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6

Chiudo la finestra inserendo la sicura per non avere altre spiacevoli sorprese. Scendo al piano di sotto per prepararmi una cioccolata calda.
Ho bisogno di zuccheri per distrarmi e per riprendermi un momento razionalizzando il tutto.
Non so che espressione mi ritrovo stampata in viso quando raggiungo la cucina dove si trova papà, che se ne sta appoggiato al frigo impegnato a bere il caffè. So solo che mi studia attentamente.
I miei occhi invece vagano per la cucina posandosi sullo sgabello.
La ventiquattrore mi suggerisce che sparirà a breve rimanendo fuori di casa per chissà quando tempo. Di solito non rimane per più di due notti di fila ma aveva promesso che sarebbe stato più presente. Ancora non ho visto un riscontro e, in quelle rare occasioni di dialogo abbiamo discusso sul passato, sulle sue scelte e su quello che non va. Forse anche lui ha bisogno di dedicarsi a quello che lo fa stare meglio. Siamo appena usciti da una riunione di paese davvero snervante e ricca di colpi di scena che, da domani invaderanno la piazza e ogni casa.
Lo vedo stanco e mi chiedo come faccia a reggere. Dovrebbe dormire almeno un po' ma so che in clinica esistono delle stanze create appositamente per questo.
Inumidisce le labbra seguendomi con gli occhi grandi e leggermente assonnati.
«Che cosa ci fai ancora in piedi? Non stavi andando a dormire?»
Recupero un pentolino riempiendolo di latte, mescolandoci dentro una bustina di cioccolata. «Avevo voglia di bere qualcosa di caldo. Domani è sabato, non c'è scuola quindi posso dormire fino a tardi. Stai andando a lavoro?»
Beve un altro sorso di caffè. «Si, un collega ha bisogno di essere sostituito e io sono quello più vicino.»
Stringo i denti e la presa sulla frusta che continuo a girare. «Allora, com'è andata?»
Dopo avere finito di bere il suo caffè lascia la tazza accanto al bollitore riempendo il termos che infila dentro la valigetta. «Abbiamo applicato una punizione per tutti i ragazzi, senza distinzione. Pensiamo che possa essere efficace. Con chi sei rientrata?»
Deglutisco a fatica poi lecco un dito prima di sciacquare le mani. «Ho trovato un passaggio», rispondo con calma.
Vedo comparire sul suo sopracciglio una linea marcata e da questa capisco che non solo ha delle domande da farmi ma sta già passando a delle conclusioni affrettate.
Non sembra contento. È più che evidente.
«Chi ti ha dato il passaggio?»
«Un ragazzo», rispondo vaga.
Solleva la tracolla. «Eri con Kay Mikaelson?»
Sputa fuori il nome con tanto disprezzo.
Non so perché lo faccio ma nego con convinzione.
«Perché avrei dovuto accettare un passaggio da quel ragazzo? Non so se te lo ricordi ma lo odio ancora.»
Non crede alle mie parole. Inspira gonfiando il petto strizzando leggermente la palpebra destra. «Smettila di mentire!», alza la voce.
«Non sto mentendo», rispondo sentendomi colta alla sprovvista dalla sua reazione. «Ci odiamo ancora.»
Non si muove. «Eravate dei bambini quando vi siete conosciuti. Adesso siete cresciuti, siete cambiati. Smettila di mentire, Erin. Lo so che continui a farlo. Non sono stupido.»
Incrocio le braccia alzando il mento. «Ah davvero? Quando? Dimmi quando avrei mentito?»
Mi guarda con rimprovero. «Mi avevi detto che eri tornata prima della rissa e invece vengo a sapere che hai visto tutto e che sei tornata con qualcuno su una moto. Alla vicina non sfugge niente, Erin.»
Dandogli le spalle continuo a mescolare la cioccolata per farla diventare di una consistenza non troppo liquida ma neanche simile al budino.
«La vicina mi ha visto entrare in casa a piedi», rispondo a tono. «Poi non ha una vita? Non pensavo di essere osservata.»
Verso la cioccolata dentro una delle tazze più grandi che ho sul comparto della cucina e ordinatamente dispongo dei biscotti sul piatto di ceramica mettendo entrambe le cose sul vassoio per poterli trasportare meglio in camera.
«Era lui?»
Guardo al cielo. «No!»
«Erin, dimmi la verità!»
Sbuffo. «Ok, era lui. Ma non lo sapevo. Aveva il casco quando mi ha dato un passaggio. L'ho saputo questa sera e hai visto benissimo come ho reagito. Adesso vuoi continuare a farmi il terzo grado solo per avere accettato un passaggio o posso andare nella mia stanza a godermi la cioccolata e il silenzio?»
Passa la mano sul viso nervosamente. «Non intendo vederti insieme a quel ragazzo, ok?»
Nei suoi occhi c'è l'ombra di qualcosa che non riesco ad afferrare in tempo.
«Adesso vuoi fare il padre?», sbotto proprio come una ragazzina. «Hai finito di seguire questo copione?»
Quando provo ad andarmene mi sbarra la strada. «Visto che attualmente sei qui in punizione e fai parte della società, domani parteciperai anche tu all'evento: "puliamo il paese". La tua presenza, in quanto mia figlia, sarà d'esempio a tutti quei ragazzi. Forse imparerai anche a portarmi un po' di rispetto e no, non si discute.»
Inspiro tenendo per me tutte quelle risposte che continuano a fermarsi sulla punta della lingua.
«Non sperare che io accetti questo tuo comportamento. Sono passati anni e avresti dovuto pensarci prima a fare il padre e a non farmi crescere insieme a degli estranei. Su questo sai di non avere nessuna scusa che tenga. Inoltre non puoi dirmi chi frequentare perché sai benissimo che non ascolterò i tuoi "consigli"», bofonchio più che irritata.
Senza aggiungere altro, lasciandolo come un ebete, salgo in camera sbattendo di proposito la porta.
Poso il vassoio sul comodino e indosso un pigiama estivo.
Odio dormire con quegli orribili pigiami di flanella. Sono fastidiosi perché continuano a sollevarsi sulle gambe.
Mi metto comoda sotto le coperte, accendo la luce e recuperando il libro dal comodino leggo bevendo cioccolata calda.
Sono in una parte esaltante del libro quando i miei occhi vengono catturati da un'ombra. Dietro il vetro della finestra, compare qualcuno. Prova ad aprire ma è sigillata per cui sbuffando mi alzo avvicinandomi a questa prima di aprirla.
«Che cosa vuoi? Ti ho già risposto di no e devi accettarlo.»
Senza neanche ascoltarmi, infastidendomi, entra in camera. Guarda il letto, la coperta scostata, la tazza sul vassoio, i biscotti e il libro sul lenzuolo.
