Cliché
I suoi occhi mi scivolarono sulla pelle.
Seguivano il mio profilo come fossero grafite, intenti a delineare il contorno del mio corpo – lui imponente, io esile.
Le mie mani slittarono dalla parete lungo i fianchi, slegandosi dalla stretta – e le mie dita si tuffarono nel vuoto, riassumendo una posizione verticale.
Le sue pupille – quelle pupille- continuavano a crivellarmi, leggermente nascoste dai fili corvino che capitolavano sul volto tagliente, piantati nelle mie iridi.
«Cosa vuoi?» sibilai – eroicamente – staccando le mie natiche dal muro. E lo sentii, lo sentii il cuore velocizzarsi dentro il petto, come fosse la grancassa di un musicista – e ritmava persino l'aria, riecheggiava nell'etere e lasciava un fragore rimestato, tempestoso.
Poi aprì un mezzo sorriso, uno di quelli arroganti, scuro come la presunzione che volle farmi cogliere – e lasciò che le parole scivolassero sulle sue labbra, salde tra i denti, torbide sulla bocca screpolata.
«Da te sicuramente niente».
E ce la fece. Ci riuscì ad intaccarmi con quel suono grave e disdegnoso, uno di quelli che si riserva per un sentimento caliginoso come l'odio, l'astio, l'avversione.
Mi scheggiò, ancora una volta, affondando dritto nella mia dignità, lì nell'orgoglio dove nessuno aveva mai osato valicare l'ingresso, traghettare sulle acque, scavalcare il varco.
Grattava l'ambiente con uno sguardo arrotato, affilando le palpebre mentre alzava maestosamente il mento acuminato, imponendomi subordinazione sotto gli zigomi taglienti – poi ammorbidì il capo, rivolgendomi un'ultima occhiata taciturna e mesta prima di vaporizzarsi oltre l'ingresso.
E sentii il mondo urlarmi nei timpani, impormi di seguirlo, di travalicare la sua altezzosità e pressarlo sottoterra, lì nelle voragini del mare, senza più permettergli di venire alla luce - di rubare il mio, di chiarore.
*
Assottigliai la rabbia sotto un velo di trucco e fui immediatamente trasportata dall'animo della serata.
Mi ritrovai sommersa in un viluppo di cocktail e aria madida.
Ed io ero seduta lì, su un tronco coriaceo intorno ad un falò ardente, calpestata sulla destra da Sun, intenta a sorseggiare una bevanda fetida e aspra, mentre alla mia sinistra venivo urtata dalle chiappe di una vacillante ragazzaccia dai capelli cobalto - intenta ad esplorare con la lingua la bocca di uno con il viso dipinto dalla china opaca.
E mi chiesi come fosse stato possibile convincermi ad uscire dalla mia confortevole camera, preferendo ad Elizabeth Bennet un gruppo di suricati ubriachi e maleodoranti.
Sun affrancò una poderosa risata quando slacciai le stringe delle mie scarpe, scrollandole energicamente con il capo rivolto verso terra, togliendo i granelli di sabbia che si erano insidiati sulla soletta.
Mi sclerotizzai, mossa soltanto dal desiderio di strangolare a mani nude il collo roseo della mia nuova amica, che sembrava perfettamente immersa nell'ambiente frastornante che abbracciava le mie orecchie garbate.
«Che c'è?» sospirai, «Odio la sabbia nelle scarpe!».
«Beh, straniera, dovrai farci l'abitudine», pigolò maldestra mentre cercava di mantenere in equilibrio le sue natiche sul tronco.
E me la concedetti la soddisfazione di spingerla al di là dell'albero mozzato al quale eravamo appoggiate, lasciando che si impastasse nei granelli salmastri, d'un beige limpido, tendente al bianco.
«Maledetta!» cinguettò sulla difensiva, partendo al contrassalto – e prendendo un lembo del cinturino in pelle della mia tracolla, mi aspirò giù con lei, nei chicchi dorati, amalgamandomi come una cotoletta nel pan grattato.
E ridemmo, caspita, se ridemmo. Scivolammo in un'ilarità così colorata, tanto variopinta da scaldarmi il cuore e farmi sentire per un istante infinitesimale nell'angolo giusto del pianeta - avrei voluto essere lì e in nessun altro luogo.
Vezzeggiata da un divertimento genuino, mi lasciai lambire dallo svago dell'attimo, permettendo alle buffe fossette di accarezzarmi il volto, così profonde che aspiravano al loro interno quante più lentiggini potevano.
Ed il fuoco del falò mi sembrò troppo caldo, così rovente e impetuoso da bruciarmi sul viso.
