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3 ~ Incontri causali

Sergio rimase interdetto e si ripeté mentalmente le parole del ragazzo. Ragazzo, non uomo, perché guardandolo da vicino notò che i suoi lineamenti erano più giovanili di quello che aveva creduto in un primo tempo. Era l'insieme a ingannare: i capelli perfettamente pettinati, piegati in uno stile un po' demodé. Il sottile velo di barba che gli incorniciava labbra e mento, lasciando le guance pulite. Gli occhi grandi, dalle ciglia lunghe, che gli ricordavano un po' quelli di Antonia – o forse era suggestione dovuta al fatto che sapeva che erano imparentati. Anche i suoi, tuttavia, erano castani, tempestati di pagliuzze verdi. Forse era una cosa genetica, un tratto distintivo della loro famiglia. Anche il suo abbigliamento stonava con il suo viso da ragazzino, dato che indossava una camicia a maniche corte, pantaloni dal taglio elegante. Sì, nell'insieme dava l'idea di essere più adulto di quello che, invece, il suo volto suggeriva.

«Non stavi contando i gradini?»

«Come?»

«Scusa.» e il giovane fuggì dal suo sguardo. Gli voltò le spalle e fece per andarsene, poi ci ripensò e tornò a girarsi verso di lui. «Ciao.» disse e ancora una volta si mosse per andarsene.

«No, aspetta!» lo richiamò e l'altro si fermò, fissando un punto imprecisato sul marciapiede, vicino ai suoi piedi. «Centonove?»

«A destra. Centoundici a sinistra.»

Sergio credeva che sarebbe passato per stupido se gli avesse rivelato che non stava contando i gradini, ma dirigendo un'orchestra immaginaria. Scrollò la testa e decise di tenere per sé quel particolare. «Sono tanti.»

«Sono bassi. Non fa fatica salirli. Anche perché ci stanno le passerelle che smorzano la salita.» continuò il giovane, indicando con un dito le scale della Praiola.

Sergio non seguì la traiettoria del suo gesto, preferendo restare a fissare il suo profilo. Sembrava concentrato, come se Sergio fosse un turista a cui fornire spiegazioni e lui si stava davvero impegnando per farlo nel migliore dei modi, difatti, poco dopo, iniziò a raccontargli del perché la Praiola fosse chiusa al pubblico – anche se Sergio lo sapeva già.

«Questa è la spiaggia principale del paese. Quella del Magaggiari appartiene a Cinesi. A Cala Rossa non c'è spiaggia. Solo una piccolissima, ma è pericoloso scendere pure lì e ci possono stare non più di quattro persone.» il giovane si zittì, forse rendendosi conto che Sergio non aveva pronunciato mezza parola da quando lui aveva iniziato a parlare. «Non ti interessa.»

«Ah, no. Ti stavo ascoltando, invece.»

«Ma non ti interessa.»

«Mi interessa.»

Troppo tempo, pensò. Sapeva che era trascorso troppo tempo da quando aveva avuto una conversazione che andasse oltre i convenevoli, con qualcuno. Forse non era più in grado di avere a che fare con quel genere di situazioni.

«Ti ho visto al museo.» disse il giovane, strappandolo dai propri pensieri.

«Come?»

«Al museo.»

Sì, ma come? – avrebbe voluto chiedergli, ma tacque. Credeva davvero di essere passato inosservato anche a lui, ma, evidentemente, si sbagliava. «Ci lavoro, nel museo.»

«Ho visto.»

«Tu... vieni spesso.» si lasciò sfuggire Sergio, pensando soltanto in un secondo momento che quella sua osservazione sarebbe potuta passare per qualcosa di fraintendibile. Non voleva che l'altro pensasse di essere stato stalkerizzato da lui.

«Tutti i giorni. La mia professoressa di Museologia sosteneva che un museo è un luogo fatto per essere parte della sua società. Ma per entrarti dentro, devi visitarlo spesso, una volta non basta.»

«Hai studiato arte?»

«Sì.»

«Anch'io.»

Il giovane non rispose e tornò a distogliere lo sguardo da lui.

Sergio trasse un profondo sospiro, iniziando a sentirsi un po' a disagio. Sbirciò l'ora sul cellulare, rendendosi conto che mancavano meno di venti minuti all'inizio di un nuovo giorno di lavoro.

Lavoro.

Qualcosa di essenziale che gli permetteva di sopravvivere. Nulla a che vedere con i suoi sogni di ragazzino che sperava di diventare un artista.

Perché Sergio non credeva ai sogni e la vita gli aveva dato conferma che, sì, sognare era solo una perdita di tempo. E ne aveva perso tanto, di tempo, inseguendo sogni che poi non si erano realizzati. Così, a trentadue anni, si trovava a svolgere un lavoro per cui non aveva speso neanche un secondo del proprio tempo sui libri, mentre quello per cui aveva studiato era presto diventato un sogno irrealizzabile.

