mezzo a queste pareti che puzzano di oggetti attempati.
Riempio la vasca di bagnoschiuma immergendomi fino a sopra il mento per scaldarmi, visto che stavo congelando.
Il telefono, lasciato sul ripiano del lavandino, suona ripetutamente. Mi sollevo andando a controllare. Potrebbe essere da parte della clinica, mi dico.
Non riconosco il numero e con il cuore che già si aspetta qualcosa di brutto, rispondo tornando dentro la vasca, il posto più caldo attualmente.
«Pronto?»
«Per un attimo ho avuto il presentimento che non avresti risposto. È bello sentire la tua voce.»
Mi irrigidisco guardandomi intorno, come se dovesse sbucare da un momento all'altro materializzandosi proprio nel bagno. «Non so come hai fatto ad avere il mio nuovo numero ma ho niente da dirti quindi lasciami in pace.»
«Aspetta! Non riagganciare, ti prego...»
«Dovevi pensarci prima, non credi? Io ho chiuso. Da adesso sarà solo prettamente lavorativo il rapporto che avremo, ma neanche, visto che con i lavori sto concludendo e presto ti manderò le chiavi di casa», rispondo freddamente. «Quindi fammi un favore: sii felice con lei, goditi i tuoi nipoti, be', ammesso e concesso che siano solo quello e non cercarmi più. Io ho finito. Ciao Trav...» riaggancio lasciando cadere sul tappetino il telefono prima di scivolare giù. Rimango in apnea per qualche istante, ad occhi chiusi. Il mondo intorno lo sento appena ed è una sensazione così piacevole da volere rimanere così per sempre. Perché per un momento, anche il dolore si allontana.
Quando riemergo in superficie, passo le mani tra i capelli strizzandoli lievemente ed esco solo quando la mia pelle sta diventando raggrinzita.
Mi rivesto indossando un pigiama, i capelli avvolti da un turbante. Mi dirigo in cucina dove preparo una porzione di popcorn e un bicchiere di vino. Seduta sulla poltrona, con i piedi coperti da calze pesanti sotto il sedere, fisso fuori dalla finestra aperta il panorama regalato dalla natura. Dovrebbero chiamare questa scena patetica: "Ritratto di una ragazza sola il giorno di Natale". Oppure: "Ritratto della solitudine natalizia".
Mi sto sentendo tanto schiacciata e tanto asfissiata da non riuscire neanche a mettere in ordine i pensieri che danneggiano la mia mente rendendola un posto impraticabile.
Il telefono lasciato sul ripiano della minuscola cucina ronza di nuovo. Questa volta non mi alzo per controllare. Ho inserito una diversa suoneria per le chiamate. Sono in pochi ad avere il mio numero. Non capisco come abbia fatto ad averlo.
Caccio in bocca un popcorn avvertendo al contempo la nausea. Tappo le labbra e corro in bagno dove vomito aria. Aria e tanto dolore. Mi appoggio alle piastrelle fredde tirando al petto le ginocchia e tappandomi le orecchie scoppio in lacrime.
Ho così tante cose da dire. Così tante cose da aggiustare da non trovare più il modo di rialzarmi. E sono così demoralizzata, così colpita e afflitta da non riuscire neanche a respirare.
Lavo i denti tra i singhiozzi e l'attacco di panico simile ad una crisi asmatica. Pettino i capelli ancora umidi. Non allungo neanche lo sguardo allo specchio perché se solo provo a farlo mi accorgerò davvero che non riuscirò mai a sistemarmi dentro. A sistemare questo cuore malridotto e pieno di aghi che continuano a pungerlo ad ogni palpito.
Mi sposto nel mio piccolo angolo: un letto appoggiato contro la parete, un lenzuolo bianco, due cuscini e il piumone morbido che ho comprato per non morire assiderata nel sonno. Ma poco prima di stendermi, dentro di me scatta un pensiero. Mi siedo guardando intorno ogni mobile, ogni elemento di questa abitazione. E mi sento così estranea da avere il bisogno di vedere qualcosa di davvero mio. Per questa ragione, rimanendo in pigiama infilo un berretto, indosso gli stivali Ugg e un cappotto abbastanza grande da farmi sembrare una barbona, recupero il telefono ed esco di casa.
In giro non c'è niente. Ci sono solo io. Spenta dentro. Spezzata a metà. Con il cuore che batte lento e il dolore che si dirama ovunque ad ogni respiro.