«Eri già a letto?»
Inspiro stringendo le dita sul dorso del naso. «Sono in punizione e domani a causa vostra, mi toccherà togliere di mezzo la vostra sporcizia. Passerò il mio tempo con delle persone stupende che odio profondamente e che mi tratteranno come un'appestata. Alla fine della giornata odierò tutti così tanto da scappare per raggiungere mia madre ovunque si trovi e darle la lezione che merita per avermi mandata qui», esplodo carica di risentimento tornandomene a letto.
Lo guardo con astio. «Adesso, se non ti dispiace, vattene e lasciami in santa pace. Almeno la notte voglio dormire e dimenticare dove mi trovo.»
Anziché andare via, per farmi un dispetto, chiude la finestra avanzando indisturbato verso il letto dove si siede con la schiena appoggiata alla testiera mettendosi comodo. Prende la tazza mescolando il liquido con un movimento circolare della mano, assaggiandone un po'.
Lecca le labbra inumidendole e poi sporgendosi azzanna un biscotto.
Prosegue imperterrito, proprio come se niente fosse.
«Fa come se fossi a casa tua. Non preoccuparti. Nessuno ti ha appena detto di sparire», brontolo con finto sarcasmo, più che stizzita.
Rimaniamo in silenzio per qualche minuto in cui non oso neanche guardarlo negli occhi.
Quando lo faccio rischio di perdermi in uno di quei ricordi che dovevano essere positivi ma che ha trasformato in qualcosa di orribile.
«Questa... sarebbe la tua idea di venerdì sera?», biascica pulendosi le dita.
Chiudo il libro posandolo sul comodino. «Tecnicamente sono passate le dodici quindi siamo a sabato. Per rispondere alla tua domanda: si, passo così il mio venerdì sera quando non c'è nessuno a disturbarmi.»
Solleva la tazza provando a bere ancora un po' della mia cioccolata.
Gliela tolgo dalle mani rischiando di rovesciare il contenuto sulla coperta. Per fortuna, non succede.
La sua vicinanza mi irrita. Mi fa sentire così nervosa da non controllare ogni emozione o sensazione che mi raggiunge come una pugnalata dritta e forte nel petto.
Per non parlare del suo odore che, così tenue, si insinua ovunque rendendomi agitata.
«Non sei venuto qui per bere cioccolata e mangiare biscotti. Che cosa vuoi?»
Mi sorride in modo dolce. «Pensavo di dormire con la mia ragazza», replica come se avesse detto la cosa più naturale del mondo.
Se pensa di potermi abbindolare in questo modo: si sbaglia.
«Se continui a disturbarmi dormirai sul roseto, dopo che ti avrò scaraventato fuori dalla finestra. Alla vicina piacerà lo spettacolo.»
Con una spinta lo faccio cadere sul pavimento. Ride abbastanza forte da trapassarmi le orecchie. Torna poi sul letto guardandomi seriamente. «Che cosa c'è di sbagliato in te? Perché continui a rifiutare?»
Lo guardo come se mi avesse appena presa in giro. «Perché ti odio dal profondo del mio cuore!»
Sentendo quello che ho appena pronunciato con tanto veleno, si incupisce.
Inizialmente appare indeciso poi per non demorde. «Qual è il tuo colore preferito? Dobbiamo conoscerci almeno un po'.»
Non nascondo l'esasperazione. «Buona notte, Caius!», sporgendo il braccio spengo la luce tirando sulla testa la coperta nella speranza di dormire. Chiudo gli occhi.
«Hai paura?»
I brividi attraversano la mia spina dorsale. Il suo sussurro mi fa tremare le vene, la mente, il corpo intero, il cuore. Mi agito tappandomi le orecchie. Alle narici però arriva insistente il suo odore. È come essere avvolti da un calore piacevole, avvolgente e distruttivo.
«No», brontolo abbracciando il cuscino per aggrapparmi a qualcosa e non sentirmi così ubriaca da commettere qualche cazzata.
Prova ad abbracciarmi da dietro e lo allontano. «Provaci. Sarà per pochi giorni. Dobbiamo solo essere convincenti.»
Serro la mascella. «Numero uno: se dico buona notte tu non rompi più le palle, chiudi il becco, non parli e mi lasci dormire. Numero due: in caso non avessi capito ti sto chiaramente chiedendo di lasciarmi in pace e di andartene a quel paese.»
Mi annusa la pelle senza il minimo contegno. Non preoccupandosi della mia reazione. «Hai un buon odore. Adesso capisco...»
Mi giro alzandomi a metà busto come una pazza. «Che diavolo stai facendo? Kay, sono seria: vattene!»
Sorride avvicinandosi. «Tu hai paura di me», sussurra divertito.
«No. Smettila!»
«Allora dimmi di sì e ti lascerò dormire.»
Sbuffo lamentandomi. «Sei fastidioso come un insetto intrappolato in un barattolo.»
Si sta proprio divertendo e non lo nasconde. «Ok, vorrà dire che dormiremo insieme e ti parlerò per tutto il tempo.»
«Se solo provi a toccarmi recupero il coltellino che tengo sotto il materasso e ti taglio le dita o la gola e poi ti do in pasto ai cinghiali lasciandoti nel bosco dopo averti fatto incastrare in una di quelle trappole disseminate così sembrerà un incidente.»
Inizialmente sembra crederci. Agisce però in fretta sollevando il materasso contrastando il mio tentativo di fermarlo.
«Bugiarda!»
Attacca provando a farmi il solletico. I primi istanti mi trattengo bloccando i suoi polsi poi rido a crepapelle spingendolo via quando mi accorgo che si sta facendo pericolosamente vicino al mio viso.
«Dimmi di sì», mette il finto broncio.
«No», rispondo decisa.
«Andiamo scheggia, pensa che stai ricambiando un favore. Non ti sto chiedendo di venire a letto con me», usa la tecnica degli occhioni.
Con me non funziona.
«Non ci riesco. Non sono brava a fingere e non posso nascondere il fatto che ti odio.»
Abbraccio il cuscino quando allenta la presa sbuffando, mormorando qualcosa che le mie orecchie non recepiscono.
Cambia umore in fretta. «Posso sempre fare del male ad Ephram», sussurra usando un tono freddo. Solleva l'angolo della bocca e nella penombra mi sembra un lupo. «Adesso come la mettiamo?»
Non mi lascio intimorire. «Sei passato alle minacce? Bene: tu prova anche solo a torcergli un capello ed io...», mi fermo. «Come fai a sapere di Ephram?»
Sorride in modo perfido intuendo di avere prevalso su di me. «Io so molte cose e devi stare lontana da lui», sibila.
