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Succede in Norvegia

[Note autore:
Questa os è una collaborazione con writingtheskies che dovreste inondare di amore e di segui, perché è fantastica e io sono onorata di aver potuto scrivere insieme al suo talento.
E grazie, Franci, per avermelo concesso]




31 ottobre 2025


Quando lui e Chicca fanno il loro ingresso in quella villa enorme, Manuel è costretto a strizzare gli occhi.

Lo deve fare per forza, perché le luci colorate sono accecanti e gli danno il voltastomaco.  La musica è alta, forse troppo. La sala pullula di gente mascherata, che balla, che chiacchiera sui divanetti, che alleggerisce la testa con un drink. L'aria è pesante, e la puzza di sudore si mischia disgustosamente con quella di alcol.

Sa tutto di divertimento, però.

Il 31 Ottobre, quella sera, profuma di distrazione. Dai pensieri, dalla vita, da una persona in particolare.

A Manuel piace pensare a quella festa di Halloween come un'occasione di riscatto, di rinascita per se stesso. Un modo per scacciare via le api dalla sua testa, per tirare via le spine dal suo cuore.

Dopo mesi spesi a leccarsi le ferite, in effetti, crede anche di meritarselo.

Si lascia trascinare da Chicca per un braccio. Strisciano insieme tra gli sconosciuti, le orecchie che rimbombano, le casse che con il loro volume riescono a coprire persino il rumore dei pensieri. La ragazza accanto a lui è allegra, e saltella da una parte all'altra come una bambina entusiasta. E Manuel la osserva, sorridente.

A volte, gli fa bene ricordare la forma della spensieratezza.

«Ma tu gli altri li vedi?» domanda lei d'un tratto, spezzando il silenzio tra loro riempito da rumori assordanti.

Manuel alza un sopracciglio, perplesso.

«A Chì, co' tutto r'rispetto, io non te sto a perde' solo perché me stai appiccicata a n'braccio» urla, per sovrastare la musica. «Non vedo n'cazzo co' ste luci. Tu vedi qualcuno? Tipo Matteo?».

Chicca si morde un labbro. Solleva un po' il mento, per poter dirigere lo sguardo oltre le teste oscillanti di chi sta ballando. A Manuel invece, siccome è più alto, non serve alzare la testa per guardarsi intorno; lo fa con naturalezza, studiando la stanza e i visi degli sconosciuti.

Tuttavia, dei loro amici non c'è traccia.

«Guarda» esordisce dopo un po' Chicca, alzando il dito per indicargli un punto preciso. «Eccoli là. Muoviti, che li andiamo a saluta'».

Manuel segue l'indice di Chicca con lo sguardo. Ha una traiettoria ben assestata, e punta dritta verso un gruppo di volti a lui fin troppi familiari.

Innanzitutto c'è Matteo, con un drink in mano e un sorriso beffardo stampato in faccia. Ha il viso colorato di un verde chiaro, e i contorni degli occhi marchiati pesantemente da una matita nera. Notando la t-shirt bianca e stracciata che indossa, Manuel non ha dubbi sul suo travestimento: in maniera tanto banale quanto scontata, quella notte Matto è uno zombie.

Eppure, non è solo quello.

È anche l'organizzatore della festa, colui che ha scelto il tema, gli invitati, la casa. Effettivamente, Manuel ancora fatica a capire come sia riuscito ad organizzare un evento così grande: chissà quanti soldi ha speso, e quante delle persone presenti effettivamente conosce.

È stato bravo, però.

Almeno questo deve riconoscerglielo.

Di fronte a lui ci sono Monica e Giulio. Quest'ultimo ha un braccio intorno alla spalla di lei, e le sorride come se fosse la cosa più bella del mondo: ed in effetti, Monica è davvero bella. Indossa un completo totalmente bianco, composto di una camicia decorata con una croce rossa sul petto ed una gonna chiara e leggera. Il suo trucco, invece, è semplice, ma allo stesso tempo espressivo: la pelle è resa più candida dal fondotinta, e rivoli di sangue finto le cadono dalle tempie.

Evidentemente, quella sera Monica è un'infermiera.

Giulio, d'altro canto, non è niente. O meglio, è truccato leggermente, e vestito con un paio di jeans neri e una camicia dello stesso colore; ma non sembra essere nulla in particolare.

Probabilmente, non voleva neanche travestirsi.

«Ja, e movite Manuel!» lo esorta Chicca, mentre si fanno strada in quell'ammasso di sudore e pelli incandescenti. Manuel, in risposta alza gli occhi al cielo. «E non fa' quella faccia–pari n'vecchio pari».

Il ragazzo non ribatte. Semplicemente, cede, aumentando il passo, sospirando divertito e scuotendo la testa.

Dopo pochi secondi, raggiungono il gruppo di amici. A Manuel sorride un po' il cuore, a pensarci. Lui, i suoi amici, una festa e prossimamente una birra in mano. Nessun problema, nessuna preoccupazione, nessun cuore spezzato.

Solo tagli da ricucire, che verranno ignorati come ogni volta.

«Ce l'avete fatta oh!» esclama Matteo quando finalmente lo raggiungono. «Pensavamo n'arrivaste più».

«Scusa, è colpa de Manuel. C'ha messo tre anni a farsi la cravatta—non se la sa fa, sto cretino» spiega Chicca, schernendolo sotto i baffi.

È perché me la faceva sempre Simone, vorrebbe rispondere lui.

Ma non lo fa.

Semplicemente, sbuffa, sciogliendo il braccio dal suo.

«Ma vaffanculo Chì. Sei te quella che c'ha messo trent'anni a farse r'trucco» replica allora, con tono solenne.

«Ma a proposito» interviene quindi Giulio, non dando alla ragazza tempo di rispondere. «Da che siete vestiti? È una cosa di coppia, vè?».

Manuel lancia un'occhiata a Chicca.

Indossa un vestito lungo, bianco, strappato in alcuni punti. Ai piedi ha delle scarpe nere con i tacchi, invisibili all'occhio per via della lunghezza della gonna. Il suo trucco, invece, è volutamente sbavato: è pallida in viso, proprio come lui, e ha gli occhi scavati dall'ombretto proprio come lui. Per l'occasione, poi, si è tinta anche la frangetta di un blu elettrico talmente vistoso da far male alla vista.

Però, è entrata completamente nel personaggio.

Come Manuel.

Lui porta uno smoking nero, e sente fin troppo caldo. Ha le guance in fiamme, che gli prudono, e un po' di matita nera sotto gli occhi, gentilmente offerta e messa da Chicca. È un Victor perfetto per aspetto; e forse, anche per umore, vista la sua recente tendenza a crogiolarsi nel dolore.

Lui e Chicca sono i protagonisti di un film di Tim Burton. Hanno deciso di vestirsi in coppia su proposta di Chicca, che ha utilizzato una simile scusa per costringerlo a, effettivamente, travestirsi. All'inizio, Manuel ha esitato; poi, alla fine, si è fatto convincere.

Che poi, non sta tanto male con la matita sotto gli occhi.

«Semo Victor e la sposa cadavere» spiega Manuel, fiero.

Giulio tira fuori il labbro inferiore, assumendo un'espressione compiaciuta. «Però—figo».

«Eccerto che è figo» commenta Chicca, guardandosi le unghie smaltate di nero «È stata n'idea mia. Ovviamente».

Manuel fa roteare gli occhi, esasperato. Matteo, nel frattempo, scoppia in una risatina fragorosa, facendo sorridere anche la ragazza dai capelli colorati.

«Non avevamo dubbi, Chì» la rassicura Monica «Sei tu quella dei due che ha buon gusto».

«Ao, Mo', e non te ce mette pure te» controbatte quindi Manuel, fintamente offeso.

In risposta, la ragazza si limita a fissarlo, gli occhi divertiti e la cannuccia tra le labbra.

Continuano così per altri cinque minuti circa. Chiacchierano, bisticciano, ridono. Rendono l'atmosfera mite, la festa piacevole. E Manuel, per la prima volta dopo tempo, riesce a definirsi addirittura felice.

Il tempo scorre. Scorre velocemente, forse troppo.

Secondo i principi della termodinamica, più il tempo si allarga, più l'universo si disordina. Diventa schiavo dell'entropia, dell'irrazionalità umana. Inizia a stringere intorno al corpo di Manuel, che neanche lo percepisce, non se ne accorge. Il disordine è un'abitudine per lui, d'altronde.

Eppure, arriva un momento in cui il caos lo sommerge. Diventa troppo da reggere, perfino per lui. È allora che il tempo sembra fermarsi, anche se continua a scorrere. Quando l'universo lo fa inciampare, poi cadere, fino a trascinarlo nel burrone del subbuglio.