Immaginò come dovesse apparire all'altro.

Un fallito. Ma era esattamente quello che spesso lui stesso sentiva di essere, anche se il suo lavoro, in fin dei conti, gli piaceva pure.

Rapportarsi con gli altri, tuttavia, implicava il rischio di arrivare a quel punto, quello dove si trovava costretto a mettere a voce le dinamiche della vita che lo avevano condotto fino a lì, incassando l'immancabile sguardo pietoso o accusatore del proprio interlocutore.

Poverino, sei stato sfortunato.

Che idiota, non hai fatto abbastanza.

Quanto tempo sprecato – gli ripeteva spesso suo padre.

La cosa ironica era che lui era ormai diventato insofferente a quelle "accuse", ma le trovava almeno bizzarre. Prive di logica. La sua vita aveva tracciato una strada strana, forse, ma gli piaceva. Non era un poverino né un idiota. Non si sentiva di esserlo.

«Ti sto disturbando.» disse il giovane e Sergio si accorse che la sua espressione era impassibile, nulla di tutto quello che si era aspettato traspariva dal suo volto. Non lo stava nemmeno guardando, ma si era limitato ad alzare lo sguardo dal marciapiede fino alle sue ginocchia.

«No. Ma tra poco devo andare al lavoro.»

«Okay.» disse il giovane e gli volse di nuovo le spalle e di nuovo si fermò, e tornò indietro di un passo. «Ciao.» e fece per andarsene ancora.

«Non mi hai detto il tuo nome.» lo richiamò e l'altro reclinò il capo da un lato.

«Non me l'hai chiesto.»

Sergio ridacchiò. «E tu non hai chiesto il mio. Quindi... va bene così?»

«Sergio, I, punto.»

«Ah.» fece Sergio e aggrottò la fronte. L'altro si picchiettò il petto con un dito, all'altezza del cuore, e l'uomo comprese che doveva avere letto il nome del cartellino che teneva attaccato alla maglietta, durante il lavoro.

«Ingrassia. Sergio Ingrassia. Però, il tuo non me l'hai ancora detto.»

Il giovane si strinse nelle spalle, tornò a reclinare il capo da un lato.

«Marco.»

«Ti chiami Marco e basta?»

«Non mi chiamo.»

«Giusto...» balbettò Sergio, iniziando a sentirsi un po' confuso. E poi, stava rischiando di arrivare tardi al lavoro. Tuttavia, non riusciva a staccarsi da lì, con le mani dal parapetto, con gli occhi da Marco. Anche se lui continuava a non ricambiare il suo sguardo. Si sollevò una leggere brezza di vento e un paio di gabbiani stridettero nel cielo. Una motocicletta attraversò la strada con un gran rombare del motore e dentro la testa di lui fu come se la vita intorno tornasse a scorrere. Per quanto era rimasto sospeso nel tempo?

«Qual è il tuo nome completo?» gli chiese e nel frattempo si mosse verso il museo. Marco si scansò un po' e lo lasciò passare.

«Marco Chiaramonte. Fa strano, no?»

«Cosa?»

«Sembra di rispondere all'appello!» esclamò Marco e ridacchiò.

Sergio scosse la testa e sorrise a sua volta. «Devo andare, magari ci vediamo più tardi al museo?»

«Ciao.» disse Marco e quella volta gli voltò le spalle senza più tornare indietro.

Sergio lo osservò allontanarsi, le mani in tasca, le spalle un po' curvate in avanti, la testa bassa.

Non sembrava pazzo per niente.

Strano? Forse.

Ma cosa rende le persone strane? si chiese, avviandosi verso il museo. Arrivò in perfetto orario – e non sarebbe potuto essere diversamente, visto che il luogo distava meno di cinquanta passi dalla Praiola. Li aveva contati, come Marco aveva contato i gradini delle scale che scendevano in spiaggia.

«Che ci facevi con mio cugino?» lo investì Antonia appena mise piede nell'ingresso del museo.

Erano soli. La stanzetta riservata al personale era buia, le pareti per metà in vetro permettevano di guardare dentro, e non c'era nessuno.

«Ci siamo incontrati per caso.» le disse, evitando di farle presente che neanche lo aveva salutato prima di aggredirlo a quel modo.

Marco lo aveva fatto per tre volte.

Antonia era strana.

«Evita.» disse lei e distolse lo sguardo accusatore da lui, trafficando nervosamente con il registro che teneva sulla sua scrivania.

«Cosa?»

«Di incontrarlo per caso.»

Antonia era davvero strana.

Sergio aggrottò la fronte. Forse non credeva che il suo incontro con Marco fosse stato frutto di una vera casualità?

Ma, soprattutto, cosa importava a lei?

«L'ho incontrato davvero per caso.»

Antonia gli rivolse uno sguardo tagliente, ma non aggiunse altro.

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