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Capitolo 1: Charlton Park



1822



«Sta' attenta a Napoleone, morde di tanto in tanto quando gli porti da mangiare» la signorina Murray ridacchiò mostrando i denti giallastri. Io mi voltai verso il recinto dei maiali ed intuii subito che Napoleone doveva essere quello più grasso, borioso e sporco di tutti.

«Mary, la sguattera che c'era prima di te, si alzava tutti giorni alle quattro e accudiva maiali e galline raccogliendo le uova prima che le cuoca entrasse in cucina. Che cara ragazza! Ha fatto proprio bene il reverendo a sposarla e lei non avrebbe potuto trovare partito migliore, vista la sua condizione» la signorina Murray aveva un forte accento scozzese e a volte mi sfuggiva perfino qualche parola, soprattutto quando parlava così velocemente di cose e persone di cui non ero al corrente.

«Poi andrai nei saloni del pian terreno e pulirai i camini» continuò la signorina Murray rientrando in casa dalla porta secondaria della servitù. Percorremmo insieme l'angusto corridoio fino alle cucine da dove veniva un intenso profumo di cannella. Erano quasi le cinque del pomeriggio e il personale stava preparando tutto per l'ora del tè. Quel giorno, da quel che avevo capito, ci sarebbero stati ospiti importanti.

«I camini te li mostrerò stasera quando tutti saranno andati a letto» continuò la signorina Murray. La sua persona era snella e dinoccolata, aveva la pelle pallida, il naso leggermente adunco e i capelli striati di bianco erano raccolti con ordine sulla nuca. Non doveva avere più di quarant'anni, ma il suo sguardo segnato la invecchiava e tradiva una vita di sacrifici e fatica.

«Dovrai essere un'ombra, principessa» disse in tono canzonatorio fermandosi di fronte alle scale di servizio che avrebbero portato alla mia stanza, in soffitta.

Il motivo per cui mi avevano già affibbiato quel soprannome non mi era certo oscuro. Non avevo le mani di una lavoratrice, la postura di una cameriera o il portamento di una sguattera. Mi avevano educata fin da piccola per essere la moglie di un nobile, una contessa, una Lady, perfetta in ogni aspetto. Una Lady, certo... ora in compagnia della brutta copia di Napoleone. Inoltre il mio nome e la mia sfortunata storia erano di dominio pubblico. Probabilmente il personale di Charlton Park aveva ricamato riccamente sulle mie sventure ancora prima che raggiungessi la tenuta.

«Nessuno deve vederti, nessuno deve sapere che esisti, specialmente il padrone o i suoi invitati» disse tornando seria.

«Non vi preoccupate, signorina Murray» dissi con tono educato e posato.

«Bene» lei si pulì le mani sul grembiule anche se non erano sporche; probabilmente un gesto dettato dall'abitudine dei lunghi anni di lavoro alle dipendenze della famiglia.

«Ti spiegherò il resto quando la casa sarà vuota. Per il momento sali a sistemare le tue cose e cerca di riposare, inizierai stasera» concluse.

Feci segno di sì con il capo e la superai iniziando a salire la stretta scala a chiocciola.

Quando entrai nella stanza, l'odore di chiuso e di muffa mi colpì le narici come una frustata. Andai subito alla finestra e lasciai entrare l'aria fresca di settembre. Fui subito rigenerata e sperai che quella sensazione durasse il più possibile. Poi, poggiandomi con la schiena al davanzale, mi guardai intorno: la camera era abbastanza spoglia, vi erano due letti dalle lenzuola di cotone grezzo che, probabilmente avevano visto giorni migliori; a sinistra della finestra c'era una armadio a due ante, piccolo e con dei fiori sbiaditi disegnati sopra; di fronte all'armadio una toletta con un minuscolo specchio macchiato ed una brocca sbeccata. In un angolo, una stufata a carbone. La finestra e la porta erano la fine e l'inizio di un corridoi formato dalle due brande di ferro e dal mobilio di fortuna.