Quando l'entropia rientra nella sua vita, a piccoli passi, silenziosamente.

«Nvedi un po' tu chi è tornato» esclama d'un tratto Matteo, fissando qualcosa oltre le spalle di Manuel. Lo fa con tanto entusiasmo, con tanta passione, che quest'ultimo, curioso, si volta. «Er Conte Dracula nostro e la ninfa dei fiumi. Ma n'dò eravate finiti? Pensavamo che v'eravate persi».

Il mondo crolla.

Lo fa in quel momento esatto, quando i suoi occhi si incastrano a quelli di Simone. Nonostante tutto, li vede, li sente suoi.

La stanza si scioglie, la musica si perde nell'aria, la puzza di alcol viene sostituita da un alone profumato di colonia. Le gambe di Manuel si fanno improvvisamente di carta, tremano, minacciano di accartocciarsi.

E come dargli torto.

Non esiste più nulla se non il suo cuore nel petto, prepotente, che prende a pugni la gabbia toracica.

Tum, tum, tum.

Anche Simone sembra interdetto quanto lui. Si blocca sul posto quando lo vede, i suoi piedi smettono di collaborare. Schiude le labbra in segno di stupore, non curandosi dell'espressione preoccupata che Laura affianco a lui. La birra quasi gli cade dalle mani.

Allora, non esiste più niente.

Solo i pezzi di un vetro frantumato, troppo vecchio per essere ricostruito.

«Scusate raga» tenta di smorzare la tensione Laura, che ha capito perfettamente cosa sta succedendo. Intreccia un braccio intorno a quello di Simone, conducendolo verso i loro amici, lentamente. Lui neanche ci prova, però, ad apparire padrone del suo corpo. I suoi occhi rimangono fissi in quelli di Manuel, come adesivi su un quaderno, che a sua volta lo seguono in quel breve tragitto senza lasciarlo un attimo. Come se non avessero mai smesso di cercarlo. «C'era un sacco di gente in fila per i drink—ecco perché c'abbiamo messo tanto».

Ora che è più vicino, Manuel si prende del tempo per osservarlo meglio. Sa che non dovrebbe farlo, che quel comportamento è deleterio per lui, velenoso.

Eppure, lo fa lo stesso.

Perché a tutto sa resistere, ma non a lui. A lui, mai.

Simone, effettivamente, è il Conte Dracula. Indossa una camicia bianca, con una cravatta del medesimo colore contornata da una giacca nera. Anche i pantaloni che porta sono neri, così come i mocassini e la matita sotto gli occhi. L'eyeliner, poi, è gentile con i suoi occhi. Gli conferisce una forma più allungata, esaltandone la grandezza, la dolcezza. Gioca con i suoi lineamenti, li marca, li accentua.

Manuel deglutisce.

Il rivolo di sangue sotto il labbro inferiore, disegnato accuratamente con il rossetto rosso, è il colpo di grazia per lui. Ci si sofferma fin troppo, tanto da consumarlo, da renderlo ancora più brillante.

Simone, sotto quello sguardo così denudante, un po' arrossisce. Sorride un po', infilando il labbro tra i canini finti. Tuttavia, cerca di non dare a vedere il suo imbarazzo, di nasconderlo.

Ottiene scarsi risultati. Manuel, infatti, lo nota lo stesso, come ha fatto sempre con tutto di lui. Accenna un sorriso, sincero, che gli si spegne in volto appena si accorge che non è ricambiato.

A quel punto distoglie lo sguardo, deluso.

Perché abbiamo smesso di sorriderci?

«'Mazza, pure la fila avete dovuto fa. ma quanta gente hai invitato, Mattè?».

La constatazione viene fuori dalla bocca di Chicca. È provocante, curiosa, fatta giusto per fare conversazione. Manuel rivolge uno sguardo a Matteo cercando una risposta alla medesima domanda, che si fa strada nella sua testa da tutta la sera.

Forse, sta solo cercando una distrazione.

Ma di certo non gli importa.

«Eh, un bel po'» risponde Matteo, facendo spallucce. «Perché—è troppa?».

Laura alza gli occhi al cielo.

«Lasciamo perdere» sibila rispondendogli, chiaramente infastidita da quella situazione. «Ti giuro che non c'era spazio neanche per respirare. Una cosa incredibile».

Matteo ride, e con lui tutti quanti. Anche Simone abbozza una risata, ma è timida, senza emozione. Come se lo stesse facendo soltanto per fare un piacere agli altri, non perché ci tenga a ridere sul serio.

In un certo senso, Manuel lo capisce.

Neanche lui se la sente di ridere.

I loro amici continuano a conversare senza curarsi di loro. Si perdono nei loro racconti, sgrovigliano fili di storie, creano un clima allegro tra di loro. Sono tutti troppo impegnati per notare gli sguardi fugaci che si scambiano Simone e Manuel, e la morsa che stringe entrambi i loro petti.

Neanche si rivolgono la parola, ma nessuno se ne accorge.

O tutti fanno finta di non farlo.

Nemmeno Chicca sembra curarsi del loro dolore, quando Manuel gli ringhia nell'orecchio un: «M'avevi detto che non ce stava».

Semplicemente, si limita a fare spallucce, e a liquidarlo con un gesto della mano. «A Manuel, e godite la festa, dai—va tutto bene, non te preoccupà» dice, come se Simone fosse una cosa da nulla. Come se potesse andare tutto bene, quando invece si sente soffocare.

Manuel scuote la testa, affranto. Cerca di evitare la sua presenza, di scacciarla, di mandarla via dalla sua testa. Ma Simone è troppo testardo, troppo forte, resiste a tutti i suoi attacchi. Di uscire dalla testa di Manuel, non ne vuole sapere.

E Manuel non ce la fa più a combatterlo.

Vorrebbe solo abbracciarlo, e stringerlo a sé. Ma non può fare neanche quello, non gli è più concesso, non gli è più lecito.

Si sente morire al solo pensiero.

Va tutto bene, si ripete, ancora e ancora, come se quelle tre parole fossero la sua unica ancora di salvezza.

Va tutto bene, va tutto bene, va tutto bene.

Il problema, però, è che non va bene per niente. Non è andata bene prima, non sta andando bene ora, e non andrà mai bene. Sono stati un disastro, entrambi, e hanno rovinato tutto.

Perciò no, non va bene. Per niente.

Ma come può andare bene, poi, se lui non mi prende la mano?

**


21 Marzo 2025


«Oh, ma lo sai che giorno è oggi?».

La voce di Simone arriva alle orecchie di Manuel come un eco, forse perché sono in silenzio da tanto tempo.

Non che l'abbiano deciso, succede e basta delle volte, in particolar modo quando sono in quel posto, che è diventato un po' il loro posto.

Che in realtà ogni posto diventa loro, se sono insieme.

Ma dettagli.

Quando sono su Monte Mario, con la vista dell'intera città e delle sue luci, finiscono in una bolla tutta loro e non occorrono le parole e difficilmente qualcuno o qualcosa riesce a scoppiarla.

Sono dei momenti che Manuel adora, che non scambierebbe per nulla al mondo.

Lui, insieme a Simone, il tempo che si ferma e tutto risulta in perfetto ordine.

È la ragione per cui ci impiega qualche secondo a recepire quel suono, a voltare il capo nella sua direzione, solo di qualche centimetro.

Sono sdraiati sul cofano di quella vecchia Peugeot 207 dalla carrozzeria blu metallizzata, una bottiglia di birra a testa tra le dita, a fissare il cielo durante quella notte serena.

«No» risponde Manuel, con leggera incertezza - perché ha persino paura di essersi scordato qualche avvenimento importante, visto che ha la memoria di un pesce rosso, delle volte. «Che giorno è?».

Simone si lascia sfuggire una risata. I suoi occhi rimangono puntati sul manto scuro puntinato di bianco che li sovrasta. «Il 21 marzo» spiega «Non ti dice niente?».

«No, che me deve dì?». Manuel, invece, sta fissando lui. È imbarazzante il modo in cui potrebbe passare ore ed ore immobile a fare solo quello, ad analizzare il suo profilo, la linea della sua mandibola, il naso dritto, i ricci scuri e indomabili che sfuggono dalla folta chioma, nei quali ci passerebbe sempre le dita in mezzo.

Okay, imbarazzante.

Però funziona così: ci pensa spesso a quanto sia bello Simone e quanto sia fortunato ad averlo.

È quest'ultimo a girarsi adesso, rivolgendogli un ampio sorriso.