Alzo gli occhi al cielo. «Deve ancora nascere chi mi dice cosa fare o chi frequentare. E non farai del male ad Ephram.»
Appoggio la guancia sul cuscino dandogli le spalle. Ho bisogno di non guardarlo negli occhi. Mi destabilizza.
«Ho bisogno di coccole», dice come un bambino abbracciandomi da dietro. Affonda il viso sul mio collo facendomi strillare.
«Non coccoli il tuo ragazzo?»
Lo respingo. «Non toccarmi!», alzo il tono. «Mi ripugni. Sei un vero idiota. Scordati che io accetti una cosa simile.»
I suoi occhi vengono attraversati da una scintilla. «Erin Wilson, da quando in qua ti tiri indietro?»
Ed eccolo, mira al mio unico punto debole. Sa esattamente dove colpire.
In momenti come questo avrei tanto voluto mandarlo al diavolo quando ancora non eravamo che dei bambini.
«Da quando sono arrivata qui per punizione e non intendo mettermi ulteriormente nei guai a causa tua. Lasciami in pace, Kay.»
Mi guarda offeso. «Vuoi davvero che me ne vada?»
Mi volto annuendo.
Inizialmente non si muove poi balza in piedi avviandosi alla finestra. La apre e voltandosi mi trucida con i suoi maledettissimi occhi. «Sei una vera stronza. Ma alla fine cederai.»
Incrocio le braccia avvicinandomi a lui. «Lo prendo come un complimento e... no, non cederò. La mia voglia di non mettere più piede in questo posto è così forte da non permettermi di avere colpi di testa.»
Strizza leggermente la palpebra. «Già, sei sparita e ti sei lasciata tutto alle spalle, non è vero? Adesso non vuoi stare con le persone che hai conosciuto e con cui hai giocato. Non sei poi così diversa da loro...», sputa fuori puntando l'indice verso la finestra come se li vedesse uno ad uno.
La sua offesa la sento appena perché c'è qualcosa di strano nel suo sguardo.
Mi avvicino ulteriormente. «Che cosa ti ha dato più fastidio?»
«Te ne sei andata», alza il tono guardandomi freddamente.
Non si accorge neanche di avermi detto la verità.
Mordo il labbro sentendomi in colpa. Non era mai successo prima di adesso.
«Non è stata colpa mia.»
«Potevi anche tornare ogni tanto.» Parla con rimprovero. Come se lo avessi offeso.
Ci teneva così tanto? Eravamo dei bambini, come fa a ricordare ogni cosa?
Sto già negando. «Non l'ho fatto perché non volevo più tornare. Questo posto mi ricorda tutto quello che non voglio avere nella mia vita. Persino adesso sono attraversata dalla voglia di scappare, andare lontano e non metterci più piede. Mi disgusta quello che ho passato e ancora di più quello che ho trovato. Io qui non mi sento a mio agio.»
Ascolta con attenzione ogni mia parola che esce carica di frustrazione.
«Ma devi fartelo piacere. Prima o poi devi affrontare le cose che ti fanno stare male. Non puoi sempre scappare.»
Annuisco anche se in parte insicura. «Si, ma lo farò a modo mio. Tanto qui non ho lasciato niente a parte mio padre. Nessuno ha notato che sono sparita di colpo. Tutti sono andati avanti lo stesso. In fondo, chi si ricorda di una bambina? Si ricordano solo di ciò che ha fatto mia madre. E sai come la chiamano tutti.»
Adesso sembra contrariato. «Mi dispiace ammetterlo perché potresti fraintendere ma la tua mancanza si è sentita parecchio da queste parti. Perché tu sei fatta così, quando te ne vai non avvisi. Sei sparita di colpo lasciando solo la traccia sbiadita del tuo ricordo. E sono incazzato con te per questo. Perché non puoi lasciare le persone senza neanche salutarle.»
Il risentimento è così tanto che lo sento forte nel cuore. Mi trafigge la sincerità con cui mi sta parlando. Non è neanche imbarazzato di ciò che ha appena detto anzi, sembra più che convinto delle parole usate.
«Volevi essere salutato?»
Alza il mento. «Si, me lo meritavo. I nemici si salutano come si deve.»
«Posso farlo adesso perché sto per mandarti poco gentilmente al diavolo.»
Soffia dal naso tornando in sé. «Ok, me ne vado. Ma sappi che non è finita qui.»
Faccio: "bla bla bla" con la mano. «Sei ancora qua?»
Scuote la testa uscendo dalla finestra. Non mi accerto neanche che lui sia sceso per chiuderla e tirare la tenda.
Rimasta sola lascio finalmente uscire tutto il fiato trattenuto durante la discussione, scaricando la tensione.
Mettendomi a letto, provo a dormire.
Purtroppo trascorro la nottata del tutto insonne e tormentata non solo dai pensieri ma anche dal rumore del temporale che scoppia là fuori riempendo la stanza di suoni e luce quando i lampi illuminano ovunque.
Il rumore continuo della pioggia che picchia contro il vetro in particolare, mi fa innervosire.
Solo all'alba, quando tutto smette, mi concedo circa due ore di sonno prima di sentire il rumore della sveglia che mi costringe ad alzarmi dal letto come uno zombie.
In bagno, sciacquo il viso con acqua fredda per svegliarmi del tutto ma non funziona pertanto scendo in cucina intontita preparandomi un caffè abbastanza forte da aiutarmi e i pancake che mangio in camera piacevolmente avvolta dalla calma e dai colori tenui del primo mattino.
Dopo avere lavato i denti ed essermi vestita, mi fermo davanti allo specchio. Mi blocco di fronte al riflesso di ciò che vedo: una ragazza che non si è mai sentita a proprio agio.
Non mi sono mai piaciuta.
Ho sempre odiato quello che stavo diventando. L'immagine distorta di una madre poco apprensiva, indifferente e difficile da sopportare. Stavo diventando quello che non volevo essere.
Ma ho sempre e dico sempre odiato me stessa caratterialmente e fisicamente. Non sono mai stata la prima scelta, molte volte non mi sono neanche sentita l'ultima.
Sono troppo orgogliosa, troppo coraggiosa, troppo forte, troppo chiusa, troppo sicura di me per potere essere l'incastro di qualcuno.
La gente mi guarda ma non vede quello che in realtà tengo dentro. Sono tutte le mie debolezze, quelle che mi porto appresso da una vita.
Intreccio i capelli lateralmente vedendoli troppo mossi e folti. Osservo i miei indumenti sportivi, l'enorme giacca della tuta a coprirmi il corpo che odio.
Senza indugiare esco di casa dirigendomi a piedi in piazza dove si terrà l'evento: "puliamo insieme".
