47
BRADLEY
L'amore di una persona sola non è abbastanza. Non puoi sempre regalare l'anima a chi non è disposto ad aprire il suo cuore, a offrirti un posto speciale al suo interno. Non puoi sempre scendere a compromessi con qualcuno che non sarà mai in grado di cedere, di lasciarsi andare. Arriva. Arriva il momento in cui il tuo amore non basta più. E smetti. Dici basta. Metti un punto a tutto.
«Vaffanculo, Erin!»
Le parole mi escono dalla bocca senza controllo. La rabbia esce allo scoperto insieme alla delusione che presto si fa strada dentro di me facendomi allontanare da lei, dal suo viso, dal suo corpo, dai suoi occhi sgranati. Non riesco più a stare qui dentro con lei. Le pareti iniziano a soffocarmi restringendosi ai miei occhi.
Come è possibile tutto questo? Perché diavolo non si è ancora mossa?
Non ha neanche avuto il coraggio di dirmi in faccia che non mi vuole. Che non ha interesse nei miei confronti. Avrei apprezzato un po' di sincerità da parte sua. Che cosa ha che non va?
È anche questo la vita. Un giorno ti accorgi di due occhi e speri ardentemente di essere visto. Un giorno incontri qualcuno, la persona che cercavi e invece ti rendi conto di non esserti avvicinato ad essa abbastanza. Succede. È inevitabile. Si è sempre invisibili agli occhi di chi tu vedi e anche bene. E succede. Succede quando senti che stai perdendo tutto. Perdi la testa. Perdi il controllo. Crolli.
Me ne vado. Niente più parole. Niente gesti improvvisi e forti. Me ne vado chiudendo alle spalle la porta. Il rumore rimbomba intorno. C'è silenzio ma il mio cuore lo disturba battendo all'impazzata con uno sforzo immane. Decido di chiuderlo perché niente e nessuno dovrà più farmi sentire in questo modo. Nessuno dovrà toccarmi nel profondo ferendomi. Non permetterò più a nessuno di avvicinarsi alla mia anima.
Nel laboratorio trovo Samantha e Stan impalati e sconvolti. Non osano respirare. Leggo nei loro occhi lo sgomento. Hanno sentito la mia sfuriata. Ovvio, mi sono messo ad urlare come un pazzo. Non sono riuscito proprio a trattenermi. E se penso che non ho ottenuto risposta, mi sento ancora peggio, instabile.
«Che cosa è successo?», osa chiedere Samantha più che allarmata dal mio improvviso cambiamento di umore.
Non mi conoscono. Non mi hanno mai visto davvero arrabbiato e fuori controllo. Solo Stan sa bene il modo in cui scarico la furia. E attualmente, mi segue ad ogni passo pronto a fermarmi.
«Cazzo!», urlo stringendo un pugno sulle labbra prima di scrollare la mano.
Samantha prova ad avvicinarsi ma Stan la ferma posandole la mano sulla spalla. Le fa cenno di non muoversi con una scrollata della testa. Lei prova subito a ribattere più che ostinata.
«Non ora», sibila voltandosi.
Mi guarda attento, come se fossi un animale in gabbia pronto ad uscire e ad azzannare chiunque.
«Brad, perché stavi urlando?»
Perché dare loro delle spiegazioni? Le persone litigano di continuo per qualsiasi cosa. Non è un dramma se ho alzato la voce e me ne sono andato più che deluso anziché continuare a sentirmi usato e preso in giro.
«Voglio solo andarmene da questo cazzo dì posto e smetterla di sentirmi così idiota a stare dietro ad una bambina spaventata dalla sua stessa ombra. Sono stanco di vederla schiva tranne quando è con il suo fottuto amico!», urlo senza una ragione contro i due gesticolando come un pazzo. «Perché alla fine si tratta proprio di questo. Con lui si comporta normalmente mentre con me... con me continua a chiudersi e a tenersi a debita distanza.»
Samantha apre e richiude la bocca sbirciando dal vetro della porta. Si volta con una smorfia. «Perché Erin se ne sta impalata? Che cosa le hai fatto?», alza il tono. Mi sta già accusando. Ma se ha sentito quello che è uscito fuori dalla mia bocca, dovrebbe capire che in fondo la colpa non è solo mia.
La sua voce stridula perfora i miei timpani. «Io? Pensi sia stato io? La tua amica non è di certo uno stinco di santo. Fatti dare da lei una spiegazione perché ho chiuso. Ho chiuso!», ripeto più forte facendola sussultare.
I due davanti a me mi guardano sempre più confusi e sorpresi di vedermi così arrabbiato e privo di controllo. Nessuno sa quello che sento in questo momento. Nessuno può immaginare quello che mi balena nella mente. So solo che devo allontanarmi perché ogni minuto che passa mi sento sempre più uno schifo.
Stan fa un passo avanti io uno indietro togliendomi la sua mano dalla spalla quando prova a toccarmi credendo di potermi calmare.
«Sai che è colpa tua se è successo», lo spingo e detto ciò me ne vado usando la porta di servizio.
Più che infuriato, una volta avere svoltato strada, ringhio mollando un pugno sul muro. Sento al polso un dolore acuto. Lo scrollo e fisso apatico le nocche che via via si stanno insanguinando e macchiando di viola e rosso scuro. Apro e richiudo la mano non sentendo più niente se non furia.
Stan esce dal locale di corsa, guardandosi intorno, più che affannato, mi individua in fretta chiudendo la porta.
«Brad!», mi chiama. «Brad, fermati!»
Mi rincorre e quando prova a bloccarmi la strada, a fermarmi, lo spingo puntandogli il dito contro. «Non dirmi niente. Niente!», urlo. «Tu sei proprio l'ultima persona che può parlare in questo momento!»
Mette le mani in avanti notando i miei occhi cerchiati di rosso e di rabbia e i miei denti bene in mostra. Non mi sono mai sentito così carico, così indomabile come in questo momento.
Certe delusioni provocano rotture interiori indelebili.
Stan incassa le mie parole. Non si scompone come so che farebbe con chiunque altro. «Non è colpa mia e lo sai. Ti stai comportando da pazzo senza una ragione.»
Il suo tono calmo mi fa ribollire ulteriormente il sangue. «È colpa tua perché ragioni con il cazzo non con il cervello. È colpa tua se siamo tornati qui, se ho conosciuto quella dannata ragazza e se mi sono convinto a darle una possibilità, a mettermi in gioco lasciandomi alle spalle le esperienze passate disastrose. È colpa tua perché non mi hai fermato, non mi hai avvisato che avrebbe fatto tanto male. Avresti dovuto farlo! In fondo sei mio amico e in quanto tale ne hai tutto il diritto. Io non ti permetterei mai di cadere o di lasciarti distrarre da qualcosa che ti farebbe stare male.»
Stan contrae la mascella. Dopo un momento mi afferra per le spalle sbattendomi contro la saracinesca chiusa di un magazzino per mettermi a tacere. Sa che sto straparlando perché non posso fare altro, non posso sfogarmi come vorrei tanto fare. Come facevo un tempo quando ero solo un ragazzino arrabbiato con tutto e tutti.
«Stammi bene a sentire stronzetto incazzato», ringhia tenendomi fermo. «Io non ti ho fermato perché per la prima volta in tutta la tua vita del cazzo di cui ho fatto parte, ti ho visto felice e non ho ritenuto necessario intervenire. Non è colpa mia se non riuscite a comunicare o se tu, già, proprio tu non riesci a capirla. Non è colpa mia se quella ragazza in questo periodo ricorda quello che le è successo anni fa», sbraita. «Quando un ragazzo l'ha presa in giro e poi ha rischiato di essere la prigioniera di uno psicopatico!», continua con occhi accesi e le spalle sempre più tese.
Vedendomi meno carico di prima annuisce. «Sentiti pure una merda adesso», esclama lasciandomi andare con uno strattone.
Stan mi conosce. Sa che il peso delle sue parole si sono appena abbattute su di me facendo più male. È come se in un attimo ogni consapevolezza, ogni pensiero si fosse trasformato in qualcosa di più profondo, di pericoloso e duro da accettare.
Allora è questo quello che turba Erin? Ma se è passato perché continua a farle così male? Davvero non riesce a lasciarsi tutto alle spalle?
Da quando la conosco si è sempre dimostrata determinata, attenta e abbastanza diffidente ma mai come oggi: un casino totale. Era confusa, gelosa e nel panico allo stesso tempo. Come può pretendere che io sia presente nella sua vita se non mi permette di entrare a farne parte completamente?
Stan mi vede riflettere ma decide lo stesso di mettere il dito nella piaga, di infierire ancora su di me. Perché sa esattamente quello che mi serve per recuperare lucidità. «Brad, non ragioni più. E so che Erin ha sbagliato prima, ma tu hai infierito su di lei non comprendendo le ragioni del suo "strano" comportamento. Ti ha tenuto lontano perché ha paura di perderti, non perché pensa al suo amico Shannon. Si è trattenuta mentre la minacciavi di uscire con un'altra perché non pensava di potere riprovare qualcosa di forte per qualcuno. Amico, lei non vuole deluderti perché sei il primo a cui permette di avvicinarsi al suo cuore dopo tanto tempo. E non dovrei dirtelo ma voglio proprio farti un male cane adesso: Samantha mi ha anche detto che quando si è allontanata da te dopo quella scenata di gelosia, lei gli ha detto che ci tiene a te, che potrebbe essersi persino innamorata. Sai che cosa significa questo per una persona che ha vissuto l'inferno? Hai rovinato tutto quanto. Adesso vattene dove ti pare a piangerti addosso o a sfogare la tua inutile rabbia repressa. Ma sappi che quando tornerai, perché lo farai, lei sarà ancora qui ad aspettare. Anche se ti sei dimostrato una delusione e un coglione.»
Improvvisamente i castelli costruiti crollano intorno a me. Inizio a sentire il peso del senso di colpa. Ma come faccio a chiederle scusa se è stata lei a ferirmi tenendomi continuamente a debita distanza? Perché non può semplicemente lasciare decidere me?