È sempre bello quando si sorridono, non dovrebbero smettere mai.

«Il 21 marzo è l'equinozio di primavera» spiega Simone.

«Eh - e quindi?».

«Quindi è quel giorno durante l'anno dove - tipo - le ore di luce sono perfettamente uguali alle ore di buio».

«Ma pensa te» Manuel borbotta. Non gli interessa tanto quel discorso - solo perché ci capisce poco o niente. Si tira appena su col busto, per poter buttare giù un sorso di birra.

Simone lo imita, assumendo la stessa posizione. «In realtà non sono davvero davvero uguali» continua, imperterrito «Perché il sole non è un punto, è un disco, no? Quindi se si considerano una serie di fattori come l'atmosfera, le latitudini, insomma - magari la luce ha sette, otto minuti in più del buio e poi...».

Quel flusso interminabile di parole viene messo a tacere da Manuel, con un bacio sulle labbra che ha l'intenzione di durare poco - pochissimo - e invece si trasforma in qualcosa di più profondo quando entrambi inseriscono la lingua e si respirano addosso.

Il primo a staccarsi è Simone, rimanendo comunque abbastanza vicino al viso dell'altro. Sfiora piano la punta del suo naso con la propria e il sorriso gli appare ancora sul volto.

Manuel posa la bottiglia in bilico sul cofano della macchina così da poter portare una mano sul lato del collo del compagno, sfregando il pollice sul suo zigomo. «Ma quanto parli ao» sussurra e ridacchia. «C'ho er ragazzo logorroico»

Simone non risponde, non subito. Si limita a fissarlo, sottecchi, godendosi il tocco delicato dei suoi polpastrelli sulla guancia. «Perché?» sussurra. «Una volta m'hai detto che ti piace ascoltarmi».

«Te ascolto quanto te pare, ma me stavi a stordì» borbotta Manuel e gli deposita un secondo bacio, fugace, sull'angolo della bocca. «Che poi» aggiunge e interrompe ogni contatto in via definitiva, tornando sdraiato su quel cofano, con una gamba piegata e una lasciata distesa. Porta, invece, un braccio dietro alla testa per tenerla appena sollevata. «La cosa più figa dell'equinozio manco l'hai detta».

Vedi, qualcosa so pure io, gli suggerisce una voce nel cervello.

Simone si morde piano il labbro inferiore, frattanto che lo osserva muoversi. Lui si mette su di un fianco, si distende così da poter appoggiare il capo sul suo petto e appoggiare un palmo sulla sua pancia. Improvvisamente non gli interessa manco più fissare il cielo, non quando può chiudere gli occhi, inspirare a fondo e inebriarsi del suo odore, di anice e tabacco. «Sarebbe?» domanda, curioso.

«L'aurora boreale» spiega Manuel, con lo sguardo rivolto verso l'alto. «La roba che se vede in Norvegia tipo».

«Lo so cos'è l'aurora boreale».

«Certo, e figurati se non lo sai» ridacchia. «Vabbè comunque è 'na cosa bella, che se deve vedè pe' forza almeno 'na volta nella vita».

«Mh- preferisco n'altra cosa» mormora Simone, sollevando le palpebre. Con la punta delle dita, pizzica il tessuto leggero della t-shirt del compagno - davvero troppo leggero che va bene che ora sono in primavera, ma fa ancora troppo freddo per abbandonare i maglioni. Vorrebbe dirglielo, delle volte, poi ragiona che sarebbe pressoché inutile.

Però gli piace: almeno gli può stare addosso e scaldarsi, dato che le loro temperature corporee sono agli antipodi.

Del resto, è anche così che un po' ci si completa.

«Ovviamente, e figurati se Simone Balestra non va controcorrente».

«Coglione, è solo gusto mio» lo riprende e sbuffa. Ignora la mano dell'altro ragazzo che, rapida, gli si infila nei capelli e gli scompiglia i ricci.

«La cosa più bella sarebbe vedere il sole a mezzanotte» spiega, poi. «Succede sempre in Norvegia. È- cioè, il sole non tramonta mai, no? Almeno per un po'. E tu puoi vivere un giorno perfetto e fare finta che non finisca mai, perché il sole c'è sempre e se non tramonta, quel giorno non ha davvero una fine».

Manuel ascolta le sue parole in silenzio. Non abbassa il capo per poterlo guardare, gli basta sentire le sue gentili carezze, il suo respiro che si infrange sul proprio petto, all'altezza del cuore.

Se gli chiedessero in quel momento, dunque, di descrivere un giorno perfetto da non far finire mai, di sicuro dipingerebbe tale immagine: di loro due abbracciati e sdraiati sopra il cofano di una macchina, due bottiglie di birra mezze vuote e il silenzio attorno.

Ecco, forse così desidererebbe un giorno senza fine, il sole a mezzanotte che non tramonta mai.

«Sempre in Norvegia, eh?» esclama, dopo.

«Eh».

«Dovremmo andarci, un giorno».

«Ma a te mica piace viaggiare».

«Vabbè, che c'entra. Se può fà n'eccezione, no?».

Simone sorride. Che in realtà sa che Manuel ne fa fin troppe d'eccezioni con lui.

Che per Manuel, Simone è sempre stata l'eccezione, nel bene e nel male.

«Poi si vede» conclude.

«E poi se vede».


**


Simone sente finalmente la testa leggera.

Ne ha consumati solo due, di drink. Ha cercato rifugio sul fondo di un bicchiere di plastica, invece di cercarlo tra le braccia di qualcuno. Si è lasciato coccolare dai fumi dell'alcol per un po', come fa da mesi, ed ha accantonato il macigno che gli preme sul cuore di nuovo. Ha provato a fuggire una presenza tormentante, ma senza risultati, senza scacciarla sul serio.

La verità, è che Manuel è ovunque.

È stato ovunque per mesi, non se ne è mai realmente andato via. Simone lo ha visto nelle cose belle, e anche in quelle brutte. Lo ha visto nel cielo nuvoloso che odia tanto, nei libri di filosofia, nella carta bianca dei suoi quaderni, persino in quei problemi di fisica che Manuel tanto odia. Lo ha sentito imprecare, ridere, prenderlo in giro.

Anche se realmente, accanto a lui non c'era.

Manuel lo ha accompagnato sempre, dal giorno della loro separazione. Anche se non lo ha più visto, anche se non ci ha più parlato. Gli è bastato semplicemente fermarsi per un attimo ad ascoltare il battito del suo cuore per trovarlo, tra quegli istanti infiniti che separano le pulsazioni, nel sangue che permette ad esso di battere.

Perché Manuel c'è, c'è e basta.

C'è anche ora, anche se Simone non lo vede. È tra le teste che oscillano in quella stanza, respira la stessa aria calda che sta respirando lui.

E il solo pensiero di averlo vicino, lo fa impazzire.

«Devo andare in bagno» soffia d'un tratto, come se avesse trattenuto il fiato in gola per troppo tempo.

Che forse, lo ha fatto sul serio. Non ha spiccicato parola per tutta la sera, d'altronde.

Il nodo in gola è troppo stretto per parlare.

«Ma allora parli Simò» scherza Matteo, che non ha ancora realmente compreso il panico di Simone. Ci ride su, lo schernisce.

Beato lui, che non gli è stato tolto il sorriso.

«Oh, non fa quella faccia dai, sto a scherza'. R'bagno comunque dovrebbe sta sopra–però boh, ce ne stanno cinquecento qua dentro».

«E come lo trovo?» domanda allora Simone, alzando un sopracciglio.

Matteo scuote le spalle. «Apri tutte le stanze e prega de non becca' due che stanno a scopa'» consiglia.

Grande consiglio, poi.

Sbuffando, Simone si alza dal divanetto. Posa il bicchiere vuoto su un tavolino in vetro lì accanto, e sbatte un attimo gli occhi per mettere a fuoco il salone. La testa neanche gli gira, è completamente lucido. Ha solo un po' di nausea, ma quella è dovuta allo stomaco attorcigliato e alle continue fitte al cuore.

Per non parlare degli occhi che pizzicano in continuazione.

Sentendosi come una larva in mezzo a stormi di farfalle, Simone si fa strada tra la gente. È un po' disgustato dalla puzza e dal sudore, dal contatto con pelli sconosciute, persino dalle urla che gli rimbombano nelle orecchie. Perciò, cerca di sbrigarsi, di raggiungere una zona più tranquilla.

Poco dopo, si trova in un corridoio vuoto. Ora che è solo, finalmente può sfilarsi quei maledetti canini finti, che gli hanno dato fastidio per l'intera serata.