Mentre mi avvicino al luogo di incontro, mi sento a disagio.
Non so con esattezza che cosa aspettarmi o come andranno le cose. Di sicuro non andrà tutto rose e fiori perché ho sfidato alcuni elementi dei "King", li ho umiliati e fatti sentire dei codardi privi di spina dorsale.
Oggi o nei prossimi giorni: sarò sicuramente nel loro mirino.
In fondo, lo avevano anche detto che mi avrebbero messa a tacere qualora mi fossi rivelata un problema.
In piazza saluto chi organizza questo evento. Mi vengono offerte: una tuta intera, guanti e mascherina da indossare.
Recupero una scopa e facendomi indicare la zona in cui sono stata designata, inizio a spazzare il bordo del sentiero pieno zeppo di foglie secche, carte e chissà che altro.
Mi trovo al parco abbandonato. A poca distanza da me ci sono Harper e Dana.
Si accorgono della mia presenza parlottando tra loro. Non si avvicinano.
Mi rincuora questo, almeno fino a quando non le raggiungono i gemelli e Mason.
Faccio finta di niente voltandomi, continuando a spazzare per terra eppure sento i suoi occhi posarmisi addosso per un lungo periodo di tempo in cui credo di potere mettermi ad urlare.
Al parco vedo arrivare anche Ephram. Insieme a lui qualcuno dei compagni della classe di invisibili.
Nessuno sembra pensare alla punizione. Al contrario tutti sono eccitati al pensiero di pulire un posto così abbandonato e soggetto ai vandali riportandolo alla luce.
Si tratta di un rettangolo di terra spazioso pieno di erba bruciata dalle intemperie e dal tempo. Le vecchie panchine, ormai scorticate e pericolanti, sono state fatte a pezzi e ammucchiate all'angolo per essere sostituite. Le giostre arrugginite sono state smontate.
Alcuni ragazzi si stanno occupando del lungo muretto che circonda questa area molto simile ad un campo da calcio. Molte sono le scritte e i disegni intricati, le frasi dedicate a qualcuno. Quando passi da vicino, riesci a sentire l'odore della vernice che lo impregna.
Ephram vedendomi alle prese con il sentiero, tutta sola, avvicinandosi mi aiuta. «Sei qui anche tu», esclama per fare conversazione e in parte per salutarmi non sapendo come approcciarsi a me.
Ieri sera non abbiamo avuto il tempo di fermarci a parlare.
Passo il dorso della mano sulla fronte togliendo il ciuffo di capelli sfuggito dalla treccia.
«Mio padre lo ha ritenuto: "d'esempio".»
Raccoglie il mucchio di foglie che ho accumulato riflettendo sulla mia risposta.
Allargo il sacco nero per facilitargli il compito e ci muoviamo in sincrono.
«Non è sbagliato. Vedendoti alcuni potranno dire che non hanno fatto nessuna differenza. Ma tu... volevi essere qui oggi?»
Mi indico guardandolo male. «Ho la faccia di una che partecipa a queste cose?»
Tira sul naso gli occhiali chiudendo il sacco ormai pieno di foglie secche, mozziconi di sigaretta, gomme da masticare, bottiglie e profilattici.
«No, hai la faccia di una che non ha dormito ed è nervosa. Che cosa è successo?»
Ephram è un ragazzo che ha un aspetto rassicurante. Mi piace parlare con lui. Quando l'ho fatto ho notato una stranissima sintonia. Non mi dispiace risponde alle sue domande.
«Ho solo avuto una discussione con mio padre, niente di cui preoccuparsi.»
Mi sposto verso l'altro lato del sentiero.
Ephram si ferma riflettendo su qualcosa. «E con Kay invece?»
Drizzo subito le spalle come un gatto pronto a graffiare dopo avere soffiato e guardato male la sua preda. «Gli ho mollato un calcio davanti a tutti», replico indifferente non capendo dove vuole andare a parare.
Spazza per terra senza dire niente. Poi ci ripensa. «Si è rialzato in fretta ed è uscito di corsa come una furia quando ha notato che stavi scappando.»
Arrossisco leggermente. Il mio corpo inizia a tradirmi senza una ragione. Non comprendo infatti la ragione di questa reazione, dell'imbarazzo che si fa strada sul mio corpo surriscaldandolo.
È una sensazione nuova.
«Davvero?»
Me lo conferma annuendo. «Pensavo ti avesse seguita.»
Sto già mentendo scrollando la testa. «No, perché avrebbe dovuto?»
«Ha reagito in modo strano quando sei corsa fuori ed è scoppiato il caos lì dentro. A lui non sembrava importare di altro.»
Celo la mia curiosità spostandomi a poca distanza sul prato, dove inizio ad infilzare le carte impilandole dentro il sacco che continuo a trascinarmi dietro.
Ephram si avvicina di nuovo. «Eri con lui, vero?»
Infilzo un profilattico. «Secondo te questo di chi è?» sorrido provando ad indovinare e anche a cambiare argomento alleggerendo un po' il peso sulla mia coscienza sporca, macchiata dalla menzogna.
«Dalla dimensione direi di Mason.»
Ephram ride girandosi per paura che lui possa sentirci o essere nei paraggi. «È probabile ma glielo hai visto? Sei sicura che non sia come questo?»
Arriccio il naso. «Non ci tengo ma direi che viste le dimensioni poco sviluppate del suo cervello...»
Ride tappandosi la bocca. «Ok, Erin», scuote la testa. «E questo allora?»
«Damon?»
«È rotto.»
Rido forte. «Avrà figli sparsi per il prato», arriccio il naso. «Questo è tuo?»
Abbassa lo sguardo indurendo i lineamenti. «No, non credo. Non ho più una ragazza.»
«Non era questo il luogo adatto?»
Me lo conferma e per un po' smette di scherzare e di parlarmi di "mister pretendo che mi aiuti".
Lascia cadere il discorso ed io mi volto goffamente. All'improvviso mi sento a disagio, continuo a girarmi dall'altra parte osservando dei ragazzi impegnati a zappare il terreno dissestato.
Non comprendo la ragione della sua reazione ma poi capisco. Mi ritorna in mente la netta differenza di espressione mostrata poco prima della mia stupidissima domanda. Ephram sta soffrendo per amore.
Evito di scusarmi o riprendere il discorso da dove l'abbiamo lasciato per non parlare di Kay, che è uno dei motivi per cui non sono riuscita a dormire questa notte. Continuavano a rimbombarmi nelle orecchie le sue parole così cariche di risentimento, di delusione da spiazzarmi.
Durante la pausa, ne approfitto spostandomi verso il tavolo che è stato apparecchiato sotto un gazebo costruito con delle tende bianche.
