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1 ~ L'uomo invisibile

Un ragazzo sedeva sulla panchina di legno, verniciato di nero, al centro della stanza, davanti la teca riservata alle tartarughe Caretta Caretta.

La schiena rigida, i capelli corti e pettinati con cura. Si potevano vedere i segni del pettine, che aveva separato le ciocche brune in linee sottili, fissate dal gel.

Sergio non poteva vedere altro, dal punto in cui si trovava, a stento riusciva a scorgere anche la parte superiore della camicia che indossava, ma lo riconobbe subito.

L'unico visitatore ancora nel museo. Un visitatore abituale.

Era uno di quei giorni da calma piatta. Pochi turisti, tanto silenzio. Le stanze del museo sembravano addormentate, contenitori di cose che avevano smesso di essere vive.

Quando manca il fiato, però, non sempre manca la vita e Sergio lo sapeva bene. Era una di quelle cose di cui più amava essere testimone, facendo il suo mestiere. Del museo era l'uomo invisibile, quello in grado di rendere le superfici vitree delle teche così linde da suggerire l'impressione di essere state rimosse. Quello che permetteva ai visitatori di fare rumore con le suole delle scarpe, passo dopo passo sul pavimento brillante e passato di cera. Invisibile, perché nessuno entrava in un museo, di certo, per guardare l'inserviente delle pulizie. Una figura che l'inconscio suggerisce esistere, ma a cui non si presta alcuna importanza, come se un museo, in fin dei conti, fosse esente da polvere e sporcizia: troppo prezioso per essere contaminato da cose così umane e insignificanti.

A Sergio non importava granché di essere l'uomo invisibile, anzi, adorava esserlo.

Non gli piaceva stare al centro dell'attenzione e da lontano, da vicino, nascosto tra le ombre, fuori dalla vista di coloro che lo circondavano, si confondeva bene con l'ambiente – agevolato anche da un fisico esile, seppur fosse abbastanza alto da poter guardare, spesso, gli altri rivolgendo lo sguardo verso il basso – e poteva impiegare il suo tempo, tra una cosa e l'altra, a studiare la persone. Gli piaceva studiare le persone, cercare di indovinare i gesti, le espressioni, le emozioni nascoste dietro quell'atteggiamento impettito tipico di chi visita un museo. Compostezza, movimenti misurati, voce modulata a un volume molto basso. Passi brevi e il filo di panico che illuminava il viso di chi, di tanto in tanto, si faceva sfuggire un'esclamazione di troppo.

Non si disturba l'Arte. Si assiste in rispettoso silenzio, ma il silenzio è solo una bolla, uno scudo, e ogni persona dentro contiene un mare di voci.

Un passatempo stupido, pensò, riscuotendosi come se avesse trascorso gli ultimi istanti a sognare ad occhi aperti. E forse era pure vero.

Sognare.

Sergio non sapeva sognare. Era un uomo pragmatico, sosteneva, ma poi studiava di nascosto i visitatori del museo.

Gli piaceva quel museo, non era il primo in cui lavora, sapeva come prendersi cura di ciò che custodiva, ma in quello, Palazzo D'Aumale, era arrivato da poco più di una settimana. Non gli piaceva la gente che lo visitava, però. Troppo poca, la gente che lo visitava. Palazzo D'Aumale pareva più un angolo di storia dimenticata pure da Dio. Quando arrivava qualcuno, le guide – tutte tranne Luca – sembravano illuminarsi come lampadine al neon, ed era strano, ma anche bello vedere qualcuno emozionarsi tanto davanti la prospettiva di poter eseguire il proprio lavoro. Il più delle volte, le guide, poltrivano nella stanzetta a loro riservata, nell'ingresso, oppure cercavano di ingannare il tempo facendo la corte ad Antonia – tutte tranne Carla –, che stava sempre seduta, sempre in rigida attesa, in biglietteria.

Il lavoro di Sergio, invece, non finiva mai. Non aveva bisogno che qualcuno arrivasse, gli bastava passare da un salone all'altro e quello precedente pareva già essere di nuovo bisognoso delle sue attenzioni. Un lavoro infinito.

La polvere si sollevava al suo passaggio e, appena lui girava le spalle, eccola pronta a depositarsi di nuovo.

Trasse un sospiro che risuonò per la sala come un alito di vento. Vuota, immensa.

No, non vuota.

Restava un visitatore.

Aggrottò la fronte, strinse il manico della scopa con entrambe le mani e vi appoggiò il mento. Si sentiva sicuro, nell'angolo, fuori dalla traiettoria di possibili sguardi.

Lavorava nel museo da poco più di una settimana e non era trascorso giorno in cui, l'uomo in questione, mancasse di presentarsi. Arrivava sempre intorno allo stesso orario, girava per le sale e poi sedeva sempre nello stesso punto, davanti le tartarughe. Restava non più di mezz'ora e poi, ancora, in silenzio, andava via. Le guide lo conoscevano, Antonia lo conosceva, e veniva accolto sempre con una smorfia, e Sergio non aveva mai sentito nessuno proporsi di accompagnarlo in visita.