Maledice Matteo più volte per non avergli consigliato assolutamente nulla, e quella dannata casa per essere così dannatamente grande. Maledice gli astri perché gli stanno facendo salire il vomito, anche se è completamente sobrio, e il destino per quel suo stupido, crudele scherzo.

Maledetta qualsiasi cosa.

Pensando e ripensando, giunge alla fine del corridoio. C'è una porta un po' più grande delle altre. È in legno nero, gli dà una sensazione di tristezza e impotenza.

Ne fissa le venature. Socchiude gli occhi, li posa sulla maniglia d'oro. Respira, una, due, tre volte. Non sa cosa lo porta ad aprirla, forse la possibilità che dietro quella porta possa trovare finalmente in bagno.

Che poi, gli sembra troppo bella per nascondere un bagno.

In pochi istanti, Simone scopre di avere ragione. La camera su cui dà la porta è grande, molto grande, e le pareti sono tappezzate da quadri e tele con su scritti versi di poesie. C'è un letto matrimoniale che giace sul lato sinistro, costeggiato da due comodini laccati in nero. Affianco, una finestra in vetro pulito mostra un piccolo balcone, che si affaccia ad una notte troppo nuvolosa e buia.

Sul lato destro della stanza c'è una persona.

È in piedi, e ha le mani in tasca. Le sue spalle sono larghe, ma non troppo, e i suoi ricci sono inconfondibili alla tenue luce emessa dal lampadario.

Simone deglutisce, riconoscendo il suo demone in quella marea di arte. Manuel è di schiena, respira lentamente. Fissa un quadro, tra i più grandi che vi sono in quella camera, e non sembra aver percepito la sua presenza.

Non sembra.

«Resti là a fissarme o te ne vai?» sbotta d'un tratto, non rivolgendogli uno sguardo.

La verità, è che Manuel non sa chi c'è dietro di lui. Se lo sapesse, infatti, probabilmente non respirerebbe così bene.

«Scusa».

Simone commette l'errore di bisbigliare una risposta. Errore perché quando lo fa tutti gli allarmi nella testa di Manuel si accendono, e lo portano a voltarsi verso di lui.

Errore perché la sua voce la riconoscerebbe tra mille.

È la stessa voce che gli ha distrutto il cuore, dopotutto.

«Non ce posso crede» borbotta Manuel nel momento in cui i suoi occhi incontrano la sagoma di Simone. Quest'ultimo ha le labbra schiuse, e le sopracciglia aggrottate in un'espressione sofferente.

Quando vede le iridi di Manuel, ne vede l'anima. Ed è come se mille lame lo trafiggessero, come se il sangue sgorgasse da tutte le parti, come se stesse soffocando in quel mare di emozioni. Accade tutto insieme: il batticuore, il fiato mozzato, la pelle calda.

Si sente come si è sentito la prima volta, come si sentirà per sempre al cospetto di Manuel. Privo di difese, impotente. Patetico, a tratti, quasi sull'orlo delle lacrime.

Preso in giro.

Schernito.

E l'ultima volta che siamo stati in una stanza da soli, non è finita bene.

«Che cazzo stai a fa qua' Simò?» ringhia l'altro, a denti stretti.

Simone alza un sopracciglio, tentando di tenere anche la testa alta.

«Te potrei fa' la stessa domanda» ribatte, con fare altezzoso.

Ma Manuel non molla la presa, purtroppo. «Te l'ho chiesto prima io».

Simone sbuffa, schioccando la lingua sul palato. È infastidito da quell'atteggiamento da cane bastonato, fin troppo difensivo.

Come se non fosse stato lui a rovinare tutto, poi.

«Cristo santo» sibila bruscamente. «Non te stavo a seguì, non te preoccupa. Stavo a cerca r'bagno».

«Beh, chiaramente questo non è r'bagno, Simò».

Ma fa sul serio?

«Grazie a Dio che ce stai te, signor perspicacia» controbatte, irritato. «Almeno mo' che l'ho capito me ne posso andare. A differenza tua che stai qua a fissa le pareti degli altri».

L'espressione sul viso di Manuel cambia. Si affievolisce, si spegne. Tutta la sua saccenza, la sua ostinazione, la sua sfacciatezza, vengono sostituite da un velo di malinconia. Alza un po' lo sguardo verso il soffitto, e apre leggermente le labbra tirando via le mani sudate dalle tasche e strofinandole sui pantaloni.

Poi, torna a rivolgere l'attenzione al quadro dietro di sé.

«Non le pareti, Simò» sussurra. «Il quadro. Guarda il quadro».

Il volto di Simone si tinge di confusione. Si avvicina un po' per osservare la tela, contornata da una cornice dorata e brillante. Le chiazze di vernice rappresentano una città, forse del nord, completamente innevata. Il sole è alto in cielo, le macchine percorrono le strade, un campanile sovrasta l'intera immagine rendendosi protagonista del quadro.

Simone assottiglia lo sguardo.

Non capisce.

«Mbè, che c'ha di speciale? È un quadro, Manuel».

Manuel si volta di nuovo verso di lui, e gli pare quasi che stia per scoppiare a piangere.

Simone tenta di ingoiare il nodo in gola inutilmente.

«L'ora, Simò» dice, fissandolo dritto negli occhi. «Guarda l'ora».

In un primo momento, non capisce. Muove le pupille tremanti, studia il paesaggio, ne cerca i dettagli. Lo fa una, due, tre volte. Quasi prosciuga la tela mentre la analizza, in effetti.

Ma non trova niente.

Non trova niente, fin quando i suoi occhi non cadono di nuovo sul campanile.

Non trova niente, fin quando non legge l'ora segnata dal grande orologio.

Mezzanotte.

E l'aria si gela.

«Il sole a mezzanotte» biascica.

E Manuel, affranto, annuisce,


**


21 giugno 2025


Simone è strano da giorni e questo Manuel lo ha capito.

Col passare degli anni, ha imparato a decifrarlo come fosse una mappa, quindi sa perfettamente che, quando è arrabbiato per qualcosa, Simone evita di guardarlo, di lasciarsi toccare, risponde a monosillabi e, soprattutto, si tortura le mani, sfregando le nocche fino a quasi consumarle.

Sono comportamenti che gli vede mettere in atto in quel preciso istante, mentre sono seduti sulla panca di legno, al tavolo, uno di fronte all'altro, sotto al porticato della Villetta dei Balestra, col sole caldo di giugno che illumina ogni cosa e i fili d'erba verde di fronte a loro che leggeri vengono mossi dal vento.

C'è silenzio intorno, riempito dal cinguettio degli uccelli e null'altro.

Manuel continua a scrutare Simone, ad analizzare i suoi tratti. Lo vede teso, con la mandibola contratta, con le labbra screpolate e appena tagliate perché, di sicuro, se le è morse fino a quel momento.

Sì, fa pure quello quando è nervoso.

«Me vuoi dì che c'hai o dobbiamo continuà a fa' finta de niente?».

Ad un tratto, Manuel parla. Cerca di tenere un tono di voce calmo, pacato, nonostante dentro di lui regni il caos.

Perché è preoccupato da quel silenzio tra loro, che c'è stato altre volte – molte altre volte – ma mai così intenso, così duraturo.

Sono due settimane che a stento si rivolgono la parola.

Una intera che manco si baciano e Dio solo sa quanto gli mancano i suoi baci.

Simone, comunque, non risponde. Evita proprio. Piuttosto, stringe i pugni sul tavolo, si alza in piedi con uno scatto e rientra in casa.

Lascia l'altro lì da solo, a fissare il vuoto come un perfetto idiota.

Perfetto idiota ci si sente per davvero, in quel momento, e non sa manco se sia giusto o meno.

Ha persino provato a ripercorrere i comportamenti avuti nell'ultimo periodo, per capire se ha fatto o meno qualcosa di sbagliato, ma non ha trovato nulla.

Per quanto si senta perennemente in difetto, stavolta non crede di aver fatto qualche casino.

Almeno non con Simone.

Con lui si è ripromesso di non farne più, di casini.

A ragion di logica, dovrebbe andarsene.

Tanto è saturo del trattamento del silenzio che l'altro gli ha riservato nelle due ultime fottute settimane. Però è troppo orgoglioso per lasciar perdere, specie quando non ha nessuna colpa.

Nessuna che vede.

Occorrono dodici minuti a Manuel per rimettersi in piedi, percependo l'intero corpo come un macigno, e raggiungere Simone.

Lo trova al piano superiore, nella sua stanza – quella che fin troppe volte è stata la loro.

Che lo è ancora.

Si ferma sulla soglia della porta, appoggiando una spalla allo stipite. «Mò le risolviamo così le cose, Simò?» esclama. «Scappando?».