Prendo una bottiglia di succo di frutta e una crostata confezionata spostandomi verso il muretto basso, dove sono appoggiate delle scope e altri sacchi ancora da riempire.
Mi siedo incrociando le caviglie, godendomi la tranquillità di questo istante sotto un sole timido che gioca a fare capolino con le nuvole senza mai riscaldare l'ambiente.
C'è odore di terra, di polvere e altri profumi che si mescolano creando un connubio a tratti irrespirabile.
Scarto la crostata assaggiandola prima di mangiare serenamente spostando la mia attenzione verso il gruppo che a poca distanza sta discutendo animatamente.
O meglio: Harper discute con Mason offrendo un certo spettacolo ai presenti.
Infatti, in breve si avvicinano molti ragazzi che, con cautela assistono curiosi al litigio tra i due che continuano imperterriti, affatto preoccupati del teatrino che stanno mettendo in scena.
Scendo subito dal muretto. Non mi importa. Non voglio neanche andarci di mezzo. Infatti, mi sposto di nuovo verso il prato. Qui continuo a raccogliere foglie e carta. Infilo persino le cuffie ascoltando un po' di musica per non sentire nient'altro.
Canticchio riempendo un altro sacco nero. Lo chiudo allacciandolo e lo sollevo portandolo verso gli altri accumulati all'angolo del muro.
Ephram nel frattempo aggiusta l'impianto di irrigazione.
«Dimmi quando si attiva», alzo il tono aggiustando quello al centro del prato notandolo un po' troppo sporgente dal terreno.
«Dovrebbe attivarsi a momenti», mi avvisa guardandosi intorno con le mani sui fianchi rimanendo in attesa, ansioso.
Di colpo l'impianto prende vita. L'acqua schizza da tutte le parti riempendo il terreno e cogliendo alla sprovvista chiunque, compresa me. Scoppio inevitabilmente a ridere senza riuscire a raggiungere il punto in cui potere chiudere l'acqua.
Ci prova anche Ephram ma rinunciando, finiamo per rincorrerci proprio come facevamo da piccoli, coinvolgendo gli altri ragazzi nel nostro gioco.
Sentendo dolore all'addome, mi fermo al centro del prato chiedendo una pausa.
Ephram riesce a chiudere bene il getto. «Ecco fatto!»
Rido guardandomi dalla testa ai piedi. Sono fradicia.
Notando che è serio con lo sguardo rivolto alle mie spalle, mi giro per capire la ragione del suo strano cambiamento.
È difficile ignorarlo. La sua presenza è come fuoco per la mia pelle.
Alzo gli occhi e c'è lui a fissarmi, con quella solita aria di sfida. Ho un ricordo vivido dell'ultima volta che mi ha fulminata con lo sguardo, con quel ghiaccio fuso che spicca sullo sfondo dei suoi tratti delicati, del suo colorito pallido insieme ai capelli bianchi come la neve.
Sembrano diversi dal solito. Non capisco come sia possibile. Forse sono solo paranoica quando si tratta di lui, mi dico abbassando lo sguardo. Ogni mio muscolo entra in tensione alla vista dei suoi pugni chiusi stretti in vita.
Imbarazzata, porto una ciocca dietro l'orecchio lasciando che l'acqua goccioli via dal mio corpo.
Kay si avvicina con un passo deciso. «Vedo che ti stai divertendo», scocca un'occhiata brutale alle mie spalle. «Non doveva essere una punizione?»
«Sto solo trovando il lato positivo. Se devo stare qui, tanto vale che mi diverta.»
Mi volto quando continua a guardare male alle mie spalle. Ephram finge di non tenermi d'occhio.
Sento la mano di Kay sulla guancia. È calda a differenza del mio corpo bagnato e infreddolito.
Mi scanso scacciandola e lo respingo guardandolo male quando prova ad avvicinarmi a sé con il chiaro intendo di attirare l'attenzione e di provocare Ephram.
«Il lato positivo per cosa esattamente? Per passare il tuo tempo con lui trascurando il tuo ragazzo?»
Tappo la sua bocca premendo forte la mano.
Non appena le mie dita sfiorano le sue labbra morbide al tatto, vengo attraversata da una forte scarica elettrica. Il mondo sembra allontanarsi per qualche attimo che diventa indelebile e mi ustiona l'anima.
«So cosa stai cercando di fare. Non è il momento. Smettila!», ringhio.
Toglie la mia mano dalla sua bocca avvicinandomi a sé.
Lo respingo. «Dico sul serio. Stammi alla larga», sbraito allontanandomi da lui.
Dilata le narici. «Tanto prima o poi verranno a saperlo tutti», alza di proposito la voce perché ci stanno già guardando in tanti.
«Che cosa? Che sei uno stronzo già lo sanno, non è una novità.»
Spostandomi all'angolo del muretto tolgo la tuta fradicia.
«Ma non sanno che stai con me perché lo nascondi», mi sussurra all'orecchio.
Chiudo gli occhi. «Smettila!»
Sorride soffiandomi sulla nuca prima di darmi un bacio sulla pelle. «Davvero mi resisti?»
Sospiro nascondendo il freddo che pervade ogni centimetro del mio corpo, appallottolando la tuta impregnata d'acqua. «Si, non starò mai con te.»
Lasciandolo all'angolo raggiungo Ephram che si è spostato dall'altra parte del parco.
Schiarisco la gola. «Sai per caso quando dobbiamo essere di nuovo qui? Non mi va di chiedere a mio padre.»
Appare a disagio e guardingo. «Lunedì, mercoledì e venerdì ci permettono di stare qui. Alla fine faremo una relazione quindi saremo divisi in gruppi. Tu sei nel nostro, non perderti e cerca di essere presente», replica in modo brusco.
Notando lui stesso la reazione schiarisce la gola. «Mi dispiace.»
«Non fa niente», abbasso gli occhi sentendomi confusa.
«Erin, fa attenzione con quello.»
«Non è come sembra», provo a giustificarmi. «Non ricordi che ci litigavo sempre? Non è cambiato niente.»
Gratta la fronte prima di scompigliarsi i capelli. «Dal modo in cui vi guardate dubito ci sia ancora quel genere di rapporto tra di voi.»
Spalanco gli occhi. «Che cosa vorresti dire?»
Lecca le labbra strofinando i palmi per scaldarli mentre usciamo dal parco. «Voglio dire che le cose sembrano essere cambiate. Mi chiedo perché fingere di odiarsi quando c'è ben altro.»
Corrugo la fronte. «Ma io lo odio.»
Soffia dal naso. «Eri tu quella sulla moto? Rispondi sincera.»
Mordo il labbro. «Mi ha dato un passaggio e non sapevo che era lui altrimenti col cavolo che avrei preso il passaggio», affermo con sincerità, non voglio più fingere.