Cammino tra i vicoli silenziosi dove l'atmosfera è inquietante. Supero Times Square, persino Central Park. Raggiungo solo quando è quasi buio, sotto la neve che sembra avermi dato il tempo di una passeggiata così lunga, il cimitero.
Cerco la tomba dei miei genitori e quando arrivo mi siedo accanto alla lapide. Con la mano coperta dal guanto spazzo la neve rivelando i nomi e li osservo in silenzio per qualche minuto.
«Ve ne siete andati troppo in fretta. Non mi avete lasciato niente, neanche un post-it con delle regole da seguire. Mi avete abbandonata così velocemente da non riuscire tuttora a capacitarmi di come questo sia stato possibile. Non mi avete lasciato un foglio con le istruzioni per riuscire a gestire meglio questa vita. Non mi avete lasciato una lettera in cui avrei potuto trovare tutto sui segreti dell'amore. Niente di niente. Ve ne siete andati senza fare rumore. Come una folata di vento vi siete lasciati trascinare altrove. Forse in un paradiso tanto lontano, visto che all'inferno avete lasciato solo me.»
Soffio sui guanti bagnati riscaldando le mani. «Non avete proprio idea dei sacrifici che ho dovuto fare senza di voi. Non avete visto con quanta difficoltà ho dovuto mettere in piedi quello che rimaneva del mio cuore dopo avervi visto morire entrambi a distanza di qualche mese. Era tutto perfetto ai miei occhi e voi... avete deciso di spazzare via quella tranquillità abbandonandomi», dalla bocca sfugge un singhiozzo. Rimbomba ovunque come il lamento di un'anima ferita, come vento che attraversa uno spiffero. Schiarisco la gola fissando ancora quei nomi. «Mi avete lasciata qui da sola ad affrontare le lunghe sedute di terapia di zia Marin, la sua sofferenza che spesso usciva fuori mostrandosi sotto forma di attimi di tristezza e depressione che la spingevano a farsi male, a farmi male internamente. Mi avete lasciata qui a prendermi cura di lei, della sua malattia che peggiorando si è anche trasformata in qualcosa di forte. Un male incurabile che ben presto se la porterà via. Mi avete lasciata qui a vivere un'amicizia senza regole. Dove il bene vige sempre su ogni cosa. Dove le pugnalate alle spalle diventano lividi e poi solo marchi dentro le ossa. Mi avete lasciata qui a sopportare l'assenza di un uomo che è morto dopo essere sparito. Mi avete lasciata...»
Una folata di vento spazza via la neve intorno. Sfioro le incisioni sulla lapide. «Voi non c'eravate. Non ci siete e io... io non ho una guida, non ho una casa, non ho una famiglia. Non ho niente», asciugo le lacrime alzandomi. «Io non ho più niente. Non ho neanche un amore che mi ha trafitto il cuore lasciando un buco profondo e un vuoto incolmabile. Io... non so più niente. Non so chi sono. Non so chi voglio essere. Non so che cosa ne sarà di me tra un giorno, un mese o un anno... io... perché ve ne siete andati?» scivolo in ginocchio singhiozzando come una bambina. «Perché avete preferito abbandonarmi anziché lottare? Perché non avete pensato a me? Siete stati egoisti e io... io vi odio per questo. Vi odio così tanto...» tiro su con il naso scrollando dal viso le lacrime che scendendo rischiano di congelarsi.
Mi alzo. «Non sono mai venuta qui dalla vostra morte perché ho avuto da fare e perché sapevo che sarei crollata come uno stupido castello di carta. Non sono venuta mai a trovarvi perché ho dovuto mettere in piedi una vita priva di affetto, di serenità. Non sono venuta perché voi non siete mai venuti ai miei stupidi saggi, alle riunioni, alle recite o ai balli. Non sono venuta non perché volevo punirvi, ma perché dovevo pensare a risolvere i problemi che voi mi avete lasciato ad affrontare da sola», soffio il naso. «Vi auguro un buon Natale», sussurro e scuotendo la testa per trattenere le lacrime, con il labbro tra i denti e gli occhi appannati, esco dal cimitero buio e silenzioso in cui l'unica anima viva ma in perenne lotta con se stessa: sono io.
Cammino a zonzo per le stradine fino a raggiungere la mia vecchia casa.
Tornarci dopo giorni di lontananza lo ammetto, mi fa uno strano effetto. Ma non c'è più niente. C'è solo una struttura carbonizzata recintata e segnata dal nastro che la polizia ha messo intorno per non permettere ai curiosi di avanzare.