Ci ritraemmo dalla sabbia, assumendo una posizione elevata, scrollando gli abiti e continuando a luccicare di spensieratezza.
Poi Sun diede una rapida occhiata allo schermo del suo telefono, illuminato dall'arrivo di un messaggio.
«Maui, vieni, ti voglio presentare qualcuno» mi incalzò, affondando le sue unghie a mandorla nella mia pelle asciutta – trascinandomi tra la ressa, facendosi strada in mezzo alla bolgia di persone ottenebrate.
Ci avvicinammo al chiosco color indaco, che sfornava ad una velocità inavvertibile bicchieri rossi e blu, rasi di alcolici amari, altri di bevande zuccherose, profumate - e scorsi un impaccio rumoroso inerpicarmisi sul corpo liquefatto dalla musica e dal frastuono.
«Ragazzi» strepitò Sun tra il fracasso fiammeggiante, «Voglio presentarvi Maui», continuò aprendo un sorriso bianco, come stesse presentando una gamma di perle lucenti dietro un sipario rosso vermiglio.
Il mulatto le sfiorò delicatamente le labbra, come un petalo di rosa, salutandola amorevolmente con occhi gentili.
Mi conferì una scossa con il gomito pungente, facendo ruzzolare i miei piedi verso gli individui singolari che si trovavano di fronte a noi.
«Oh, piacere... io sono Maui» dissi – evidentemente – con voce troppo sottile, indirizzando gli occhi sulla mia destra, dove un gruppo di pollastre starnazzanti ondeggiavano il culetto scoperto nella brezza salmastra.
«Come?» urlò beffardamente un ragazzo dai capelli biondo cenere, illuminato dalla sciabolata di luci violacee, porgendo l'orecchio vicino alle mie labbra aride.
«Mi chiamo Maui» strepitai nuovamente scandendo lentamente le sillabe.
«Piacere» rimandò con voce sibilante, cingendomi con un braccio scolpito le mie spalle gracili «Io sono Zane, e loro» continuò indicando le altre due persone che fiancheggiavano Sun «Sono Tiger e Reggie».
Il ragazzo della mia amica era velato da un derma leggermente mulatto, con due globi oculari neri come la fuliggine, arrossati dall'alcool e socchiusi per il bagliore che ad intermittenza gli illuminava il volto sfatto.
Fasciava al suo corpo infervorato la piccola Sun, che ricambiava la stretta poggiando il capo al petto esaltato del suo fidanzato – e appariva ancora più microscopica e minuta a contatto con quella figura mastodontica di un metro e ottanta.
Il secondo, invece, era accarezzato da morbidi ricci castani che gli ricadevano sul viso immacolato, così innocuo da delineare un'inadeguatezza sottile in mezzo a quel trambusto agitato.
Allungai la mano, mascherando una timidezza imbranata che inibiva il mio corpo dal muoversi con scioltezza «Piacere».
«Vuoi qualcosa da bere, Maui?» domandò piacente il biondo.
«Smettila di fare il provolone, Zane! Lei è una donna d'altri tempi» lo ammonì la mia amica abbracciando con la bocca la cannuccia della sua bevanda frizzante, «Non è fatta per un cretino della tua portata».
«Non essere gelosa bambola, poi vengo anche da te. Se ti va... giochiamo insieme».
«Neanche se mi tenessero sotto tortura e tu fossi l'ultimo procione rimasto sulla terra» ribatté lei, con lieve disgusto nel tono di voce.
«Che ne dici se passassi io a giocare con te, coglione?» Tiger lo ruzzolò fraternamente, sferrandogli le nocche sul bicipite scolpito e venato.
I tre ragazzi abbozzarono un sorriso ed io li imitai, sfumando una lieve risata sommessa sul volto crespato dalle scottature.
Le ragazzine che danzavano con eccessiva ed esasperante disinvoltura si erano dileguate con qualche bel maschietto su uno sprazzo di spiaggia poco distante – le intravedevo tra le luci affievolite dei falò che foderavano l'ambiente; la musica randellava l'aria circostante, sbattendola sulla costa, donando un ritmo aggressivo alle danze del mare, coprendo la melodia delle onde salaci.
I ragazzi avevano preso un secondo giro di cocktail, offrendomi gentilmente un grande bicchiere scarlatto saturo di liquido esangue, smorto... e dall'odore molesto.
Non gradivo bere, né tanto meno immergermi in feste chiassose, ricche di idiozia e scempiaggini, ma Sun aveva tanto insistito affinché io l'accompagnassi a quel party, e fu così convincente da persuadermi a seguirla con un battito dolce di palpebre – ed io mi detestai per aver acconsentito così banalmente.
Infondo, destava così tanta dolcezza e piacevolezza da non poter affatto suscitare disaccordi o dissensi.
«Zane stava solo scherzando» evidenziò la mia amica, cinguettando quell'avviso ad un palmo dal mio timpano.
Pensava, forse, di voler riservare quell'affermazione solo a noi due – ma dall'occhiolino che zufolò il ragazzo biondo, percepii di non essere stata la sola ad aver udito le sue parole.
«Certo, Sun... l'avevo capito» sibilai, lasciando che la timidezza magenta mi subissasse i goti. Fortunatamente le luci erano talmente prepotenti e si scagliavano in maniera così dispotica sui nostri volti, da celare parzialmente il colore del mio derma.
Il mio sussurro si perse nel baccano dove, in un guizzo tra lo stuolo di ragazzini sbraitanti, intravidi i fili di seta corvino – quei fili di seta corvino.
Dion era lì, dall'altra parte della bolgia - che ci divideva come il divario invalicabile che era germogliato sino a quel momento – impervio nella sua bellezza glabra, schietta, pura come le ninfee di Monet, e dai tratti scuri della foresta di Allan Poe.
Esaltava quella sua pelle fulgida, priva di imperfezioni, in perfetta antonimia con la mia, per rimarcare ancora una volta quanto io e lui fossimo incompatibili, astri discordanti, stelle inconciliabili. Lui, mare, avvallato nel suo fascino intangibile, predisposto a quel frastuono che ci circondava soffocante. Oppressivo per me, legittimo per lui.
Con lo sguardo impigliato nelle sue mani osservavo acutamente il movimento di quei dorsi venati, rigati da violacee righe che si intravedevano anche da quella distanza, mentre testava abilmente una bottiglia di birra tra i palmi chiari.
E lì, dove l'aria sembrava mancare sulla mia pelle, il suo viso celestiale era sfiorato da un vento armonioso che rimbalzava sugli zigomi taglienti e si faceva strada tra i fili di seta corvino.
Il respiro mi si avviluppò nei polmoni quando il suo sguardo virò verso la nostra posizione – e desiderai sprofondare in un dirupo ancora più abissale di quello che ci divideva quando scorsi un sorriso mimetizzato dietro una piega aspra delle palpebre.
«Venite ragazze, andiamo al falò con gli altri» incalzò Zane poggiando la sua mano sul mio unico raggio di schiena spoglio di stoffa.
«Venite... dove?» domandai titubante puntellando i talloni nella sabbia e sostenendo lo sguardo fisso sullo squalo.
E come se i miei pensieri avessero preso un suono ancor più aitante della musica, sentii pizzicare le guance dalle lentiggini – come se si fossero rimarcate maggiormente, pronte all'incontro con il loro acerrimo nemico.
La distanza tra noi e il fuoco ardente si faceva sempre più sottile ed io, inibita, cercavo di eclissarmi dietro i muscoli spropositati del biondo – che camminava così velocemente da innaffiare con i granelli di sabbia le mie gambe nude.
Camminai quatta, nascondendo il viso tra i boccoli ramati, lasciando che mi coprissero lo sguardo come un lenzuolo fodera misteriosamente la ricchezza che sta al di sotto del suo manto bianco, custodendolo dalla polvere – ecco, io riparai le pupille dal nerofumo, dalla cipria di fuliggine che levigava l'aria, dalla corteccia bruciata che crepitava nella brezza, aggomitolando l'olfatto in un sentore intenso, corroso e consumato dalle fiamme. E lo coprii, il volto, come meglio potevo, cercando di avvallarmi dentro il mio guscio arancione, slegandomi da coloro che avevo intorno – da colui dal quale volevo smembrarmi.
Ma poi il distacco divenne lievissimo, ed io mi incurvai, nascondendomi in una morsa di protezione.
«Ciao ragazzacci» annunciò Dion altisonante, scoccando un cinque strepitante sulla mano dei tre ragazzi.
«Ciao stronzi» rispose Reggie alzando il bicchiere a mezzaria, salutando gli individui che vi erano intorno al falò.
Ed io, nascosta da un flebile scoglio di turbamento cercai di velarmi tra il ciarlare delle persone, con il respiro impigliato in gola, arida e spoglia di qualsiasi fluido, rimpicciolendomi dietro le spalle di Zane, con il capo chino verso il suolo e le caviglie affossate nella sabbia.
Ma Dion, con il suo fiuto da predatore marino, si era accorto della mia presenza ancor prima che io potessi alzare il capo per rendermene conto.
E me lo ritrovai ad un rintocco di respiro, con le labbra rigonfie che sussurrarono a pochi millimetri dal mio collo.
«E tu cosa cazzo ci fai qui?».
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