Anche quel giorno lo vide alzarsi, guardarsi intorno, andare via.

Finì di spazzare il pavimento, raccolse gli attrezzi da lavoro e si diresse verso l'ingresso del museo.

Ormai era quasi ora di chiusura.

«Ma quel tizio viene proprio sempre?» chiese e Antonia si girò di scatto verso di lui. Stava indicando con un dito in direzione del lungomare, verso la Praiola, dove, sul marciapiede, si poteva ancora scorgere la sagoma dell'uomo mentre si allontanava.

Antonia doveva avere compreso a chi si stava riferendo, ma si limitò a stringersi nelle spalle, senza dargli risposta. E Sergio percepì le rughe della propria fronte farsi più profonde.

«Il pazzo?» gli domandò Luca.

«Perché, è pazzo?»

«Nah... non proprio.» disse Filippo, distogliendo la propria attenzione da Antonia, ma il collega lo interruppe subito.

«Lo sanno tutti in paese, non ci sta con la testa. È strano. Fa cose strane.»

«Io ci andavo a scuola insieme.» si intromise Carla. Sergio la fissò in silenzio per un paio di secondi. Avrebbe dovuto chiedere perché consideravano quell'uomo un pazzo? Che intendevano per "fa cose strane"?

Però non gli interessava granché.

È coetaneo di Carla. Quanti anni ha, Carla? si chiese, perché, davvero, quella era l'unica domanda che gli premeva, in quel momento. Avere un target di riferimento in cui collocare lo sconosciuto, magari cercando di darsi delle risposte che avrebbero suscitato in lui altre domande per le quali dover cercare altre risposte.

E "l'indagine" avrebbe avuto inizio.

E chissà cosa avrebbe scoperto su di lui. Lo affascinava studiare le persone e quell'uomo lo incuriosiva proprio. Otto giorni a Palazzo D'Aumale e otto giorni di incontri con quell'uomo, ma restava sempre così rigido e silenzioso da avere portato la sua curiosità a picchi non spiegabili a parole.

«Non è pazzo.» borbottò Antonia a mezza voce e lui spostò di nuovo l'attenzione su di lei. I capelli bruni, gli occhi di un castano morbido, illuminato da pepite verdi. Il profilo greco e le labbra forse troppo sottili. Sergio non sapeva se quelle caratteristiche la rendevano bella in modo obiettivo. Era una donna e per lui tutte le donne erano belle allo stesso modo, in quanto tali, in quanto donne.

«Ah,» fece Carla e si portò una ciocca di capelli dietro un orecchio, imbarazzata. «Avevo dimenticato che è parente tuo.»

«Mio cugino. E non è pazzo.» ribatté Antonia e la sua voce si tinse di un'emozione spinosa.

«Non lo sapevo.»

«Sei arrivato da una settimana, Palermo.» disse lei con tono ironico e Sergio aggrottò la fronte, ancora. Non gli piaceva che lo avessero già marchiato, etichettato come il "palermitano, quello di Palermo, lo straniero che viene da fuori".

Terrasini e Palermo distavano circa trentacinque chilometri. Per la gente del luogo sembravano sufficienti a rendere lui il forestiero proveniente dalla città. Quello da cui tenersi alla larga, quello diverso. Quello di Palermo.

«Che cosa sono quelle facce?» e tutti si voltarono in direzione della stanzetta riservata al personale, mentre Tommaso ne veniva fuori, come al solito, tirandosi i pantaloni verso l'alto. Per quale motivo indossasse la cintura se poi non gli reggeva i calzoni, per Sergio restava un mistero.

«Stavamo scambiando due chiacchiere.» disse subito Luca, come se cercasse una giustificazione e forse fu proprio quello che tentò di fare, perché Sergio lo sapeva, aveva già inquadrato il tipo, e sapeva che Luca "corteggiava" Tommaso da un po', perché sperava di prendere il suo posto, un giorno, e finire per dirigere il museo, a non fare ugualmente niente, ma con uno stipendio doppio rispetto a quello che incassava come guida. Tommaso aveva una cotta neanche troppo velata per Carla, e Sergio l'aveva capito già dal loro primo incontro. Forse i due avevano persino una relazione, ma Tommaso era sposato e Carla sembrava – e forse lo era – trent'anni più giovane di lui.

«Siamo in chiusura.» disse Tommaso e puntò i suoi occhi scuri direttamente su Sergio, con diffidenza. «Tu hai finito, Pale'

«Ho finito.»

«Bene. Andiamo a casa, che oggi sono stanco.»

Come se avesse lavorato per davvero, quel giorno. 

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