Mi abbasso e camminando lungo il viale supero il portico pieno di schegge bruciacchiate, piene di buchi. Entro spingendo la porta chiusa ma anche essa malmessa e mi ritrovo in mezzo alle macerie. Scostandone qualcuna trovo oggetti ormai rotti. Salgo facendo bene attenzione ai vetri, alle schegge taglienti ritrovandomi nella mia vecchia stanza. Dal tetto aperto sta di nuovo cadendo la neve. Sfioro i mobili anneriti dalle fiamme e non posso fare a meno di piangere, di sentirmi stordita dal caos che mi circonda.
Mi siedo all'angolo, nel punto in cui sono stata trovata. Mi stringo sotto il tessuto inumidito. «Perché proprio a me?» mormoro rivivendo e rivedendo quei momenti. Mi colpiscono, mi feriscono.
Forse ci accorgiamo di avere tanto da dare: tanto amore, tanto affetto, tante attenzioni, tanta fiducia e speranza quando rimaniamo davvero soli al mondo. E questa è una dura realtà da vivere, da affrontare. Questo è un grosso ostacolo da superare.
Il telefono torna a ronzare. Sollevo lo schermo trovando un messaggio.
"Cara B,
Mi dispiace se sto disturbando, ma mi preme dirti alcune cose prima di non assillarti più. Non crederai mai alle mie parole, non dopo quello che in parte hai visto o percepito. Lo so. Ma questo è l'unico modo che ho di raggiungerti e fidati, sto facendo fatica a tenermi lontano, ad accettare la tua volontà. Non l'ho mai fatto ma adesso mi sto sforzando per darti il tuo tempo e lo spazio necessario con la speranza viva nel cuore che prima o poi tu possa perdonarmi.
Volevo solo dirti che ho sbagliato. Avrei dovuto essere sincero sin dal principio. Ho commesso parecchi errori con te, lo ammetto. Alcuni non per colpa mia mentre altri...
Con Jesse non c'è mai stato niente, almeno da parte mia. Non siamo andati mai a letto o oltre. Lei, anni fa ci ha provato con me in un momento di debolezza ed è scattato solo un bacio che ha spezzato ogni equilibrio tra di noi, nel nostro rapporto. Ma da allora io ho espressamente chiarito la questione dicendole di non provare niente per lei, di non poterle dare quello che ha sempre voluto da me. Avrei potuto illuderla. Avrei potuto approfittarmi di lei, delle sue attenzioni, delle sue debolezze. Avrei potuto giocare alla famiglia felice almeno una volta all'anno. Ma non l'ho fatto. Non rientra nella mia personalità. Non fa parte del mio essere.
Jesse non ha accettato la cosa e da allora le mie visite sono state sempre più brevi. L'ho fatto per i miei nipoti. L'ho fatto per regalargli un po' dell'affetto che non avevano mai avuto da parte del padre o della stessa che li ha messi al mondo per tenersi stretto il patrimonio. Ammetto di essere rimasto sorpreso di rivederla dopo tanto tempo e di avere provato una forte emozione. Non posso negarlo. Era evidente dalla mia espressione. Ma non l'ho guardata con amore. L'ho guardata come una persona che ha fatto parte della mia vita e che credevo ci sarebbe stata ancora, nonostante tutto. Invece mi sono lasciato abbagliare dal passato, dell'affetto che ho provato. E adesso, mi sto sentendo una emerita testa di cazzo. Per non avere visto in fretta quello che al contrario lei mi stava nascondendo. Ho fatto male i conti. Ti ho persino messo da parte quando avrei solo dovuto tenerti più stretta a me in quel momento così strano e forte della mia giornata. Avrei dovuto dimostrarti qualcosa proprio perché avevi davanti un membro della famiglia dalla quale sono scappato. Ma non l'ho fatto. Mi sono lasciato abbindolare come uno stupido e me ne vergogno. Mi vergogno di non avere fatto attenzione come faccio di solito. "Falco" forse non mi si addice più questo nomignolo. Ho perso la stoffa.
Per quanto riguarda invece il rapporto con mio fratello non ne parlo perché non ho mai rispettato le sue scelte. Non abbiamo mai avuto affinità, tanto meno spirito di fratellanza. Lo ammetto e non me ne vergogno, ci sono stati momenti in cui mi sarebbe piaciuto avere un fratello dalla mia parte. Guardarlo con orgoglio e vedere nei suoi occhi la stessa emozione. Invece mi sono sempre ritenuto figlio unico. Fatto di un'altra pasta.
