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2 ~ Nulla di fuori dall'ordinario

La casa che Sergio aveva trovato in affitto, in paese, non distava molto dal museo. Pochi metri sul lungomare, superando Cala Rossa, arrivando in una piazzetta in cui una statua in bronzo faceva da punto di riferimento. Situata al centro, su un piedistallo di marmo, così erosa dal tempo e dall'incuria che non aveva ancora capito cosa raffigurasse. Non che gli importasse granché, era solo un altro punto che lo aiutava a muoversi in quello spazio per lui ancora poco conosciuto.

Girò a sinistra e procedette verso la fine della strada, superando case a un piano o due, i residence, arrivando in un'altra zona composta perlopiù da abitazioni indipendenti. Quella in cui viveva lui si innalzava su tre livelli. Entrò in casa, muovendosi al buio come un gatto. Gli ambienti non erano troppo grandi e lui aveva già imparato a riconoscerli, a muoversi al loro interno con naturalezza, come se avesse sempre vissuto lì. Oltrepassò la cucina, fece una capatina al bagno per farsi una doccia e poi, in pigiama, salì al piano superiore. Attraversò la camera da letto e ancora su. All'ultimo piano c'era solo uno sgabuzzino che dava direttamente sulla terrazza. Uscì all'aperto e si accomodò su una sdraio. Gli bastava alzare gli occhi per sentirsi ammantato dallo sconfinato nero bluastro, trapuntato di stelle, del cielo. C'era odore di salsedine, di sabbia e, se si concentrava, poteva sentire persino il rumore del mare arrivare fino a lui – o forse era solo suggestione.

Quando non si trovava in mezzo agli altri, non sentiva neppure la mancanza della sua vecchia casa. Il paese era un po' così, un po' restio ad accettarlo, ma lì, nella sua nuova casa, Sergio si sentiva pienamente a suo agio. Solo. Non aveva bisogno di nessuno per sentirsi completo, gli piaceva la solitudine.

E gli importava poco che questo potesse renderlo strano agli occhi degli altri.

«Il pazzo?»

La voce di Luca gli risuonò nelle orecchie, spezzando l'incanto.

Fece una smorfia e si tirò a sedere. Recuperò le sigarette da terra, lì dove le aveva lasciate appena uscito in terrazza, accanto all'accendino, il cellulare, e una bottiglia d'acqua. Faceva un po' fresco, la sera, nonostante maggio fosse già iniziato da un pezzo – forse per via della vicinanza con il mare.

Rabbrividì e scrollò le spalle, cercando di smorzare i brividi, si alzò e si affacciò dalla terrazza. La sigaretta tra due dita, il buio e i suoi occhi che scrutavano sotto, la strada, poco illuminata da sporadici lampioni. Era già passata la mezzanotte da un po', lo scoprì sbirciando l'ora sullo schermo del proprio cellulare, e cercò di ignorare l'immagine che teneva come sfondo e che, ancora, non era riuscito a cambiare. Riportò l'attenzione sulla strada.

Probabilmente mi sono addormentato, pensò, altrimenti non avrebbe saputo spiegarsi che fine avessero fatto le quasi quattro ore trascorse dal momento in cui era rientrato a casa fino a quello.

E non aveva cenato, ma non aveva molta fame.

I suoi occhi catturarono una sagoma che si staccava dalle ombre lunghe della notte e, istintivamente, si tirò un po' indietro. Forse per una paura irrazionale o forse perché non voleva essere visto.

Un'altra sagoma e un'altra ancora.

Tre ragazzi e un quarto li raggiunse poco dopo, spingendo un motorino spento. Si fermarono in piazza, sotto alla statua, e iniziarono a scambiarsi chiacchiere a bassa voce, una sigaretta e un paio di bottiglie di birra. Poi le loro risate si fecero più moleste e Sergio aggrottò la fronte, disturbato dalla cacofonia di quei suoni che stridevano con l'atmosfera raccolta della sera. La stagione estiva non era ancora ufficialmente iniziata. Era stata una delle prime cose che il suo padrone di casa gli aveva detto, durante il loro primo incontro.

«Ma poi arrivano i palermitani, senza offesa. E si affittano le case e per tre mesi qui non c'è differenza tra giorno e notte. Una caciara continua. Qua è tranquillo, però, perché è abbastanza lontano da Villa a Mare. Fanno un sacco di eventi lì. Se non montano le giostre, quest'anno, puoi stare tranquillo che il casino non lo senti.»

Ma le case ai palermitani le affittate voi – avrebbe voluto rispondergli Sergio, ma era rimasto in silenzio, preferendo non esporsi a eventuali ripercussioni. Quella casetta gli era piaciuta subito e non aveva voluto che il proprietario decidesse, all'improvviso, di non dargliela in affitto.

Altri schiamazzi e i suoi pensieri si interruppero di colpo.

Quindi, questi, sono del paese, dedusse, ma gli suscitarono lo stesso una sensazione spiacevole – stavano facendo davvero troppo casino per l'ora che era, di un qualsiasi giovedì. Nessuno a cui venisse in mente di zittirli? Eppure, Terrasini era un paese di pescatori e Sergio immaginò che a molti potesse dare fastidio essere disturbati due ore prima della sveglia.

Ma loro sono del paese, quindi va bene.

Il giorno successivo si svegliò prima del solito, spinto dai morsi della fame. Scese traballando in cucina, stando attento a calibrare bene le distanze tra un gradino e l'altro: la scala era molto ripida e stretta e aveva rischiato di cadere già un numero imbarazzante di volte, da quando viveva lì.

Arrivò integro per miracolo, con una caviglia un po' indolenzita a causa di uno scivolone che era riuscito a non trasformare in caduta, puntando i piedi. Scrollò le spalle e si avventò sul frigorifero, aprendone lo sportello.

Vuoto.

Cazzo, si disse e sollevò gli occhi verso l'alto soffitto a botte. I tetti alti erano tipici della zona: anche quello gli era stato detto dal padrone di casa.

Uscì di casa poco dopo. Non aveva tempo per fare la spesa, ma aveva fame, dato che aveva saltato la cena, la sera prima. Percorse a grandi passi il lungomare, superò il museo, girò a sinistra verso una discesa abbastanza ripida. Non erano rade le inclinazioni di quel tipo del manto stradale, dato che l'intero paese era stato modulato per sollevarsi un po' dal livello del mare. Entrò in uno dei bar più conosciuti del paese, abbastanza da essere già sovraffollato alle sette e mezza del mattino. A Sergio non piaceva stare in mezzo alla confusione e temeva sempre di rischiare di non passare inosservato. Dopotutto, era esile, sì, ma alto, troppo alto. Sembrava uno spaventapasseri e lo sapeva. Era una di quelle cose che i suoi vecchi compagni di liceo non si erano mai risparmiati di sottolineare.

Dopo aver fatto colazione, scambiato due parole con il barista, proprio perché obbligato da insensati convenevoli, uscì dal locale.

Detestava l'insistenza con cui veniva spesso bersagliato da domande dai paesani, sconosciuti che vedevano "una faccia nuova" – la sua – e cercavano di scoprirne di più sul suo conto.

Resterebbero delusi dalla verità. Meglio lasciarli spettegolare, si disse con un sorriso, mentre accendeva una sigaretta e si dirigeva verso il museo.

Era appena uscito dalla stradina che sbucava sulla Praiola e sollevò lo sguardo verso l'orizzonte, la linea sottile che separava il cielo dal mare. Si avvicinò al parapetto e guardò verso il basso, verso la spiaggia chiusa al pubblico a causa di un rischio crollo delle pareti rocciose, le stesse che la chiudevano in un abbraccio. Era uno di quei spettacoli mozzafiato che gli permettevano ancora di sorridere, come l'arte. La bellezza in grado di salvare, di restituire pace anche all'animo più irrequieto, proprio come il suo. Lui era stato salvato dalla bellezza, dall'arte. Il mondo fantastico dentro cui si era rifugiato quando aveva capito che la società in cui viveva non aveva abbastanza posto per lui – se non in fondo al corridoio, l'ultima porta a destra, il primo o il secondo cunicolo non aveva importanza, la testa dentro il water e giù lo sciacquone. Quante volte si erano divertiti, grazie a lui, i suoi compagni di liceo. E suo padre che lo considerava un bamboccione perché menava poco. Sua madre che vedeva in Sergio il ragazzo perfetto, ammantato di perfezione e proprio non riusciva a concepire che potessero esserci cose meno perfette, intorno a lui.

Nulla di fuori dall'ordinario, si disse e sbuffò una nuvoletta di fumo, per poi spegnere la sigaretta nel posacenere portatile che teneva sempre in una tasca dei pantaloni, Sì, potrebbero davvero rimanere delusi, e sorrise. Sollevò un dito in aria, immaginandosi di essere il direttore di un'orchestra che guidava l'esecuzione di una musichetta, un po' ironica, da porre come conclusione ai suoi stessi pensieri stupidi.

«A destra sono centonove gradini, a sinistra, centoundici.» disse qualcuno e Sergio si girò di scatto, trovandosi faccia a faccia con il visitatore abituale del museo.


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