Appare sempre più convinto della sua teoria. «E ieri sera?» alza il tono avvicinandomisi.
Sollevo il viso. «Ieri sera che cosa?»
«Sei salita in auto con lui. Non ti faceva ribrezzo.»
Inumidisco le labbra. «Mi stai seguendo?» alzo a mia volta il tono. «Per questo mi stai facendo tutte queste domande?», lo affronto.
Indietreggia cambiando ancora umore. «No, non è come pensi. Io volevo solo avvicinarmi e vedere come stavi. Eri scossa quando sei uscita ma lui è arrivato prima di me. Vi ho visto lì fuori e... ho notato come vi parlavate. Poi ti ha trascinata in auto.»
Passo una mano sul viso. «Ok, chiariamo una volta e per tutte: io non sto con Kay. È odioso, non è cambiato affatto e non mi piace il fatto che mi stai trattando in questo modo.»
Dandogli le spalle scendo i pochi gradini superando le giostre. Sono così impegnata a liberarmi dalla stupita sensazione di sospetto da non riuscire più a concentrarmi.
Ephram mi afferra per il polso strattonandomi. Mi volto e mi si avvicina al viso. «Non voglio che pensi male di me. Non mi piacciono i giochetti.»
«Mi sembra inevitabile vista la reazione che stai avendo.»
Contrae la mandibola.
«Che cazzo stai facendo? Lasciala andare!»
Non riesco a fermarlo. Spinge rabbiosamente Ephram avvicinandoglisi velocemente come un animale pronto ad azzannarlo.
Mi guardo intorno non notando nessuno nei paraggi in grado di aiutarmi. Allora calmando la tempesta interiore, mi avvicino a lui più che allarmata dal suo sguardo, dalla postura e dai pensieri che sembrano tanto palesi.
«Kay, non è successo niente. Stavamo solo parlando.»
Scrolla la mia mano infastidito continuando a guardarlo male. «Se solo provi a toccarla di nuovo, ti ammazzo di botte. Hai capito?»
Ephram non batte ciglio. Non nasconde nemmeno il suo disgusto nell'averlo davanti. «Torna da dove sei venuto, fenomeno. Stavamo parlando e ci hai interrotto.»
La cosa mi destabilizza, perché non comprendo la ragione delle loro reazioni. Che diavolo mi sono persa in questi anni?
Poso la mano sulla spalla di Kay e non ottenendo alcun risultato positivo mi posiziono tra i due spingendolo, allontanandolo da Ephram.
«Stavamo solo parlando», spiego sentendo il suo fiato caldo che esce a sbuffi dal suo naso mentre il petto gli si alza ed abbassa come quello di un animale arrabbiato.
«Ti ho avvertito. Non lo ripeterò un'altra volta», ringhia ancora prima di guardarmi freddamente, voltarsi e allontanarsi.
Rimango spiazzata dalla sua reazione. Guardo corrucciata Ephram. «Mi dispiace. Sai com'è fatto.»
Annuisce infilando i pugni dentro le tasche. «Si, lo so. Ti conviene andare da lui.»
Sta sparendo verso la piazza. «No, sopravvivrà e mi deve una spiegazione a questa reazione», parlo più con me stessa.
Ephram però mi ascolta, nota il mio stupore misto alla confusione e forse per un attimo decide di non dire la sua opinione per non ferirmi.
«Allora ci vediamo lunedì?»
«Certo. Ma dovrai avvertirmi prima perché non intendo rimanere di nuovo sotto l'impianto di irrigazione e beccarmi un raffreddore», minaccio.
Finalmente sorride e tutto sembra essere tornato come prima. Nonostante ciò, continuo a pensare alla sua reazione, a percepire l'impronta della sua presa sul polso, la forza usata sulla mia pelle e lo sguardo che mi ha messo soggezione.
Sono poche le volte in cui mi sento spaventata e questa è una di quelle.
Ephram mi porge la mano. «Affare fatto?»
Sorrido per non fargli notare che sono ancora un po' scossa. «Si, niente gavettoni!»
Capisce al volo. «Ok sirenetta!»
Lo spingo e ride. «Non è divertente.»
Camminiamo per qualche istante insieme poi si allontana rivolgendomi un sorriso.
Non appena sparisce all'angolo, abbasso le difese proseguendo lungo la piazza.
Mi fermo al bar prendendo un te' caldo e con questo tra le mani intorpidite dal freddo, mi avvio verso casa.
Sul vialetto, appoggiato alla sua moto, con lo sguardo torvo, trovo proprio lui.
Con indifferenza raggiungo il portone ignorandolo ed evitando le occhiate furtive dalla vicina che se ne sta dietro la tenda a spiare senza la minima preoccupazione di essere vista.
Kay si avvicina passandomi il casco dopo avermi tolto dalle mani il bicchiere bianco con il cartone intorno verde assaggiando il te'. Fa una lieve smorfia ma non disdegna il sapore del liquido con un pizzico di limone e zenzero.
«Facciamo un giro e no, non si discute e si, sto bevendo il tuo te'.»
Alzo gli occhi al cielo. «Sono fradicia, posso almeno cambiarmi?»
Valuta attentamente poi annuisce. «Ti aspetto. Non metterci troppo», guarda la vicina alzandole il dito medio. Questa chiude la tenda dopo avere fatto un'espressione sorpresa.
Mi scappa un sorriso. Lo nascondo aprendo la porta. «Arrivo», dico salendo di corsa al piano di sopra.
Mi spoglio, in bagno mi asciugo poi mi cambio scegliendo qualcosa di comodo. Sciolgo i capelli, li pettino per bene prima di scendere al piano di sotto.
«Possiamo parlare anche qua.»
Kay mi passa il bicchiere. «Ti ho lasciato l'ultimo sorso.»
Bevo e gettando il bicchiere prendo il casco che mi sta passando allacciandolo. Intuendo di non avere scelta salgo in modo.
Notandomi distante afferrando le mie mani, con uno strattone mi fa scivolare verso le sue spalle sistemando le mie braccia intorno al suo addome.
Partiamo in fretta e per tutto il viaggio non parliamo, non discutiamo ed io per una volta rispetto il suo silenzio raccogliendo pensieri e frasi che attualmente vorrebbero uscire e creare il caos.
Riconosco la strada.
Arriviamo poco dopo nella piccola casetta di legno.
Scendendo dalla moto corro sul portico sfiorando le colonne scardinate.
«Abiti qui?»
L'aria è pura. Si sente proprio l'odore del muschio che cresce sui tronchi, del legno fresco, della resina, del terreno umido dopo la pioggia di questa notte.
Il cielo è limpido e il sole ormai a metà del suo percorso manda i suoi raggi dentro il bosco creando l'immagine di una bellissima cartolina che immortalo in una foto.
Vedendomi distratta mi prende per mano, un gesto naturale e privo di malizia, portandomi dentro casa.
Si muove verso la cucina aprendo la dispensa. Sul ripiano marmorizzato ingiallito, mette gli ingredienti per preparare gli spaghetti con tonno, peperoncino, pomodoro e olive.
Mi avvicino cautamente aiutandolo mentre aspetto una risposta.
«Non abito qui. È la campagna di mio nonno. A volte la uso per ospitare i miei amici o quando non ho voglia di viaggiare.»
Taglio magistralmente il pomodoro e la cipolla da soffriggere.
Mi fissa sbalordito. «Le doti nascoste di Erin», esclama.
Faccio saltare in padella gli ingredienti. «Mia nonna ha un ristorante.»
Aggiungo sale e pepe poi gli faccio assaggiare il condimento mentre aggiungo le olive nere.
«Hmm, buono.»
Getta la pasta dentro la pentola con l'acqua ormai in ebollizione. «Che altro sai fare?»
«Cacciarmi nei guai?»
Solleva l'angolo del labbro. «Quello da sempre.»
Annuisco e dopo avere scolato la pasta la metto dentro la padella.
Kay recupera due piatti. Li riempio e ci andiamo a sedere sul divano.
Mangio piano, sentendo il gusto di casa. Ripenso a mia nonna che non ha ancora chiamato. Sembra quasi che mi abbiano dimenticata.
Mi incupisco.
«Va tutto bene?»
«Si», finisco di mangiare.
Pulisco tutto ed esco fuori a sedermi sul primo gradino del portico.
Kay mi segue. «Dobbiamo parlare.»
Annuisco. «Non avresti dovuto comportarti in quel modo. Non puoi obbligarmi o mettermi di proposito nei guai.»
«Ti avevo detto di non avvicinarti a quel tizio.»
«Perché?»
«Perché è svitato.»
«Non è una giustificazione e lo stai giudicando.»
Serra la mascella. «Lo è se ti dico che è pericoloso?»
Sospiro scettica. «Ma davvero? E che cosa ha fatto di così orribile?»
Dal modo in cui mi fissa comprendo che deve esserci qualcosa di importante sotto. «Non ti sei informata, eh? Quel coglione ha tentato di farsi fuori dopo che la sua ragazza lo ha lasciato perché era diventato oppressivo. Si è persino beccato un ordine restrittivo e non le si può avvicinare.»
Il cuore prende a battermi ad un ritmo convulso.
Kay si alza. «Ti avevo detto di stargli alla larga ma non ascolti perché credi di sapere tutto delle persone. Ephram è prepotente, un maniaco e se non ottiene quello che vuole usa la carta del vittimismo facendosi male.»
Mi abbraccio. «Ha fatto davvero una cosa del genere per una ragazza?»
Mi rendo conto solamente adesso che dovrò fare molta attenzione, parecchia nei prossimi giorni.
So che qualcosa ancora non torna ma riuscirò a scoprire tutto recuperando un po' di quel tempo passato altrove.
«Erin, non avvicinarti più a lui. Intesi?»
Mi alzo. «Tu non sei nelle condizioni di dirmi cosa devo o non devo fare. So cavarmela da sola. Adesso mi sono proprio stancata di essere trattata in questo modo. Non sono un giocattolo.»
Lo supero spingendolo con una spallata. «Sta alla larga da me!»
Mi blocca entrambi i polsi. «Dove vai?» la sua voce trema nascondendo la furia.
«Me ne vado. Grazie per il pranzo ma non credo di poter reggere il tuo carattere o i tuoi strani modi di fare. Inoltre, mi ricordi troppe cose e... non ce la faccio.»
Mi avvicina a sé facendomi mancare il fiato, risucchiando via l'aria dai miei polmoni. «Ti stai tirando indietro? Credevo avessimo un patto.»
Scaccio le sue mani liberandomi. «Non abbiamo nessun patto perché oggi hai esagerato. Che cosa era esattamente quella scena al parco? E perché sei così convinto di volerlo fare sapere a tutti? Che cosa stai escogitando ancora?»
«Ho esagerato? Scusa tanto se un ragazzo stava per abbindolarti con le sue maniere graziose», lo scimmiotta. «Fa così con tutte. Sei più intelligente di molte altre persone e sai che non sto mentendo perché sai riconoscere quando lo faccio.»
Infatti sto cercando di capire. Nei suoi occhi leggo la verità.
«Ciò non toglie il modo in cui l'hai trattato. Io devo stare qui per forza e non posso avere altri nemici. Quindi smettila di intrometterti nella mia vita.»
«Sei così convinta di quello che dici o fai da non renderti conto che tutto questo è già successo. Sei proprio una ragazzina, Erin. Ed io che continuo a provarci pur sapendo che non ne vale la pena.»
Mi sento offesa. Ha usato una carta diversa ma non cederò solo per questo. Vuole che lo aiuti? Dovrà guadagnarselo.
«Allora smetti e trovati un'altra.»
Cammino lungo il sentiero facendo bene attenzione a non mettere i piedi su una trappola.
«Sei davvero cocciuta come un mulo!» mi ringhia vicino sollevandomi.
«Kay, mettimi giù!» minaccio.
«No, tu mi aiuterai e non continuerai a scappare da me come se avessi la peste.»
Smetto di dimenarmi. Scivolo a terra sfiorando il suo corpo statuario, ritrovandomi sotto la forza dei suoi occhi freddi. «Io non scappo da te. Non ti sopporto perché mi hai reso l'infanzia un vero inferno e non puoi negarlo, perché ti piaceva proprio stuzzicarmi e poi rovinare ogni cosa quando vedevi che stavo finalmente bene. Perché tu sei così. Io sarò pure testarda ma tu sei... distruttivo. Dietro di te lasci solo rabbia.»
Gli sto urlando addosso senza neanche rendermene conto.
Lui mi ascolta con il fiato sempre più corto. Fatica a non scattare e so di non avere scampo quando mi afferra il viso baciandomi.
Mi tiene ferma ma le mie mani dapprima lo respingono poi sfiorano i suoi capelli morbidi al tatto tirandoli lievemente.
Le sue labbra sanno di cannella e rabbia. Si muovono sulle mie insistenti trovando il conforto di cui ha bisogno. Gioca con la mia lingua trattenendomi.
Ansimiamo entrambi.
In un momento di lucidità, sentendomi ebbra, lo spingo via pulendomi le labbra. «Provaci ancora e ti taglio la lingua!»
Sorride avvicinandomi a sé. Non ha paura. Io si, troppa. Adesso più di quella che provocava i miei incubi.