Per un attimo, ma solo per un istante, cedetti alla tentazione di chiudere gli occhi e di tornare con la mente alla mia vecchia stanza: era grande quattro volte quella in cui mi trovavo in quel momento, il rosa pesca e l'avorio erano i colori predominanti e i mobili, insieme alle raffinate suppellettili, donavano al tutto un'aria di infinita eleganza e nobiltà.

Fui scossa dai miei ricordi quando qualcuno bussò alla porta.

«Principessa, la tua divisa» la signorina Murray entrò senza aspettare che le dessi il permesso.

«Vi ringrazio» dissi quando posò un fagotto informe di colore marrone e bianco ingiallito sul mio letto.

«Indossala e scendi in cucina. Serve aiuto per pelare le patate e spennare i fagiani che hanno appena portato dalla caccia» esclamò in tono sbrigativo.

«Ah, sarai in camera da sola. Per il momento il personale è al completo e dividerai la stanza con un'altra cameriere solo nei periodi di festa, quando c'è più gente che frequenta la casa» a quelle parole il suo sguardo color miele si spense.

«Non ne vediamo da un po', a dire il vero, ed il conte ha ridotto la servitù all'osso dopo la morte di milady. Non vuole essere disturbato ed è un vero miracolo che oggi tenga un evento mondano» prese il mio grembiule dalla pila sul letto e lo ripiegò anche se era già perfettamente in ordine. Poi ricominciò a parlare come se stesse quasi pensando ad alta voce.

«Sarà sicuramente stata sua madre a fargli pressione per ricevere qualche ospite oggi. Sono passati tre anni, dopotutto, ed è giovane, può benissimo risposarsi e rifarsi una vita...» sospirò e ripose anche la cuffia sulla pila. Io non risposi. Conoscevo il conte solo di nome e non lo avevo mai incontrato. L'anno precedente al mio debutto in società si era sposato ed io, non essendo ancora stata presentata ufficialmente alla nobiltà inglese, non avevo potuto partecipare al matrimonio. Inoltre aveva la fama di essere un grande viaggiatore e ed era raro che si intrattenesse troppo a Londra. Senza contare che, prima di quel maledetto capodanno, ero a tal punto presa da James da non ricordare nessun altro uomo che mi fosse stato presentato.

James... erano ormai passati tre anni e mezzo dall'ultima volta che lo avevo visto.

«Hai meno di due minuti per cambiarti e raggiungerci in cucina, principessa» la signorina Murray mi scosse dai miei pensieri e sparì dietro la porta prima che potessi risponderle.

Lisciai la stoffa con le mani guardandomi nel riflesso dello specchio malridotto. Era un abito semplice, di tessuto grezzo marrone scuro. Ovviamente mi andava troppo grande e decisi che quella sera vi avrei apportato qualche modifica, se fossi arrivata in camera con abbastanza forze. Non ero mai stata brava a dipingere o suonare il piano, preferivo invece i lavori manuali, le lingue straniere e la letteratura antica. Per mia grande fortuna, la mia famiglia aveva assecondato queste inclinazioni e la biblioteca a di Hastings Mannor era stata rifornita di testi di Seneca, Euripide e Cicerone. La sala della musica invece veniva solo spolverata, di tanto in tanto.

«Finalmente principessa!» sospirò quella che compresi subito essere la cuoca, quando entrai in cucina. A quanto pareva il mio nuovo nomignolo si era diffuso in fretta.

«Io sono la signora Perkins» disse la donna ai fornelli. Era corpulenta e aveva un'aria gioviale. Mi sorrise ed io contraccambiai. Il mio nuovo soprannome non suonava così male sulle sue labbra: la signora Perkins avevi i modi e l'aspetto di una dolce e amorevole zia a cui piacciono troppo le creme brulèe e i pettegolezzi. insomma una di quelle che, ad un ballo, avrebbe riempito il carnet della nipote con i nomi dei più appetibili scapoli della sala e poi si sarebbe seduta in angolo, giocando con la collana di perle, a godersi lo spettacolo delle danze.