Ho sempre dovuto fare i conti con la mia strana personalità. Mio padre per questa ragione mi ha punito costringendomi ad abbracciare la divisa come unico amore, unico affetto, unica casa, unica famiglia. Da allora sono cambiate molte cose. Ho vissuto momenti che non dimenticherò mai e altri che infesteranno costantemente ogni sogno, ogni notte.
Dopo l'incidente ho chiuso i ponti con tutti perché in fondo, volevo essere come le aquile. Ma, a quanto pare: dal passato non puoi scappare per sempre. Ma puoi sempre decidere come vuoi vivere. Puoi sempre scegliere le persone che vuoi avere al tuo fianco.
Io non so a cosa stai pensando mentre leggi queste parole digitate freneticamente dalla tastiera su uno schermo, ma so cosa penso e cosa provo io attualmente. Credimi: mi dispiace davvero tanto per le mancanze che ho fatto nei tuoi confronti. Tu ci sei stata. Con alti e bassi, certo, ma ci sei stata per me. Nel bene e nel male, nonostante le fughe improvvise e gli scoppi di ira, non mi hai mai abbandonato e non mi hai mai giudicato. Hai sempre rispettato i miei confini spronandomi, facendomi uscire poco per volta, mostrandomi quanto possa essere bello il mondo quando vivi per troppo tempo immerso e circondato nel buio, nella solitudine. Tu ci sei stata, mi hai accarezzato l'anima senza mai farle del male e invece io ho continuato a tenerti a debita distanza da me. Non l'ho fatto di proposito. Il fatto è che non sono abituato a certe attenzioni e spesso rischio di mandare a puttane tutto.
Sei stata la prima persona estranea a vedere il mio viso. Sei stata la prima a togliermi la maschera, a farmi capire che non sempre questa potrà proteggermi e che devo essere io quello a superare ogni paranoia o paura perché ormai sono quello che sono. Sei stata tu quella a salvarmi, non sono stato io. Io ti ho solo delusa quando tu hai avuto più bisogno di me. Ti ho messa da parte per illudermi e di questo non mi perdonerò mai. Perché hai vissuto l'inferno, io ti ho costretta a seguirmi e alla fine ho rovinato tutto. Sono stato così coglione, così idiota da perdere tutto.
Quando ti ho vista per la prima volta, ho capito che c'era qualcosa che nascondevi bene. Mi hai sempre detto di non avere paura di perdere chi ami ma di avere paura di essere abbandonata senza una ragione, di non riuscire a trasmettere quello che provi e di non lasciare niente di te agli altri. Ma ti sbagliavi. Tu hai paura di dare tanto e di rimanere svuotata. Hai paura di amare perché non sempre si viene ricambiati. E ti sbagliavi anche su questo. Perché io quando sei piombata nel mio ufficio e mi hai affrontato. Quando mi hai accettato senza disgustarti. Quando sei scoppiata a ridere prendendo alla leggera la storia del mio aspetto. Quando ti sei addormentata senza paura di poter essere rapita o chissà che altro, li io ho capito di volere restare accanto a te. Perché tu hai accettato le mie cicatrici e io ho accettato i tuoi momenti difficili.
Forse mi prenderai per stupido, per bugiardo o semplicemente per un coglione ma... non ho mai amato una persona come sto amando te adesso. E mi manchi. E mi fa impazzire il pensiero di averti persa per una stupida omissione. Non sono stato coraggioso. Non sono stato un vero uomo. Non ti ho affrontato perché avevo il timore di perderti. Ma, alla fine ti ho persa lo stesso. Perché lo so che non torni indietro. Non l'hai fatto. Non lo farai.
Ci sono così tante cose che vorrei dirti ma non riesco a non pensare ai tuoi occhi, non riesco a dimenticare le ultime parole che mi hai rivolto. Mi hanno ucciso. Mi hanno fatto sentire privo di forza. Mi hanno tolto i battiti e il respiro. Perché perderti è stato come perdere un pezzo di me stesso. Perderti è stato come perdere quel frammento del mio cuore che tu sei riuscita ad incastrare senza provocarmi dolore. Adesso però è tutto vuoto. Tutto silenzioso. Tutto spento. Tutto senza di te.
Ti prego, se c'è ancora una sola possibilità... non lasciarmi. Ti prego, perdonami.
Ti amo,
- Travis."
♥️🎄
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro