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Speechless


Appena i miei piedi varcarono l'ingresso dell'edificio, una fragranza d'oceano bagnò il mio olfatto, cullandolo piacevolmente in una marea di emozioni dolci.

Quel luogo era immenso, in tutte le sfaccettature in cui un'ambiente possa sembrare tanto grande; vi erano vasche in ogni dove, che adornavano ogni plissettatura della struttura, aspergendo qualsiasi spigolo d'un cobalto esuberante e di un blu ciano quieto.

L'acqua rifletteva l'energia dei raggi solari, riverberandola sulle pareti, lì sul bianco lattescente, che si umettava di una danza sfavillante di luci – che volteggiavano in piccole piroette, volteggi luminosi.

Il canto dei delfini, simile ad un acuto fischio, si scorgeva in lontananza, in sottofondo al rumore del mare che si infrangeva sui bordi delle piscine.

Mammiferi meravigliosi, i delfini, con quella lunga mandibola chiusa in un imponente becco grigio, il ventre slavato che si discosta dal colore plumbeo del corpo e quegli occhietti a forma di cuore – disegnati sul loro volto per svelare l'amore incondizionato che hanno da offrirti.

Vi erano diversi ambulatori, indicati sul pavimento da un percorso di croci rosse che si susseguivano sino ad arrivare alle porte a cui erano destinati.

Accanto al tracciato carminio, ve ne era uno blu di Persia, che delineava tanti piccoli pesciolini – come se stessero nuotando uno dietro all'altro, in perfetta fila indiana, una combinazione di precisione e colori; non li seguii, ma fui convinta che portassero alle numerose vasche che popolavano la struttura.

Avvertii un mormorio che si avvicinava progressivamente a passo d'uomo, e distinsi immediatamente il suono della voce di Eden, teso a spiegare qualche cosa ad un signore in camice bianco – immaginai che fosse uno degli zooiatri del centro quando ravvisai intorno al collo uno stetoscopio acustico.

Mi feci piccola, timida nel mio scarno guscio, attendendo pazientemente che i due uomini finissero il loro discorso agghindato di terminologie scientifiche e mediche.

E nel frattempo, con le palpebre poggiate agli occhi, mi lasciai accarezzare dalla melodia che serpeggiava in ogni dove; subito affiorarono grovigli di ricordi – ricordi di casa, ricordi d'Europa.

Io e papà percorrevamo spesso le rive impetuose dell'oceano, in una silenziosità ed una quiete che solo noi due comprendevamo, vivevamo. Una segretezza scavata sottopelle, fin dentro le ossa – eravamo io e lui, nessun altro, solo l'oceano.

E non c'era bisogno di bisbigliare alcuna parola, i pensieri vagabondavano in assenza di voce, vestivano i gesti, gli sguardi.

Oh... gli sguardi. Quelli si che erano foderati dalle emozioni più recondite – decorati da segreti che si lasciavano intravedere dietro un sorriso, eclissati dietro una lacrima, riposti tra cipigli.

Come fossero figure parlanti che il mio babbo coglieva come si coglie un fiore, con delicatezza, soavità - con una sensibilità disarmante.

Era un buon ascoltatore, udiva i miei silenzi e li rispettava, senza ricorrere ad alcuna sentenza.

«Maui», fui distratta dal mio nome ululato nell'aria, «Maui?»

Dedussi dall'ultimo interrogativo che Eden mi aveva già chiamata un paio di volte, senza ottenere alcuna risposta.

«Ciao Ed... Salve, Signor Clark», chinai lievemente il capo accennando un saluto – avrei tanto voluto dargli del tu, vista la confidenza sottile che si stava venendo a creare date le circostanze, ma nella mia mente spuntò una nuvola che aveva le sembianze della segretaria maligna.

Se non gli avessi dato del lei, probabilmente mi avrebbe issata da terra per un ciuffo di capelli, lasciandomi fluttuare come un pendolo oscillante.

Mi toccai il capo, come se avessi patito concretamente quella punizione – maledetta segretaria.

«Signorina, non si azzardi mai più a darmi del lei», canzonò Eden indossando un tono di voce molto buffo, «Io sono Eden... Solo Eden».

Calzò una mimica dolce, così gentile e gradevole da suscitare in me una sorta di cruccio – e mi domandai perché, proprio a quell'uomo, dall'animo così apparentemente armonioso, fosse capitato un figlio tanto malvagio.

O forse non lo sapeva. Forse non era a conoscenza della ribellione nera del suo pargolo, forse ai suoi occhi era un bimbo sereno, estroverso e simpatico... si, come un riccio nelle mutandine.

«D'accordo, Eden» gli regalai un sorriso, che si conquistò con estrema facilità, «Basta che nessuna segretaria venga a sapere della nostra confidenza» sbandierai un occhiolino – e lasciai che il sarcasmo e l'ironia del momento rompessero il ghiaccio.

«Eh va bene, sarà il nostro piccolo segreto» strizzò a sua volta la palpebra, «Ora lascia che ti presenti il Dottor Forbes».

Allungò il palmo della mano dietro la mastodontica schiena dell'omone che aveva accanto.

Una persona dal viso leggermente attempato, adornato da una folta barba bianca e due guance piene e rotonde; gli occhiali sottili poggiavano sulla gobba del naso, colossale anch'esso – e scendendo lungo il camice bianco si poteva scorgere un ventre rigonfio, che tirava con discrezione il tessuto latteo.

Era decisamente aderente quel grembiule, ma cercai di non palesare l'evidenza e distolsi immediatamente lo sguardo dal buffo rigonfiamento.

«Piacere» dissi, «Io sono Maui».

«Il piacere è mio, cara. Sono il Dottor Forbes» il sorriso che spacchettò sul volto affermò l'impressione positiva che mi ero fatta di lui, «Ma tu puoi sempre chiamarmi Charles».

Non comprendevo pienamente se tutta quella confidenza e intimità fossero qualcosa di gradevole – un modo carino per farmi sentire desiderata e integrata – oppure l'inizio di una conoscenza molto impegnativa, che mi avrebbe creato qualche complicazione durante il percorso.

Desideravo mantenere certe distanze, delineare gli spazi, rispettare i ruoli, adempiere ai miei doveri senza alcun aiuto ne raccomandazione.

Ma quella gentilezza, quella cortesia e quelle attenzioni così fresche mi facevano sentire vicine a loro più di quanto non lo fossimo in realtà, ed io avevo bisogno di aver vicino qualcuno.

D'altronde, quale male poteva nuocere un uomo che aveva le sembianze di un babbo natale abbronzato?

«G-grazie, Dottor Forbes... oh, scusi» mi portai il palmo della mano sulla bocca e le palpebre assunsero una piega radiosa «Volevo dire, Charles».

Prontamente le presentazioni si persero in un saluto di congedo da parte del veterinario, che disse di avere un impegno improrogabile con un Orcinus di grosse dimensioni – l'avrei seguito, per ammirare il modo incantevole con il quale il nero livido dell'orca infrangeva il bianco latteo, ma in quell'istante Eden mi richiamò.

«Vieni Maui, andiamo un attimo nel mio ufficio», si incamminò verso il suo studio con un sorriso incoraggiante, «Prima di mostrarti il centro, vorrei spiegarti alcune cose».

Non appena ci sedemmo alla scrivania, uno di fronte all'altro, l'uomo iniziò a sistemare alcuni documenti, impilandoli in una catasta disordinata.

«Perdonami per la confusione», pronunciò mentre riponeva alcuni evidenziatori nel portapenne a forma di squalo, «Solitamente è Dalia che si occupa della parte burocratica», cercò goffamente di scacciare residui di gomma dal piano lucido con il palmo della mano, «Ecco fatto, dovrebbe essere apposto».

Imbarazzato, mi rivolse uno sguardo perplesso, come se cercasse una risposta di consenso alla sua ultima affermazione.

«Oh, certo, Eden... N-non devi preoccuparti. È tutto perfetto», bisbigliai quelle ultime parole, non perché non fossero vere, ma perché tutto ciò che mi circondava in quell'istante era incredibilmente, incondizionatamente, eccezionale. Unico e splendido in ogni sfaccettatura.

«Ecco, questo è il programma delle uscite nautiche», mi disse porgendomi una tabella blu cobalto, «Vedi, tutti i giorni ci sono ragazzi e ragazze che attraversano le acque dell'oceano con dei gommoni, alla ricerca di animali feriti... o che abbiano bisogno di aiuto», si fermò, afferrando il mio sguardo con le sue iridi – voleva esser certo che io stessi seguendo il filo del discorso.

«Sai, la plastica è il peggior nemico degli esseri marini e qui, ultimamente, se ne vedono parecchi che riportano lesioni causate da questo materiale... alcuni ci lasciano la vita», le sue pupille si velarono di dispiacere, un dispiacere che mi punse lo stomaco.

«Proprio per evitare questa fine tragica, battiamo ogni millimetro di oceano, ogni giorno, ad ogni ora. Se ti può far piacere, avrei pensato di inserirti nel turno del giovedì pomeriggio», concluse con quell'affermazione, a cui era palesemente impossibile rispondere con una negazione.

«Certo, Eden. Gradisco questa proposta e l'accetto molto volentieri», slacciai un sorriso che mi solcò due fossette – mi vedevo riflessa nella vetrina a specchio che si trovava alle spalle dell'uomo... ero davvero cenciosa quel giorno.

«Benissimo, Maui!» scattò sui piedi, lasciando che la sedia a rotelle scivolò all'indietro energicamente, «Ero certo che avresti accolto con piacere questa proposta... È una mansione molto delicata, ma confido molto in te. Sei una ragazza sveglia, in gamba, energica... questa attività ha bisogno di persone come te...», mi sommerse di complimenti, che mi si cucirono addosso insieme ad un senso di responsabilità pesante come la lana.

«Vieni, ora ti mostro l'edifico».



*


Eden mi guidò in un tour mozzafiato, mostrandomi orgogliosamente ogni angolo recondito, facendomi conoscere gli splendidi ospiti che aveva accolto sino a quel momento, e presentandomi alcuni dipendenti.

Erano stati tutti molto cordiali: una donna sulla quarantina mi offrì un bicchiere di limonata fresca, un ragazzo mi porse una fetta di cocco, ed un altro mi fece gentilmente fotografare una vasca piena di stelle marine magenta.

Quindi, dopo aver fatto merenda tra un pesce palla e qualche corallo prezioso come rubino, arrivò il momento di congedarsi.

Proprio mentre sorpassavo l'uscita del centro, Eden richiamo la mia attenzione ululando il mio nome.

«Maui!», gridò, «Maui, aspetta!».

Virai la mia testa, rivolgendogli lo sguardo, in attesa di ritrovare la sua voce.

«Sai, per le uscite di cui parlavamo prima, quelle in barca...», farfugliò con cipiglio, «Io...».

Colsi sulla sagoma rettilinea del suo viso delle leggere striature di titubanza, «Beh, ho pensato di affiancarti a Dion».

Prima ancora che io potessi cogliere e concretizzare nella mia mente quell'affermazione, mi sentii pinzare la pelle, dove affiorarono piccoli brividi – forse d'eccitazione, forse di frenesia.

Poi con uno sguardo titubante, riprese a parlare «Son perfettamente consapevole che voi non andiate d'accordo. A dire il vero, Dion non riesce ad entrare in sintonia con nessuno», lasciò che i suoi avambracci rotolassero lungo i fianchi, «Lui è fatto così, da sempre. O almeno, da quando sua madre è morta...ecco, ho pensato che la tua vicinanza potesse aiutarlo a ritrovare tutto quel buono che aveva, e che ora ha smarrito...».

Provai una sensazione di compassione – una leggera amarezza, come se l'afflizione di Eden trapassasse l'orlo della mia emotività, il ciglio del mio corpo, puntando dritto allo stomaco che si chiuse in una morsa di grigiore.

Perché infondo avrei tanto voluto credere che Dion fosse un burbero dal cuore di spuma, un groviglio di sentimenti effervescenti, bollicine d'amore e generosità... ma non ci riuscivo, non ero in grado di oltrepassare quel muro difensivo di opacità, io che sulla sommità di quell'ostacolo intravedevo solo nubi grigie, tempeste nere, nubifragi di empietà ed arroganza, vanità e superbia.

Neanche un raggio di umiltà, uno sprazzo di cordialità che mi facesse pensare, anche solo per un istante, che a ridosso di quelle nuvole ci fosse il chiarore di una persona sensibile, mite, cordiale.

Ma come potevo rifiutare l'offerta di quell'uomo, che celava dietro il suo volto una speranza ormai inabissata – e chissà, chissà da quanto tempo giaceva lì quel desiderio di ritrovare il figlio nelle voragini di un'oscurità ormai troppo fosca.

«D-d'accordo, Eden. Ci proverò... ma non posso garantirti di riuscirci», sconfortata abbassai lo sguardo.

«Grazie, Maui», mi posò i palmi delle mani sulle spalle, «So quanto la vicinanza a mio figlio sia nociva... potrai chiedermi, in qualsiasi istante, di assegnarti un altro compagno», si staccò, «Ma ti chiedo di provarci, di non farti abbattere dalla sua lingua biforcuta».

Quel ragazzo non solo aveva una lingua biforcuta, ma sgorgava veleno da tutti i pori – il taglio dei suoi occhi aveva il medesimo effetto di un basilisco, ti incenerivano con un battito di ciglia.

«Non preoccuparti, Eden. Proverò a dare il meglio di me... sai, sperando che anche lui, dia il meglio di sé».

Infine, entrambi avvolti da una nube di speranza, ci congedammo.

L'indomani sarebbe stata una giornata scomoda, certo impegnativa – soprattutto quando Dion avrebbe scoperto che suo padre lo aveva affiancato alla persona che più detestava sull'isola.

Io.

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