Le sue mani premono sulla mia schiena, mi sfiora il viso. «Smetti di mentire a te stessa, sirenetta. Sai cosa devi fare e non te lo ripeterò perché mi prenderò quello che voglio lo stesso. Proprio come ho appena fatto.»
Mi piacciono le persone sicure ma lui è un rischio che non posso correre.
Non sapendo dove mettere le mani, con le labbra formicolanti e gonfie, le ginocchia che tremano, le tengo sul suo petto. «Non posso farlo.»
«Perché?»
«Perché ho paura di te.»
Finalmente lo dico. Finalmente esce fuori la verità.
La mia risposta lo spiazza. Allenta di poco la presa scuotendo nervosamente il capo. «No, non è vero. Mi stai prendendo solo in giro. Tu sei brava a manipolare la gente.»
Mi abbraccio dopo essermi staccata da lui. «Sto dicendo la verità. Ho paura di te e non ci riesco. Non posso e non voglio accettare una cosa simile.»
«Sta zitta!» ringhia superandomi.
Sono sorpresa dalla sua reazione.
Che gli succede?
Poso una mano sulla sua spalla e si volta di colpo facendomi mettere in posizione di difesa. Ci guardiamo negli occhi mentre il mio cuore batte feroce nel petto.
Preme la fronte sulla mia regalandomi un nuovo brivido dietro l'altro, un nuovo battuto privo di controllo. «Tu non ti ricordi... non ricordi niente di me», sussurra in un modo che mi provoca un brivido.
Ansimo.
«Mi trovavi sempre lì perché se non lo facevo io... ti avrebbero fatto loro del male. E vedere la delusione a causa mia era più facile da gestire.»
Spalanco gli occhi. «Che...»
«Harper e Mason sono sempre stati i veri cattivi ma non te ne sei mai accorta perché pensavi come una bambina piena di sogni. Giocavano con te solo per divertirsi alle tue spalle. Ti illudevano ma allo stesso tempo erano così gelosi... mentre io... rovinavo tutto per non vederti delusa o peggio: per non vederti soffrire a causa loro... perché sapevo che ci tenevi... che gli volevi bene...», fatica a proseguire.
Non so che cosa dire. Mi sento spiazzata. «Eravamo bambini, come facevi a saperlo?»
«Ho sentito anche i loro genitori parlare. Ti ritenevano...» stringe il pugno.
Lo sollevo e allenta la presa.
«Per loro eri una ragazzina poco intelligente e goffa... si divertivano alle tue spalle quando qualcuno ti faceva un dispetto. I miei non erano niente al confronto di quello che avrebbero voluto è potuto farti loro.»
Ricordo quel giorno. Era il mio compleanno poco prima che i miei si lasciassero. «Tu... hai messo la tempera per dimostrargli che non ero come i loro figli? Che non avrei pianto o fatto scenate?»
Quando annuisce mi crolla tutto addosso.
«Loro ci avrebbero messo degli insetti dentro quel palloncino. Tu avevi paura degli insetti, stavi male...»
Indietreggio.
Prova ad avvicinarmi, nego immediatamente. «Ho... ho bisogno di stare sola.»
Dapprima cammino lungo il sentiero poi inizio a correre fino a non vedere niente, neanche dove metto i piedi. E continuo così per interi km fino a perdere il fiato e anche la strada ritrovandomi in un sentiero sconosciuto m.
Non sento niente, neanche la voce di Kay che mi urla di fermarmi e quando mi fermo per davvero, con la gola secca, mi rendo conto di essere davanti casa.
Sul vialetto c'è l'auto di papà.
Entro come una furia salendo al piano di sopra pestando i piedi sui gradini.
Voglio andarmene. Non starò più in questo posto. Non mi farò ridere di nuovo dietro. Non permetterò più a queste persone di farmi sentire inferiore o di troppo.
«Erin?»
Spalanco l'anta dell'armadio prendo i miei indumenti e li lancio dentro la valigia.
La porta si apre cigolando. «Erin, che cosa stai facendo?»
Non appena si accorge delle valigie mio padre spalanca gli occhi stringendo la presa sulla maniglia della porta.
«Me ne vado.»
Chiudo la valigia procedendo con il borsone. Lascio quello che ormai è superfluo.
Papà avanza quasi correndo, fermandomi. «Che cosa significa che te ne vai?»
Lo spingo via con tutta la forza di cui dispongo. «Non starò qui un minuto di più. Mi ripugna, io vi disprezzo tutti!» urlo senza controllo e con affanno.
«Erin, calmati. Parliamone», mi porta verso il letto dove ci sediamo.
«Che cosa è successo? Qualcuno ti ha fatto male?»
«Si», esplodo. «Tutti voi, questo posto... io non voglio stare qui. Io odio questo paese. Odio la gente che mi ha riso per anni alle spalle e voi... voi lo sapevate e non avete fatto niente per proteggermi.»
Papà appare confuso. «Di che cosa stai parlando?»
Mi alzo camminando avanti e indietro come un leone in gabbia.
«Il giorno del mio sesto compleanno, ti ricordi?»
Batte velocemente le palpebre. «Il palloncino con la tempera?»
Annuisco. «È successo solo perché mi ridevano tutti alle spalle, persino i genitori di quei... mostri. È successo perché altrimenti ci avrebbero messo dentro degli insetti.»
Appare sempre più confuso. Si alza fermandomi. «Erin, mi spieghi che cosa ti frulla dentro la testa?»
Ancora una volta respingo il suo tocco. «È successo solo perché Kay voleva proteggermi da tutti voi. Un bambino, cazzo. Perché voleva dimostrare a tutti che non ero una bambina frignona come quei due che... continuavano a giocare con me solo per prendermi in giro, per farmi sentire diversa...», boccheggio. Gli occhi bruciano ma non cederò. Non crollerò. «Io devo andarmene da qui», balbetto afferrando il borsone, caricandolo in spalla.
Papà si dirige verso la porta sbarrandomi la strada. Incrocia le braccia massaggiandosi la barba. «Tu non andrai da nessuna parte. Non in questo stato. Adesso ritorni in te e affrontiamo l'argomento. È successo molti anni fa, sono cambiate le cose.»
Sto già negando. «No, non è cambiato niente qui. Tu sei il solito pragmatico che non riesce ad accettare la realtà ed io... io continuerò ad essere il giullare del paese solo perché non avete saputo fare i genitori.»
Riesco ad aprire la porta ma afferra il borsone prima ancora che io esca fuori dalla stanza. Allora lo lascio andare.
«Non aspettarmi sveglio.»
Scendo in fretta al piano di sotto.
«Erin, fermati!»
Apro la porta e trattengo il fiato.

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