«Lei è Judith, e serve in sala con il signor Perkins» senza smettere di mescolare la pentola sul fuoco mi indicò poi con un cenno una giovane cameriera dai riccioli rossi che uscivano ribelli dalla cuffia. Di fianco a lei un uomo alto impettito mi salutò con un cenno del capo. Il signor Perkins, intuii come il marito della cuoca, aveva una statura invidiabile, il viso solcato da una ragnatela di rughe sottili e la pelata lucidissima.

«Tu sei Freya, giusto?» fui scossa dai miei pensieri quando la ragazza mi si avvicinò. Doveva essere più giovane di me di qualche anno; i suoi occhi erano di un verde vivace e l'accento irlandese inconfondibile. Assomigliava molto ad un folletto vista la corporatura gracile e lo sguardo curioso.

«Lady Howard?» aggiunse prima che potessi rispondere. Perfino la signora Perkins a quelle parole smise di mescolare.

Prendendo tutti in contropiede le rivolsi un sorriso sereno:

«Freya andrà benissimo. Nessuno mi chiama più così da un po'...» conclusi e presi a legarmi stretto il grembiule in vita. La conversazione si concluse lì: non mi piaceva molto parlare di quello che avevo perduto, della persona che sarei potuta essere e delle cose che avrei potuto fare. Non ero più Lady Howard e non lo sarei più stata, fine della storia. Inoltre, avevo già trascorso abbastanza nottate persa nei ricordi a piangere e non avrei ricominciato allora. Il mio nome però mi fece correre un brivido lungo la schiena: era da molto che non lo sentivo pronunciare.

«Toglile tutte, mi raccomando! Lady Hampton va su tutte le furie anche se trova solo una piuma nel piatto» la signora Perkins mi fece sedere vicino al focolare e mi diede letteralmente in braccio un grosso fagiano. Era ripugnante vederlo morto, con gli occhi sbarrati ed un filo di bava insanguinata che gli usciva dal becco e colava sul mio grembiule.

Presi un respiro profondo e cominciai a tirare via con forza ogni piuma. Il corpo freddo fremeva ogni volta che strattonavo, come se soffrisse fra le mie braccia. Era una scena terribile, ma avrei dovuto farci l'abitudine.

«Veloce, principessa!» esclamò la signora Perkins rimbeccandomi di tanto in tanto.

Finito con i tre fagiani, passai a pelare e lavare le patate. Non ero molto pratica a dire il vero e me lo fecero notare diverse volte. Io però non battevo la fiacca e, di buona lena, lavoravo cercando di buttare via meno polpa possibile, precisa più di un chirurgo. Ogni tanto li sentivo ridacchiare ed ero più che certa che lo facessero alle mie spalle, soprattutto la signorina Murray. Probabilmente incarnavo il loro sogno più proibito: una giovane della nobiltà inglese, vestita come una povera contadina che in silenzio spenna fagiani e pela patate in cucina. Solo Judith sembrava non stare al gioco e non potei che esserle grata.

Non so per quante ore rimasi in cucina: lavai padelle incrostate, sventrai pesci di fiume gettando le interiora ripugnanti in un secchio di metallo; pulii per terra ogni volta che qualcosa cadeva sul pavimento e rimasi in silenzio per tutto il resto del pomeriggio e della sera. Non volevo mostrarmi debole, lamentosa e viziata. Avrei lavorato come tutti e prima o poi mi avrebbero rispettata.

Quando la giornata volse al termine, vidi la signorina Murray mettere in mano al signor Perkins un paio di monete: probabilmente avevano già scommesso fra loro quanto sarei resistita in quella cucina ed era stata lei a perdere. Per un attimo quella scena mi fece sorridere, soprattutto l'espressione sconfitta della donna ed il sorriso soddisfatto del maggiordomo.

«Vediamo come va domani mattina, e riderò io questa volta» borbottò la signorina Murray mentre lui si metteva i soldi in tasca.

Era notte fonda quando la signora Perkins mi disse che potevo sedermi un minuto a riposare. Tutti al piano di sopra erano andati a letto ed era il momento di fare un giro della casa ed imparare a memoria la posizione di tutte le stanze che era mio compito pulire.