Simone è seduto sul letto, a gambe incrociate. Tiene lo sguardo basso, a fissarsi le mani. Non gli risponde.

Bene, ulteriore silenzio, fantastico.

Manuel pensa di essere vicinissimo al punto di rottura. Prende un respiro profondo. Quella situazione è una tortura.

«N'ero io quello che scappava? Ce siamo scambiati er ruolo?».

Ancora nulla, il vuoto totale.

Non capisce.

Osa compiere due passi – soltanto due – all'interno della stanza. «Simo» ripete e la voce gli si incrina un briciolo. Si ferma ai piedi del letto. Non riesce ad andare oltre, ad essergli più vicino, per quanto lo vorrebbe. «Me puoi dì qualcosa? Anche solo...».

«Credo che- deve finire qua».

Un fulmine che cade d'improvviso su un albero e lo incendia avrebbe lo stesso effetto: improvviso, non prevedibile.

A tutto pensava Manuel – a qualche capriccio, ad una sciocchezza da niente – invece tale affermazione gli si scaglia addosso con violenza, una palla di cannone in pieno stomaco.

«Che?» gracchia, incredulo.

È soltanto allora che Simone solleva il capo. Il suo sguardo è impenetrabile, cupo. È così diverso dai suoi occhi docili, grandi e profondi. Adesso, in quelle pozze color miele – rese di quella tonalità dalla forte luce del sole che proviene dalla portafinestra – c'è soltanto freddezza.

E Manuel non la capisce. Non crede di meritarselo quello sguardo.

Non ottiene alcuna spiegazione. Il petto gli sussulta appena, i palmi iniziano a sudare.

«Perché?» sta soffocando.

Simone sbatte rapidamente le palpebre. Si rimette in piedi. Scuote la testa, cerca di non far incrociare i loro occhi.

Manuel vuole quasi credere che sia per un motivo particolare, che magari sta fingendo, che è tutta una messinscena, uno scherzo di cattivo gusto.

Ti prego, dimmi che stai fingendo.

Osserva le sue spalle, frattanto che l'altro ragazzo si è posizionato davanti alla portafinestra, con le braccia incrociate al petto.

A Manuel sfugge una risata, isterica ed esasperata. «Così?» dice. «Me lasci e- manco un motivo me merito?».

Ancora niente.

Gli pare di impazzire. Per l'ennesima volta, cerca di mettere in rassegna ogni cosa fatta nelle due settimane precedenti, cerca colpe che non pensa di avere.

Evidentemente, sbaglia pur restando fermo.

Stringe i pugni lungo i fianchi. Fatica ad avvicinarsi a lui – come se fosse sbagliato anche quello, cazzo.

Da quando è sbagliato starsi vicini?

«Quindi» soffoca, fermandosi dietro all'altro ragazzo – soltanto un metro li separa, forse meno. «Decidi tutto tu? Decidi che è finita senza 'na ragione e io che devo dì? Che me va bene e basta?».

Nulla.

Nessuna reazione, nemmeno un lieve tentennamento.

Manuel potrebbe esplodere in quel preciso istante. Sente gli occhi pizzicare, ma non vuole piangere, non vuole mostrarsi così debole.

Così patetico.

«Oh!» urla. Lo prende di forza per le spalle, lo costringe a girarsi, ad un faccia a faccia – sebbene Simone lo eviti ancora il suo sguardo.

Manuel lo scuote, lo fa con vigore. «Me lasci senza un motivo, Simò?» esclama, usando il tono più fermo che è in grado di trovare. «Senza- dirme se ho fatto qualcosa de sbagliato, se posso rimedià, se posso...».

«Non hai fatto niente di sbagliato».

Si ferma, trattiene il respiro. «E allora perché?». Ha paura.

Simone serra le labbra. Tiene gli occhi bassi, a fissare un punto fermo e vuoto del pavimento. «Perché non ti amo più».

Una nuova sentenza piomba su Manuel ed è peggio di quella precedente.

Mille volte peggio.

Percepisce il mondo crollargli addosso, la forza di gravità tirarlo verso il basso.

«Non è vero» sibila, con un groppo in gola che gli impedisce persino di parlare bene. «Non- non riesci manco a dirlo guardandomi in faccia».

È allora che arriva l'ennesima pugnalata, al centro esatto del petto, a frantumargli il cuore.

Simone alza lo sguardo, fa incatenare i loro occhi - gli uni dentro gli altri, come è successo così tante volte, prima di stare insieme, prima di scoprire quanto si completassero l'un l'altro, prima di riempire i rispettivi spazi.

«Perché non ti amo più».

Crack.

È il solstizio d'estate, fuori. È il giorno con più luce in tutto l'anno ed è buffo come, per Manuel, adesso, si sia fatto tutto buio.


**


Simone ormai ha gli occhi bagnati. La sua vista è appannata, tanto quanto la sua mente. È lucido, certo, ma gli gira la testa, il mondo è rosso, il sangue bolle.

Freme. Dalla rabbia.

Perché Manuel è ostinato, continua a rigirare il coltello nella piaga. Continua a sbriciolare speranza da tutte le parti, per poi spazzarla via senza lasciargli il tempo di raccoglierla. Lo illude, lo inganna, preme sul suo cuore come fosse il tasto di una game machine. E Simone è stanco di giocare, stanco di lottare.

Lasciami andare.

Sgroviglia i tuoi fili, tessitore d'inganni.

«Mi stai prendendo per il culo? Eh?» quasi urla, con isteria. Il suo respiro è irregolare. «Dimmi che non te ne stavi qua a fissare un quadro di un posto dove ti ho detto che volevo andare. Dimmi che non lo stavi davvero facendo, per favore. Che non mi trovi così patetico da fare una cosa del genere.»

Manuel lo squadra. Nei suoi lineamenti legge furia selvaggia, strilli, veleno. Quasi si spaventa, quasi non lo riconosce. La sua naturale dolcezza è stata dilaniata, logorata da quella stessa bestia che lo ha portato a terminare la loro relazione.

Quasi gli viene da piangere.

Simone, amore mio, dove sei?

«Non ti trovo patetico,» sospira, abbassando lo sguardo verso il pavimento. «credici o no, Simo', stavo qua perché sto quadro m'ha ricordato di te. Perché m'interessa di te.»

Simone sgrana gli occhi, Se possibile, si iniettano ancora più di sangue.

E ancora, Manuel non capisce. Sa solo che nessuno dei due riesce a respirare, e che entrambi fanno passare l'aria attraverso la bocca spalancata. Che Simone è così sfrontato da cercare un confronto, mentre lui può solo limitarsi a guardare a terra. Che non ce la fa più a sostenere nulla, tantomeno quel cielo maledetto nelle iridi dell'altro.

Manuel non è Atlante, d'altronde.

Simone assottiglia lo sguardo. «Smettila di riempirmi di cazzate, Manuel. Mi ha rotto il cazzo.» sibila.

E tu mi hai rotto il cuore.

«Ma sai che te dico–vaffanculo Simo'!» urla allora Manuel, preso da una collera improvvisa. Rivede l'apatia sul viso di Simone, riascolta le sue parole.

Gli rimbombano nella testa come mille echi, lo torturano in quel momento come hanno fatto in mille altri incubi. Ricorda la mancanza di spiegazioni, Simone che semplicemente se ne va via.

E non ci vede più.«Io ero disposto a darti tutta la vita mia, hai capito si o no? Sei tu che te ne sei andato, merda. Sei tu che ci hai rovinati. È colpa tua se è andato tutto a puttane!»

Simone lo fissa, incredulo. Sembra aver visto un fantasma, l'ombra di un ragazzo che una volta conosceva. È scuro in volto, è notte.

Scuote la testa, arricciando il naso.

«Tu continua a dare la colpa a me, se ti fa dormire la notte,» ribatte, serio.«ma sei stato tu a minare il nostro rapporto con il tuo comportamento di merda, e in fondo lo sai anche tu. Ma è questo che fai tu, alla fine–prosciughi ogni cosa bella che hai con il tuo egoismo, fino all'ultimo goccio. E non te ne frega un cazzo di chi ti ama davvero.»

Manuel si sente trafitto. Da uno, due, mille pungiglioni. Gli si gela il sangue a quelle parole, è paralizzato. Quando racimola il coraggio di incrociare gli occhi dell'altro, poi, li trova gelidi quasi quanto il suo sangue.

Rabbrividisce.

«Simo...»

Non fa in tempo a continuare. Il loro contatto visivo dura poco, interrotto da Simone stesso che fa per andarsene. Si rigira sulle sue stesse gambe, gli da la schiena.

Di nuovo.

Come mesi prima.

«No—» esclama Manuel, affrettandosi verso la porta in modo tale da raggiungerla prima di Simone. «—no, mo' non te ne vai Simo'. Mo' resti qua e me dai le spiegazioni che me merito.»

Simone ha le pupille dilatate mentre segue i suoi movimenti. Lo osserva allungarsi per sbattere la porta, piazzarsi di fronte a lui con le braccia conserte.

Deglutisce, cercando di sostenere il suo sguardo.

«Manuel—» soffia, interdetto dall'improvvisa mancanza di ossigeno. «lasciami passare.»

«No» è la risposta che gli arriva. Chiara e coincisa, fredda e tagliente.

In quel momento sono fuoco e ghiaccio. Simone ha le fiamme negli occhi, per la rabbia, per i mille incendi che sono rimasti accesi da troppo tempo. Manuel, dal canto suo, sostiene il suo sguardo, anche se le sue membra si stanno sciogliendo.

Resta gelido, vuoto.

Esattamente come lo ha lasciato mesi prima.

Esattamente come la Norvegia.

«Non c'avevi fantasia de parla', Simò?» ringhia Manuel, a denti stretti. «Mo' quinni parli. E me dici tutto quello che me devi dì.»

Simone lo squadra da capo a piedi prima di rivolgere uno sguardo alla finestra, facendo due passi indietro. «Io non c'ho niente da dirti.»

Manuel ride. Gli vibra il petto di angoscia, di furia. La mandibola gli trema, le gambe rischiano di cedere.

Nonostante questo, però, cerca degli occhi che non osano guardarlo.

«Sei n'bastardo, Simò'. Sei n'cazzo di vigliacco. Parli, parli, parli, ma poi scappi sempre. C'hai sempre la scusa pronta, hai sempre ragione tu. Dici tanto a me che so' egoista, ma te ne sei andato quando t'ha fatto più comodo senza degnarmi di una cazzo de spiegazione.

A Simò', sai che te dico? Guardate allo specchio prima de parla, che qua l'unico cazzo de egoista sei te.»

Simone sembra sul punto di obiettare più volte. Apre e chiude la bocca, si blocca, riparte.

Assomiglia a un disco rotto, a una corda di chitarra spezzata.

«Bugiardo—» Simone non si controlla. Fa un passo in avanti, poi un altro ancora, fino a stargli di fronte. Gli dà una spinta leggera, quanto basta per spostarlo. Manuel sgrana gli occhi. «—bugiardo—» un'altra spinta. «—bugiardo—» un'altra. «—ti odio.» soffia infine.

Piega il collo verso il basso, ormai sono dall'altra parte della camera. Manuel lo fissa incredulo, ed è vicino, tanto vicino. Simone sente la pelle solleticare sotto il suo sguardo.

Continua a respirare in maniera affannosa, e il mondo è troppo nero perché lui possa preoccuparsi di ciò che ha appena detto. Rielabora solo in un secondo momento le sue parole, quando trova di nuovo il coraggio di guardare Manuel, di studiarne le iridi lucide.

Un po', si sente morire.

«Tu non mi ami più.» sussurra il ragazzo che è stato appena spintonato, con voce spezzata e sommessa.

Appare arreso, schiacciato dal cielo.

Per un attimo, il suo cuore smette persino di battere.

«Sei tu che non mi ami più.» ribatte Simone, con convinzione. Come se fosse possibile, in quell'universo e in quella vita, che Manuel non lo ami.

Eppure, non lo è.

Manuel non riesce più a immaginarsi non innamorato di Simone.

«Ma che cazzo stai a dì,» sibila in risposta, sdegnoso. «te sei rincoglionito? Sei te che m'hai lasciato—»

«Perché tu non mi ami!» urla Simone, con il fiato corto, il cuore a mille.

Manuel si sofferma sul suo viso stanco. La matita sotto gli occhi gli dona, rende il suo sguardo più penetrante. I riccioli non gli piacciono, sono troppo ordinati dal gel, non sembrano abbastanza morbidi. L'eyeliner, in qualche strano modo, non solo risalta la forma degli occhi, ma marca ancora di più anche la sua mascella, che Manuel vorrebbe solo baciare baciare baciare.

Il rossetto, poi.

Simone ha le labbra dello stesso colore delle guance, e la cosa lo fa impazzire.

Tutto di lui, in realtà, lo fa impazzire. Quel caratteraccio che si ritrova, e la sua tendenza ad essere un maniaco del controllo. I suoi sorrisi rubati, le sue battute squallide e stupide, il modo in cui cerca di pettinarsi e fallisce miseramente. Gli occhi che brillano di vita, la sua goffaggine mentre balla, il modo in cui si tiene il labbro inferiore tra i denti mentre studia.

Manuel ama tutto, di Simone.

Tutto.

Non riesce proprio a spiegarselo, cosa abbia sbagliato. Perché Simone non lo abbia captato, cosa lo abbia portato a pensare il contrario. E la cosa lo irrita, parecchio.

Simone, perché dici così se ti avrei dato tutto?

«Smettila co' ste stronzate,» soffia. Nel frattempo, Simone ha rialzato la testa, e ora deve guardare in alto per poter incontrare i suoi occhi. Solleva il mento, fiero. Quasi crollano entrambi. «lo sai benissimo che ti amo. Sei stato tu a lasciarmi, quando t'avrei dato tutto.»

Ma Simone nega con la testa.

E di nuovo, Manuel si chiede dove abbia errato.

«Smettila,» ribatte, con la voce quasi rotta da un singhiozzo. «smettila di dirmi bugie. Non ce la faccio più, Manuel. Lasciami andare e basta, per favore.»

«Prima me dici perché m'hai lasciato.» ordina Manuel, serrando la mandibola.

«Manuel...»

«Dimmelo».

«No, non te lo meriti. Non ti meriti un cazzo da me».

Per un istante, la luce si colora di rosso. Le pareti si tingono di distruzione, di rovina.

E Manuel vorrebbe solo strillare.

«Valgo—» la voce gli si spezza. «—valgo così poco per te, Simò? Manco na spiegazione? Tutto il tuo amore per me era questo? Una cazzo di bugia? Qualcosa di immeritato? O era solo pena, Simò? Dimmi la verità—stavi co' me per pena? O forse era perché c'avevi r'terrore de rimane solo? Eh? Perché Simò? Per quale cazzo di motivo—»

«Per Giorgia!» fiata Simone, un po' troppo ad alta voce.

Le pupille di Manuel si dilatano. La sua mente lavora quelle due parole, cercando un significato, un'implicazione nascosta. È confuso, adirato, spezzato.

E continua a non capire.

«Gio—Giorgia?» balbetta, perplesso.

Neanche lo sa, poi, chi è sta Giorgia.

Simone sospira, rabbioso. «Si, Giorgia,» sibila. «che c'è? Non te ricorda niente?»

Manuel scuote la testa. Vorrebbe che qualche allarme si accendesse nella sua mente, che riuscisse a formulare un'ipotesi valida. Ma i suoi pensieri sono vuoti, sformati.

E ancora, non capisce.

«Allora permettimi di rinfrescarti la memoria,» replica, cupo. «la ragazza co' cui hai chattato per mesi. Regolarmente. Intendo quella del "sei sicuro che Simone non sospetta nulla?"».

«Ah ma Giorgia—aspe', ma tu che cazzo ne sai?»

Simone vorrebbe sparire. Ha parlato d'impulso, non ha pensato realmente a ciò che avrebbe voluto dire. Si è scavato la fosse con le sue stesse mani, sente già la terra crollare sotto i suoi piedi.

Era per questo motivo qui, che non voleva parlare. Per non essere costretto ad osservare i lineamenti di Manuel piegarsi in quel modo. Per non sentirsi troppo piccolo, troppo insignificante.

Tutto inutile.

Hai parlato troppo.

«Simò, me risponni?» insiste Manuel. «Che ne sai tu? M'hai controllato r'cellulare?»

«Io—»

La verità è che non sa che dire. Vorrebbe soltanto sparire, sprofondare in quell'abisso che sono gli occhi di Manuel e nascondersi per sempre.

Eppure, Manuel non glielo permette. Continua a stringergli la mano, nonostante tutto. Prova a tirarlo su, di peso.

E gli brucia la pelle.

«Non ce posso crede'» borbotta il ragazzo in smoking, alzando gli occhi al cielo. Fa schioccare la lingua sul palato, si porta le mani sui fianchi.

Si morde il labbro. Una, due, tre volte.

Si sta trattenendo, Simone lo sa.

E la cosa lo fa rabbrividire.

«Giorgia—Giorgia,» ripete Manuel, con isteria nella voce. «Giorgia, Simò. La tipa dell'agenzia di viaggi, intendi? Quella co' cui ce stavo a organizza r'viaggio a sorpresa in Norvegia?»

Simone non risponde.

Le sue corde vocali sono bloccate, ferme al momento esatto in cui è stata pronunciata la parola Norvegia. Ripensa ai messaggi che ha letto in quei mesi, alle chiamate che ha controllato e origliato, alle frasi in codice e alle continue inspiegabili assenze di Manuel. Ripensa alla morsa al petto ogni volta che lo ha pensato con qualcun altro, al dolore, al cuore spezzato.

Ripensa ai mesi che hanno passato separati. Ripensa alla sua stessa mania, alla sua stessa sfiducia. A come alla fine è stato lui a rovinare tutto , per puro egoismo, per paura.

Non parla, quindi, non potrebbe mai.

Si disgusta in silenzio e basta.

«Che c'è, Simò, mh? Non risponni? Te sei reso conto della cazzata che hai fatto?»

Manuel, d'altro canto, è nero. A stento ci vede, a stento si sente parlare. Sta male per i mesi passati separato da Simone, per il cuore spezzato che continua a pulsare nella sua gabbia toracica. Sta male per la mancanza di volontà da parte dell'altro, per quanto poco ha lottato per lui, per quanto poco sembra tenere a loro.

Fa male, diamine.

Fa male da morire.

«Lo sai che c'è?» urla. «Penso che hai fatto bene bene a lasciarme. Che non ce voglio sta co' n'maniaco del controllo, e co' uno che ce tiene così poco a me che neanche c'ha r'coraggio d'affrontarme. M'hai appena dimostrato che tutto il tuo grande amore era una stronzata, Simò».

Simone apre la bocca, colpito.

«Non era una stronzata» nega.

E Manuel, di nuovo, ride.

«Non era una stronzata?» ripete, quasi schernendolo. «Non era una stronzata? Ma te senti quando parli, Simò? Lo vedi quello che fai, come te comporti? Dove cazzo sta st'amore? Dove cazzo è stato sti mesi, eh? Dove cazzo sei stato sti mesi?»

Il grido assomiglia ad una richiesta di aiuto. Rimbomba tra le pareti della mente di Simone, sovrastando ogni pensiero razionale, persino i battiti del suo cuore. Non sente più nulla, se non il dolore di Manuel.

E fa dannatamente male.

Così male, che lo fa addirittura infuriare. Perché se Manuel davvero crede che lui non lo ami, allora non si è mai preso del tempo per studiarlo. Probabilmente non lo ha mai compreso a fondo, non si è mai sforzato di conoscerlo.

Forse, neanche lo ha mai guardato.

Chi mai guarderebbe Simone ed oserebbe dire che non è innamorato di Manuel?

«Io ti ho amato sempre, Manuel» risponde, alzando leggermente la voce «E che io non l'abbia fatto è l'unica cosa che non puoi dire di me!»

«E allora forse era meglio de no!» grida. «Forse era meglio che non m'amavi—m'avresti reso la vita più semplice!».

Ci sono momenti in cui il tempo si blocca. Momenti in cui è tutto troppo fermo, in cui va tutto troppo lentamente. Sono quei momenti in cui le lancette sembrano schernirti, e l'orologio sembra farti le pernacchie.

Momenti atroci, momenti in cui il sangue raggela.

E quello, di certo, non è uno di quei momenti.

Succede tutto troppo velocemente. Simone scatta verso Manuel, che è spinto all'indietro, fino ad essere inchiodato al muro. Gli respira sulle labbra, sul naso, guardandolo dritto negli occhi. Poggia una mano sulla parete, affianco alla sua testa.

È rosso, in volto. Si lecca un labbro, deglutisce.

Alterna lo sguardo più volte tra il suo viso e il suo corpo, fasciato dallo smoking nero e aderente.

Vorrebbe strappargliela di dosso, quella giacca.

E lo stesso vorrebbe fare Manuel con lui.

«Non è vero.» sussurra Simone, acidamente. Il suo fiato è una dolce carezza, in contrasto con l'asprezza del suo tono.

Manuel scuote la testa, debolmente.

Potrebbe morire lì, in quell'istante.

E morirebbe anche felice.

«Non lo è» insiste Simone, avvicinandosi ancora di più. «Non lo è. Guardami negli occhi e dimmi che non vuoi che ti ami. Dimmelo, Manuel».

Manuel sente solo caldo. Sente caldo dappertutto, in effetti. Sulle guance, sulle orecchie, nel basso ventre. Persino le sue ossa stanno bruciando, ormai.

Ed è inquietante, quanto quella sensazione sia piacevole per lui.

«Manuel» sussurra Simone di nuovo, non avendo ricevuto risposta. Il nome vibra tra le sue labbra, come musica, come canto di sirene.

È l'ultima spiaggia per Manuel. Semplicemente, non regge.

D'improvviso, ogni logica svanisce.

Ogni controllo, ogni freno, ogni inibizione.

Perché, nonostante ogni cosa, nonostante le cose non dette, le bugie, i sotterfugi, l'effetto che si provocano l'un l'altro non è sparito.

Non può sparire, non così facilmente.

Sono come due micce che s'accendono all'unisono per far scoppiare una bomba.

Boom.

È il medesimo suono che Manuel sente dentro alla testa nell'attimo in cui, incurante di qualunque possibile reazione, si sporge in avanti e fa collidere le loro bocche.

Non è una risposta.

Non verbale, perlomeno, ma qualcosa significa.

È un bacio che risulta quasi violento, poiché troppo smanioso, troppo desiderato.

Ci sono le mani di Manuel che si infilano nei capelli dell'altro ragazzo, all'altezza della nuca. Tira appena le ciocche in quel punto, forse gli fa pure un po' male e lo capisce da come lo sente mugolare appena, con le loro labbra ancora in contatto.

Simone manco sa che fare. Gli pare di soffocare, di nuovo, ma per motivi diversi.

Le gambe gli stanno per cedere, tremano, sono deboli.

Deboli, come debole è lui in quel preciso istante, tanto che ringrazia d'avere un muro a cui appoggiarsi per non capitombolare a terra.

Si stacca dopo, con sforzo interrompe il bacio.

Scruta il volto di Manuel: il rossetto gli è finito in faccia, gli ha imbrattato la bocca, il mento e pure una piccola porzione della guancia.

Pensa che sia una bella visione, quella.

«Non m'hai risposto» soffoca.

Ma Manuel manco vuole rispondergli. Una conversazione, in quel momento, non vuole averla.

Un lieve grugnito gli esce di bocca, soffocato, esausto, allo stremo.

La verità è che quei mesi senza Simone lo hanno distrutto e adesso che un po' le ragioni le ha capite, è soltanto arrabbiato con lui.

È arrabbiato, però lo ama.

La combinazione è letale, purtroppo.

Amore ed ira non sono compagne perfette.

È il secondo sentimento che spinge Manuel a portare le dita sul collo di Simone, a stringere la presa al fine di smorzargli il respiro. Poi è di nuovo sulla sua bocca, in un rinnovato bacio che sa d'urgenza, di desiderio e di mancanza.

Simone non riesce a respirare bene, per una lunga serie di motivi. È inerme, arrendevole, ragion per cui si lascia maneggiare con facilità, come creta.

Manuel non trova alcuna difficoltà quando lo sposta, quando lo spinge, mantenendo le dita attorno al suo collo e premendo i polpastrelli sulla sua giugulare; lo trascina - letteralmente - verso quel letto matrimoniale sistemato alla perfezione.

Lo fa ricadere di peso seduto sul materasso ed è costretto a liberarlo da quella dolce prigione soltanto allora.

Soltanto per poter essere lui a muoversi, salendo a cavalcioni sulle sue cosce e puntando le ginocchia ai due lati dei fianchi.

Il costume che ha addosso comincia a stargli stretto, comincia ad essere di troppo, perché ha caldo e gli pare di andare a fuoco.

Sono chiusi in una stanza con dozzine e dozzine di persone fuori. Di sicuro le mura lì sono sottili, dato che il chiacchiericcio altrui è ben udibile, insieme ad esclamazioni e grida di esaltazioni per brindisi improvvisati.

Quindi, possono essere sentiti anche loro.

Quindi, qualunque cosa succeda, devono fare piano.

Il punto è che nessuno di loro due sa davvero cosa sta accadendo.

E difatti «Che- che stiamo facendo?» biascica Simone. Forse manco la vuole una risposta.

Manuel esita a fornirgliela.

Sono distanti soltanto qualche millimetro, la punta dei loro nasi si sfiora, i loro respiri si mescolano.

Una risata riecheggia nella stanza. «Che avemo fatto, Simó».

«Che avemo fatto».

Questa, però, non è affatto una domanda.

Che hanno fatto? Non hanno parlato, hanno lasciato troppe cose in sospeso, hanno creduto a vicende non vere, si sono nutriti d'illusione.

È la parte peggiore, perdersi per non aver chiesto.

Perdersi per non avere insistito.

Che a Manuel pare di aver vissuto lo stesso giorno di tristezza per mesi, senza Simone.

Del resto, non esiste soltanto il sole a mezzanotte.

Esiste pure il buio a mezzogiorno.

L'espressione di Manuel si fa appena più docile, così come il bacio che gli riserva ora: sulla bocca, più attento, più lento. Inserisce timidamente la lingua, come le prime volte che capitava tra di loro, con quel leggero imbarazzo che ha sempre caratterizzato le prime interazioni.

Appoggia le mani sul suo petto, sotto la giacca, a sfiorare il tessuto ruvido della camicia.

In maniera inconscia o meno, sta facendo oscillare il bacino. Percepisce una leggera frizione contro quello dell'altro, seppur resa difficile dall'ingombro dei pantaloni.

Simone rilascia un sospiro sommesso e «Manuel...» sibila ancora. Non aggiunge ulteriori parole, piuttosto con le labbra si sposta sul suo collo, inizia a baciare ogni centimetro di pelle che trova libero - sono pochi, considerando il colletto alto della camicia. Si sofferma, allora, sotto la mandibola.

L'accenno di barba gli fa il solletico.

«Simo...» mormora Manuel, arrendevole. Una parte di lui gli vuole quasi chiedere di fermarsi, che già sono andati oltre per due che dovrebbero parlare e chiarire.

Soprattutto, sono andati ben oltre considerato che dovrebbe solo prenderlo a schiaffi per aver rovinato ogni cosa per una paranoia infondata, per non avergli chiesto alcuna spiegazione, per aver ritenuto valesse zero.

Eppure a dirgli di smetterla non ce la fa.

Forse quell'ennesimo errore possono compierlo, insieme.

Così afferra una sua mano, fino a quel momento ferma sulla propria anca.

La conduce in modo lento e attento verso l'erezione già presente nel cotone dei boxer, la stessa che è piena e sembra pulsare.

Un po' si sente ridicolo per essere eccitato senza nemmeno bisogno di essere toccato. Ma tant'è.

Simone scosta il capo di fronte a tal gesto. Aggrotta le sopracciglia, osservandolo di sottecchi. «Vuoi...» fa per chiedere e Manuel si affretta ad annuire, mordendosi il labbro inferiore. Un briciolo se ne pente.

Ma è una sensazione che cessa quando l'altro lo fa spostare e lui si ritrova sdraiato sul letto, in posizione supina, con le braccia alzate e adagiate sul materasso.

Simone gli è sopra solo in parte perché gli occorre dello spazio per poter slacciare il bottone dei pantaloni dell'altro e tirare giù la cerniera con uno scatto.

Mantiene il contatto visivo tra di loro, da legare i loro sguardi mentre infila una mano oltre l'elastico dei boxer. Inizia a massaggiare con la punta delle dita l'eccitazione presente, partendo dalla sua base e salendo pian piano.

Il punto è che sono in una casa che non conoscono e di certo nessuno dei due si è recato in tal luogo con secondi fini, per cui non hanno l'occorrente per fare altro - per quanto entrambi lo desiderino.

Ma va bene così, per ora.

Manuel socchiude le palpebre. Il tocco di Simone gli è mancato come aria nei polmoni: percepisce le sue dita gelide - sono quasi sempre gelide - toccare la propria pelle che, invece, pare andare a fuoco per quanto è bollente.

Serra le labbra per trattenere un gemito sommesso quando l'altro va a stuzzicare il glande e lì insiste con i polpastrelli.

«Cazzo» si lascia sfuggire, con voce strozzata.

Simone sorride, soddisfatto. Abbassa la testa, per poterlo baciare sulle labbra in maniera dapprima fugace, poi con appena più insistenza frattanto che osa movimenti più decisi e vigorosi con la mano stretta attorno all'erezione dell'altro.

Lo masturba docilmente, per condurlo al piacere che sembra dovergli.

Come fossero delle scuse per aver rovinato quello che avevano.

Di certo sa che non è così che si risolve ogni cosa, anzi.

Toccarlo in quel modo, baciarlo, non mette un punto alle loro cose irrisolte, ma può contribuire all'inizio di qualcosa.

Simone tiene un braccio piegato, con un avambraccio sul materasso per poter stare col busto appena sollevato. Da una simile posizione, riesce con chiarezza ad osservare i lineamenti di Manuel, i suoi leggeri cambi d'espressione ad ogni cambio di ritmo che apporta mentre continua a toccarlo.

Pensa che sia bello anche in quel frangente, ad occhi chiusi con l'orgasmo che sta per avvolgerlo.

«Manuel?» lo richiama, lo spinge a sollevare le palpebre.

Si sbilancia nella sua direzione, massaggia con più vigore - ancora di più - la sua erezione che pare scoppiare adesso.

Preme la bocca sulla sua, forte, con rinnovata urgenza.

È in quel preciso istante che Manuel viene, con un urlo che soffoca sulle sue labbra. È un piacere che gli fa tremare ogni fibra del corpo, che gli fa persino sussultare il petto.

Si aggrappa a lui, ad una sua spalla per poterlo attirare di più a sé, per sentirlo più vicino.

Non riesce a proferire parola, anche se è ben consapevole di ciò che potrebbe dire.

Voglio che tu mi ami, almeno un briciolo di quanto ti amo io.


**


Le voci delle persone fuori dalla stanza sono l'unico rumore rimasti da far da sottofondo.

Simone e Manuel sono ancora sdraiati in quel letto matrimoniale, a fissare un soffitto ingiallito e anonimo.

Se non ci fossero quelle voci, adesso ci sarebbe soltanto silenzio.

Che è strana l'assenza di suono dopo ciò che è appena avvenuto.

Non si guardano in faccia, forse per timore o chissà che altro.

Manuel ha ancora il bottone dei pantaloni slacciato. Lo smoking addosso gli dà fastidio, vorrebbe liberarsi di quel tessuto così opprimente e indossare i suoi jeans e canotta, con i quali si sente decisamente più a suo agio.

La prossima volta che Chicca lo convince a travestirsi, di sicuro si metterà ad urlare e non accetterà.

Il trucco agli occhi si è sciolto ad entrambi e tracce di nero sono presenti al di sotto di essi.

Quando volta il capo, riesce a scorgere il profilo di Simone. La linea del suo eyeliner non è più definita e risulta sfumata.

«Simo...».

«Mh?».

Si morde piano l'interno della guancia, nervoso. «Ce só andato da solo in Norvegia».

In un primo istante, Simone rimane immobile. Si sente in colpa per cosa è successo, per come ha frainteso gli avvenimenti, per come ha distrutto quel che avevano per castelli di carta che ha costruito sul nulla.

Che stupido.

Si volta poco dopo, rimanendo serio.

«Non era come m'aspettavo» confessa Manuel «Pure er sole a mezzanotte, non era così bello».

«Perché?».

«Perché volevo che quel giorno finisse». Si lascia sfuggire una risata, priva d'entusiasmo. «Non era un giorno perfetto, non c'è stato nessun giorno perfetto da quando m'hai lasciato».

Ecco.

Sentirglielo dire ad alta voce, per Simone è addirittura peggio. Manda giù a fatica della saliva. Si gira su di un fianco e allunga una mano per poter accarezzare una sua guancia con la punta delle dita.

«Ci possiamo tornare, in Norvegia».

Gli esce quello fuori di bocca ed è una sola frase che significa qualcosa di più.

Che significa magari possiamo ricominciare, magari mi puoi perdonare, magari puoi amare ancora questo perfetto idiota e lasciarti amare di conseguenza.

Sul volto di Manuel appare un sorriso amaro.

«Ce possiamo pensà» mormora, con voce graffiata. «De tornacce, intendo. Beh, io ce torno, tu— non ce sei mai stato».

Anche quella risposta assume un diverso significato.

Tipo magari mi lascio amare di nuovo da te, però non farmi stare ancora male.

E Simone, quello, lo capisce.

Anche se in quella stanza il sole non c'è e la Norvegia si trova lontana chilometri.

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