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Dark Soul


La mattina successiva mio padre mi mandò una mail.

Non spese molte parole, ma notai tra le righe una lieve sfumatura di malinconia, come se volesse cercare di nascondere -invano- la nostalgia che gli rigava, sicuramente, il volto.

Me lo immaginavo, disteso sul divano con la sua tazza di caffè fumante che ricercava nell'aria astratta le giuste parole da scrivermi. E le trovava, sempre. Una baraonda di sentimenti veniva scovata dietro ogni virgola sfumata, dietro ogni punto esclamativo.

Prima della mia partenza, impiegai ore interminabilmente lunghe a spiegargli accuratamente come si utilizzasse il computer che avevamo acquistato insieme.

Non era uno di quei tipi tecnologici del ventunesimo secolo. Trascorreva le sue ore in barca, diligente nel salvataggio delle balene, durante il periodo di caccia. Nei mesi restanti, lui e i suoi colleghi, battevano le acque marine in cerca di qualche animaletto da salvare, e ne rinvenivano tantissimi.

Furono rade le volte in cui lo accompagnai durante la sua attività, e in nessuna di queste occasioni fui così fortunata da intravedere il fascino che il mar di Norvegia celava, qualcosa che dalla terra ferma non si potesse ammirare.

Tante erano le domande di cui mi sommergeva premurosamente il mio babbo.

"Come stai?", "Ti piace li?", "Ti trattano bene?", "Ti manco?".

Mi mancava. Certo che mi mancava.

Come l'ossigeno sulla mia pelle. Come l'acqua ai coralli e le stelle al cielo notte.

E la marea della malinconia mi portava immancabilmente a naufragare in momenti di debolezza, plasmati dal ricordo di casa, di neve, di freddo.

Il mio cuore trapuntato di nostalgia non riusciva sempre a godersi pienamente quell'avventura trasognante di cui ne ero protagonista. Avrei voluto condividere con lui il solletico che l'aria salmastra riservava alle mie narici, o il ghiribizzo delle onde agitate e aizzate dal vento caldo e confortevole.

Ma, cielo. Ero capitata in una famiglia così accogliente. Calorosa e colma d'affetto.

E negli anfratti più celati del mio corpo non potevo che essere grata a queste persone per avermi fatta sentire così desiderata e accolta.

E allora le rassicurazioni che rivolgevo a mio padre, risollevandolo da preoccupazioni arcane, trovavano riscontro nella realtà.

Io stavo bene.

Ero grata per l'opportunità che mi era stata donata. Anzi, che mi ero faticosamente guadagnata con ogni lembo della mia pelle. Ed allora non potevo che godermi interamente il fascino sottile di quell'esperienza.

Ad ogni battito il mio cuore innaffiava i polmoni d'una vitalità vivace e si dimenava contro le costole per la letizia che mi infondeva quel paesaggio artistico.

Quel giorno trascorremmo gran parte del tempo ad esplorare gli angoli più remoti dell'isola. Ogni spigolo di quel luogo, anche il più recondito, esalava nell'aria una fragranza di gaiezza, una felicità vivace e dipinta che s'instillava in ogni poro della mia pelle delicata.

Ed io non feci altro che godermi un ciclopico gelato al cocco insieme ad Hadley e Jace, sulla spiaggia bianca, mentre gli adulti sorseggiavano una spremuta nel chiosco paglierino situato ad una decina di metri da noi.

Il palato era pizzicato dal freddo, che appagava la sensazione di calore che strisciava sulla mia cute.

Poco prima di pranzo Eden telefonò insistentemente al figlio maggiore, convincendolo ad unirsi alla sua famiglia per il pasto delle tredici.

«Ti stiamo aspettando», affermò infastidito il padre, mentre camminava avanti ed indietro sul piazzale del ristorante. Dion, dall'altra parte della cornetta, non ne volle sapere.

Dalla sua assenza dedussi che non fosse attratto dalla proposta o probabilmente aveva un altro impegno a cui non poteva di certo non presenziare.

Le ore trascorsero impalpabili nel tempo, impercettibili come il chiarore della luna dietro cuspidi nubi livide.

Mentre rientravo nell'abitazione di Dora e Jonah, la mia cute sospirò per non esser più esposta ad un'insistente luce solare alla quale non era certamente abituata.

Scorsi nello specchio la mia figura, minuta e scarlatta, come il pomodorino ciliegino che mi era stato servito negli spaghetti del pranzo. Le lentiggini siglavano le guance vermiglio: avevano assunto una colorazione più vigorosa, decisa.

Ed io maledissi i miei neuroni irregolari e frammentari per non avermi consigliato di cospargere con la crema protettiva anche quella zona del mio corpo. Sembravo vagamente un'Amanita Muscaria, con la sola differenza che i miei puntini avevano un colorito castano. Avrei potuto unirli con la penna e sicuramente avrei scorto la frase:

Sembri un fungo.

«Maui», mi chiamò Dora dopo che richiusi la porta d'ingresso, «Vuoi dell'acqua, tesoro?»

Non esitai, e accettai la proposta accennando un consenso con la testa molleggiante.

Mentre mi poggiavo sullo sgabello della penisola in marmo, piacevolmente fresca, la donna mi porse un bel bicchiere ghiacciato. Dal vetro temperato intravedevo le bollicine gassate, e le assaporai, goccia dopo goccia.

«Grazie, Dora».

«Figurati, bambina» intervenne piacevolmente Jonah, che si era posizionato accanto a me, porgendo il suo braccio intorno alle mie spalle «Non sai quanto siamo contenti di averti con noi».

«Voi... voi non avete figli?» chiesi premurosamente.

Cercai di levigare il tono di voce; avevo intravisto in qualche quadretto famigliare, un ragazzo alto dagli occhi cinerei, esattamente come quelli di Dion. Con la sola differenza che, quel soggetto, aveva una chioma bionda paglia e, ad occhio, era più basso di qualche centimetro rispetto allo squalo.

«Certo, tesoro» rispose orgogliosamente la donna, «Lui è Cole» continuò porgendomi una fotografia che sfilò premurosamente dal suo portafoglio.

«Si trova in Canada... sai, per lavoro. Ha terminato gli studi di medicina qualche anno fa e, fortunatamente, arrivò immediatamente per lui una proposta di tirocinio da parte di una delle cliniche più rinomate Toronto. Tornerà da noi durante le vacanze di Natale» affermò Dora allegra ed entusiasta riporgendo il ritratto del figlio da dove l'aveva preso.

«E' un bel ragazzo... dev'essere stata una soddisfazione notevole per voi genitori» risposi, quasi malinconica e speranzosa di poter essere, anch'io, un orgoglio per mio padre.

«Si, lo è», miagolò la donna -malinconica- mentre piantava le sue iridi nelle mie.

Jonah cinguettò brioso, per spezzare quel lieve silenzio imbarazzante, «Forza, bambina. Goditi una bella doccia prima di cena».

*

Quella sera, a tavola, stuzzicai qualche pezzo di pizza che l'uomo aveva premurosamente ordinato nel ristorante in fondo alla via. Qualche sorso di birra, un paio di dolcetti, e il mio stomaco urlò pietà.

Decisi di trascorrere il resto della serata nel patio dell'abitazione in compagnia del romanzo più privilegiato della lista dei racconti del cuore.

E lì, sotto il bagliore fioco della luna mi sentivo come Elizabeth Bennet, plasmata d'una sensibilità pastello.

Sul tavolo che presenziava al di sotto del mio libro, vi erano delle candele vivaci e aromatiche.

Poggiando il busto sbollentato e dolorante sul piano temperato, allungai il braccio destro in direzione dell'accendino che era collocato nel lato inferiore del banco.

La mia mano venne arrestata irruentemente da un palmo caldo e mastodontico.

«Molla il mio accendino» riecheggiò nell'aria confinante una voce grave, sostenuta.

Distolsi lo sguardo dall'azione inibita e incrociai i globi oculari di quell'insopportabile e nefasto di Dion.

La sottigliezza con la quale le sue pupille abissali sfogliarono il mio corpo di ogni parvenza di determinazione fu tenue, quasi inavvertibile. Lasciai l'oggetto nelle sue mani, senza scontrarmi affatto con la presunzione nella quale mi ero imbattuta.

Molle come un budino, ritrassi il mio arto e tornai a poggiare il mio fondoschiena sulla sedia di legno d'acero.

«Volevo soltanto accendere le candele» parlottai contrariata abbassando lo sguardo verso le pagine dissipate del mio libro.

E fu succinto il momento nel quale, mentre voltavo la carta tra le dita fievoli, lui mi rispose risoluto «Non mi interessa ciò che volevi fare» inalò il fumo cinereo della sigaretta che stava ingordamente fumando «Tu, le mie cose, non le devi neanche guardare».

Tornò a concentrarsi sull'ammasso di nicotina stagna e fetida che teneva tra l'indice e il medio.

Mi aveva punzecchiata nell'orgoglio, indisponendomi della forma più concreta della mia dignità.

Con la gola chiusa e le labbra sbarrate, chiusi veemente il mio libro e mi alzai dalla postazione, richiamandolo «Dion».

Drizzò disinteressato il volto nella mia direzione, riflettendo sugli zigomi pungenti il flebile chiarore della lucerna.

«Cosa vuoi?» mugolò.

Inspirando tutto l'ossigeno che quel gesto provocatorio, inappropriato alla mia persona, avrebbe necessitato, espettorai la riserva di veleno che mi si era stagnata dentro dall'attimo in cui l'avevo visto.

«Io guardo ciò che mi pare».

Feci per voltarmi, con il palato ruvido di collera e gli occhi opachi e intorbiditi da una velatura di svilimento, quando le sue labbra emisero ancora un avvertimento: «Stai giocando con il fuoco, lentiggini. Attenta, che poi ti scotti».

Forse, il mondo, non era dipinto con tinte candide e tenui come mi fece credere sempre mio padre, adornando i racconti della terra con una delicatezza ed una dolcezza che, neanche nel più recondito dei miei pensieri, avrei mai immaginato che potesse esistere una creatura tanto arrogante, tanto velenosa.

E in quel vento di fine estate, percepii un lancinante piacere d'umiliazione in quegli occhi così colmi di perfidia e d'odio immacolato. Erano calati i silenzi della notte, il buio delle tenebre, dove il ragazzo nuotava -quatto- e si impadroniva dell'abisso che già possedeva avidamente. Ma io, nelle sue acque, non desideravo certo galleggiare. Io, nella marea, volevo imparare a nuotare.

Nell'impetuoso silenzio che lasciarono quelle parole nella brezza, sentii il mio orgoglio creparsi celermente. E lì, da quelle crepe, iniziò a germogliare un sentimento d'avversione nei confronti dello squalo.

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