«Questo è l'ingresso e di qui si va al salone principale....» la governante camminava veloce e parlava altrettanto e faticavo a starle dietro. Quella casa era grandissima e, a differenza di quella dove avevo vissuto io, nel Hertfordshire, era più intricata e piena di stretti corridoi. Nel buio inoltre era ancora più difficile orientarsi. "Destra...sinistra...sinistra e ancora destra" cercavo di memorizzare il percorso mentre lei mi spiegava tutte le mansioni.

«Dopo che si saranno svegliati domattina e mentre staranno facendo colazione, aiuterai Judith a rassettare le stanze e svuoterai i vasi da notte, tutto chiaro?» disse infine la signorina Murray fermandosi in mezzo al corridoio e voltandosi a guardarmi.

Stavo per risponderle quando una porta a doppio battente poco distante da noi si aprì.

«Siete voi signorina Murray?» disse un'ombra che non riuscii bene a distinguere. La luce fioca del fuoco che proveniva da dentro la stanza non mi permetteva di vedere l'uomo a cui apparteneva.

«Milord, perdonatemi per avervi disturbato, credevo foste...» balbettò la signorina Murray, ma lui la interruppe subito.

«Fatemi portare del tè dalla signorina Mulligan» concluse e chiuse la porta.

Io rimasi un po' interdetta, ma non commentai. Avrei tenuto un profilo basso in quella casa e sarei stata un'ombra come mi era stato chiesto fin dall'inizio.

«Quello era lo studio del padrone e la stanza successiva è la biblioteca» spiegò abbassando la voce.

«Quest'ala non è permessa se non per adempiere alle mansioni che ti ho spiegato, principessa. Guai se ti vedo gironzolare da queste parti! Milord è molto riservato e non vuole gente estranea intorno, capito?» concluse e girò i tacchi ancora prima che potessi risponderle.

Una volta arrivata in camera mia tolsi il grembiule e lo gettai sulla sedia di fronte alla toletta, poi andai al mio piccolo bagaglio ancora intatto e presi a disfarlo mettendo le cose nell'armadio. Non che avessi molti vestiti a mia disposizione, ma possedevo quello che bastava per avere sempre un aspetto dignitoso: un abito blu scuro e sobrio per la celebrazione della domenica, un mantello foderato per l'inverno - una delle poche cose che avevo potuto tenere dopo aver venduto tutto per pagare i debiti di gioco di mio padre- una spazzola in madreperla, due camicie da notte e un paio di scarpe più robuste. Non possedevo più i bei gioielli che sfoggiavo ai balli dell'alta società, portavo solo al collo una fine catenina d'argento con una perla bianca e, all'anulare, la fede irlandese che era stata di mia nonna. Il mercante a cui avevo cercato di vendere la collana mi aveva detto che era di troppo poco valore per farci qualche soldo e quindi l'avevo tenuta. La piccola goccia veniva da un orecchino spaiato ed ora pendeva nascosta sotto la scollatura castigata dell'abito da sguattera. A tradirla, solo il sottile filo d'argento intorno al collo. L'anello, invece, era poco prezioso, ma troppo caro. Non l'avrei mai abbandonato. Osservai per un attimo le mani cesellate a sorreggere il piccolo cuore incoronato come un re sul suo trono e distolsi lo sguardo quando il groppo alla gola divenne troppo insopportabile. Quell'anello era parte di me, mi ricordava la mia famiglia e non l'avrei mai tolto.

Stavo finendo di sistemare le mie poche cose, quando bussarono alla porta. Incuriosita andai ad aprire.

«Scusa, non volevo disturbare, ma immaginavo che non avessi avuto il tempo di scaldarti un po' di acqua» Judith era di fronte a me, in camicia da notte e piedi scalzi con il capelli legati alla rinfusa in una treccia. Reggeva una brocca di porcellana chiara come la mia, anche se in condizioni migliori. Le sorrisi grata e compresi subito che forse avrei avuto un angelo custode in quella casa.

«Grazie infinte, Judith, sei stata davvero gentile» risposi scostandomi per farla entrare. Lei zampettò dentro come un cerbiatto e posò la brocca sulla toletta.

«Le riempiamo di acqua calda tutte le sere in cucina, ma immagino che la signorina Murray non te lo abbia accennato» spiegò vedendo la mia brocca vuota.

«Immagino di no» risposi guardandola e sorridendole.

«Ringrazio quindi di poter contare su di te» aggiunsi andando a sedermi sul letto. Lei fece lo stesso prendendo posto davanti a me.

«Sei fortunata ad avere una stanza tutta tua, Freya» disse guardandosi intorno «io la divido con la signorina Murray e russa da morire!» rise sotto i baffi.

«Puoi chiederle di trasferirti qui con me, se vuoi» risposi io a quel punto. Mi sarei sentita molto meno sola con una compagna di stanza.

«Purtroppo non me lo permetterebbe: non le piace condividere la sua camera con estranee e, quando viene Natale, ci sono parecchie cameriere provvisorie in giro...io le vado a genio e quindi preferisce far occupare a me il letto in pianta stabile» sospirò.

«Sarai comunque sempre la benvenuta nella mia stanza, Judith» risposi a quel punto prendendole le mani. A lei parve piacere quel contatto e me le strinse forte.

«Se non è troppo tardi e non sei troppo stanca hai voglia di raccontarmi un po' di questa casa?» azzardai. Sebbene preferissi non dare nell'occhio, comprendere meglio con che cosa avessi a che fare mi avrebbe aiutata, da un certo punto di vista, a sopravvivere.

Judith non se lo fece ripetere due volte e cominciò a parlare come un fiume in piena, fermandosi solo di tanto in tanto per riprendere fiato. Già dopo le prime frasi mi ero innamorata del suo accento.

«Be', io sono arrivata che la signora era già morta. Che tragedia, Freya! Dicono tutti che era una cara ragazza, bella e solare, e stravedeva per il signore come lui era follemente innamorato di lei. Almeno così la signora Perkins racconta. E' al servizio della famiglia da quando era piccola e ricorda benissimo anche il padre del signore. Era un uomo schivo e burbero, un po' come milord oggi» fece una pausa per riprendere fiato «ti va una tazza di latte caldo con il miele? Possiamo scendere in cucina se ne hai voglia, la signora Perkins me lo lascia preparare, a patto che poi metta tutto in ordine.»

Feci segno di sì con la testa e sorrisi. Non avevo mangiato molto a cena, lo stomaco mi si era chiuso presto e mi avrebbe fatto bene un po' di calore prima di andare a dormire.

Scendemmo al piano di sotto senza fare rumore e presto fummo in cucina. Gli alloggi della servitù, capii subito, erano in una posizione strategica per muoversi agevolmente senza attraversare i lunghi corridoi e disturbare troppo gli inquilini. A collegarli con la cucina vi era infatti una scala a chiocciola che arrivava diretta al pian terreno.

Una volta in cucina Judith si mise subito ad armeggiare con una pentola sul fuoco mentre io prendevo miele ed un po' di cannella.

«Da quando la signora non c'è più il padrone è diventato parecchio insofferente. Non sopporta i rumori e non vuole vedere nessuno» continuò mentre il latte si scaldava.

«Le uniche persone di cui sopporta la vista solo sua madre, Lady Hampton, e un suo caro amico, il conte di Warwick» a quelle parole quasi il barattolo del miele quasi mi sfuggì di mano e cadde a terra.

«Tutto bene?» chiese Judith guardandomi incuriosita della mia reazione.

«Il conte è qui?» domandai senza rispondere e cercando di riprendere un certo contegno.

«Sì, sono stati lui e Lady Hampton ad organizzare il tè e la battuta di caccia. Il signore però non ha partecipato, è uscito questa mattina presto prima che si alzassero tutti. Ha dato forfait anche per l'ora del tè. Gliel'ho portato io poco fa... sembrava parecchio giù di corda» spiegò versando il latte caldo nelle ciotole che avevo disposto sul piano di lavoro.

«Avresti dovuto sentire Lady Hampton quando si è lamentata con il signore nel suo studio. Non la finiva più di strillare. Da una parte però credo che abbia ragione, povera donna: vedere il figlio in quello stato per così tanto tempo non deve essere facile. Mia madre avrebbe fatto anche di peggio che lamentarsi. Mi ricordo una volta che...» la voce di Judith era un ronzio sordo nelle mie orecchie. L'avevo persa dopo essermi resa conto che James ed io condividevamo lo stesso tetto dopo tre anni di calvario e distanza.

Dovevo vederlo.

Per dirgli cosa?

Chiedergli spiegazioni sul perché non avesse mai risposto alle mie lettere? Perché avrebbe dovuto? Ero una signor nessuno adesso, senza un soldo, costretta a dare da mangiare ai maiali e a sventrare trote dall'odore nauseabondo. Dovevo dimenticarlo come lui probabilmente aveva già fatto con me. Forse così mi sarei tenuta stretta quella poca dignità che mi era rimasta.

«Per quanto si fermeranno?» chiesi scuotendomi dai miei pensieri quando Judith mi porse la tazza. Presi un po' di cannella e cosparsi la superficie per poi mescolare con un cucchiaio.

«Credo che il conte di Warwick partirà domattina presto. Ho sentito che domani ha affari a Londra. Lady Hampton invece se ne andrà prima di pranzo» concluse e cominciò a sorseggiare il suo latte sedendosi sull'altra sedia vicino al focolare, ormai quasi spento.

«Vuoi che continui o ti sei stufata di ascoltarmi?» rise Judith guardandomi poi incuriosita. Probabilmente era molto che non parlava con qualcuno come stava facendo con me. Ad occhio e croce la signorina Murray non doveva essere una delle delle più amichevoli in quella casa.

«Certo, prosegui per favore, se non sei stanca» dissi incoraggiandola e riprendendo a bere il mio latte. Judith inspirò e poi proseguì.

«Lady Anne, la contessa, è morta di una brutta febbre pochi giorni dopo la nascita della piccola Elizabeth. Che graziosa bambina, Freya, dovresti vederla! Ha gli occhi del padre ed i capelli biondi della madre, una meraviglia! E' sempre sorridente ed allegra» a quel punto però l'espressione di Judith si rabbuiò un poco.

«Peccato che non viva qui, ma a Londra con la nonna. Milord non è stato... in sé per un po' dopo che è nata. Diciamo così...» scosse la testa come per scacciare brutti pensieri.

«Adesso viene a trovarci di tanto in tanto, ma molto spesso è Lord Stuart ad andare a Londra per vederla» concluse e finì il suo latte posando la tazza nel grosso bacile di marmo dove avevo lavato i piatti tutta la sera.

Bevvi anche io l'ultima goccia e mi alzai. Avevo la sensazione che ci fossero molte altre cose che Judith non mi aveva detto, ma poteva bastare per quella sera. Fermo restando che io in quella casa ero venuta solo per aiutare mia madre a sopravvivere.

«E' meglio andare a letto adesso» dissi dopo aver lavato la mia tazza. Alzai lo sguardo dal grande lavabo e sorpresi Judith ad osservare le mie mani: erano candide e lisce a confronto delle sue, ma sapevo che presto non si sarebbe più notata la differenza.

«Com'è essere ricco?» mi chiese in un filo di voce, di punto in bianco. Rimasi a dir poco sorpresa da quella domanda e ci misi un istante a rispondere soppesando per bene le parole.

«Puoi comprare tante cose, le persone ti portano rispetto e ti sembra che tutto sia semplice e dovuto» feci una pausa e la guardai «non c'è niente di più sbagliato poiché la ricchezza non è quello che si dovrebbe desiderare di più al mondo» conclusi.

«E che cosa si dovrebbe desiderare, Freya?» mi incalzò Judith quasi rapita dalle mie parole. I suoi occhi emanavano scintille di curiosità mista ad un'inguaribile fanciullezza.

«L'amore, una famiglia unita e la felicità. Tienilo sempre a mente» le accarezzai leggermente il viso leggermente più paffuto sulle guance e poi feci cenno verso le scale. Lei non se lo fece ripetere due volte e si avviò svelta al piano di sopra, due gradini la volta. 

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