Ci sono ferite che non si rimarginano al sole, rimangono segni aperti, non guariscono. Sono quelle le vere ferite. Sono quelle che fanno male a distanza di anni. Sono quelle che tornano a sanguinare ad ogni ricordo.
Erin è come una ferita aperta. Non è vero che non crede più nell'amore, nella fiducia. Ci ha creduto così tanto da distruggere il suo cuore. Ha ricevuto poco amore, poco affetto. Troppe delusioni. Troppo dolore. Ma non per questo non ha provato niente. Forse lei sente più di tutti. Solo... lo tiene nascosto in quella scorza dura che non lascia scalfire da nessuno. Lo protegge dagli stronzi come me che credono di sapere tutto.
«Cazzo!», metto le mani sulla testa. Cammino avanti e indietro un paio di volte. «Che cosa ho fatto?», vado nel panico.
Stan si appoggia contro la parete. Guarda in alto poi si concentra di nuovo su di me. «Io capisco la tua reazione. Penso che hai fatto bene a farle vedere anche questo lato di te. Ma avresti potuto anche trovare un modo diverso in una situazione diversa. Forse le darà una scrollata e penso anche una spinta per fare una mossa. Anche se la farà soffrire. Ma non penso sia proprio il momento giusto per questo e lo sai anche tu.»
Mi fermo. Le cose si fanno sempre più complicate. Io lo sapevo che prima o poi avrei rovinato tutto. Lei però non ha fatto altro che starsene in silenzio con quell'aria dispiaciuta e persa. Avrebbe dovuto affrontarmi. Sarebbe stato meglio per entrambi avere un confronto spietato e diretto.
«Che cosa ho fatto?», ripeto.
«Non hai fatto niente di sbagliato. Hai solo ascoltato le tue sensazioni. Adesso smettila di autocommiserarti e andiamo a berci una birra. Abbiamo ancora dei piani. E se tutto va bene stasera io starò con Sammy. Sempre se non succede qualcos'altro.»
Gli mostro il pugno, le nocche insanguinate vergognandomi del mio atteggiamento. «Prima devo farmi medicare questo», dico.
Lo guarda inorridito. Alza persino gli occhi al cielo imprecando a denti stretti. «Sai che non potrai lavorare per qualche giorno o mese se è rotto?»
«Ringrazia l'amica della tua ragazza!», sbotto tornando in me.
Scuote la testa sbuffando più che esasperato. «Andiamo, ti porto in ospedale per fare una lastra», mi molla una sberla sulla nuca. «Sai che non voglio lavorare con un altro dei nostri colleghi. Uno ha l'alitosi, l'altro mangia di continuo panini o cibi al formaggio come se fosse un ratto. Sarebbe un casino dentro il furgone!»
Mi scappa un sorriso se non una risata. «Sarebbe la giusta punizione», replico entrando in auto. Guardo la porta a vetri del locale. L'istinto mi dice di andare lì dentro e continuare il litigio ma la ragione frena tutto. Forse Erin adesso ha bisogno di rimuginarci sopra.
«Non avvisi la tua donna?»
Prende il telefono mostrandomelo. «Le mando un messaggio. Tranquillo non le dico che hai appena preso a pugni un muro per la rabbia e ti sei sfracellato il polso. Ti prenderebbe per stupido. Inoltre glielo direbbe, quelle due non hanno filtri o segreti e questo la farebbe solo spaventare. Non hai visto come è entrata in laboratorio. Era atterrita.»
Faccio una smorfia guardando fuori dal finestrino mentre le prime luci dei lampioni si accendono una dietro l'altra. Sto cercando di togliermi dalla mente la sensazione che ho percepito prima di mandare tutto all'aria.
Mi aggrappo alla vista dei palazzi, alla segnaletica stradale, ai pedoni distratti che scompaiono in metropolitana. Fisso i cartelloni pubblicitari, gli autobus che passano, i taxi che sfrecciano. Ascolto il suono della città in cui ho sempre vissuto.
«Non ha detto una parola a parte "ho perso di nuovo tutto". Samantha mi ha chiesto di fermarti e io ti sto portando all'ospedale qui vicino dove sappiamo bene chi troveremo. Mentirle mi fa sentire un idiota ma sarò soddisfatto se troveremo Shannon. Sarai proprio fortunato se è di turno quello là.»
Sussulto. Una scarica fredda mi attraversa da capo a piedi. Non avevo pensato a questo dettaglio. Abbasso lo sguardo. Muovo la mano e il dolore si dirama sull'avambraccio. Stringo i denti.
Me lo merito. Merito di sentire tutto questo, per essere stato impulsivo, per non essermi trattenuto. Per essere scoppiato nel peggior momento in assoluto.
Stan guida tranquillo. Sono poche le volte in cui l'ho visto arrabbiato per davvero. Ha un carattere forte, allegro e spesso si comporta di proposito da testa di cazzo per evitare scontri inutili o per stuzzicare le persone. Siamo molto diversi ma ci capiamo al volo. Anche se attualmente lo sta facendo di proposito. Sta infierendo per farmi sentire in colpa.
«Che cosa ti è saltato in mente?», cerca delle risposte.
Stringo il pugno buono. «Non ne ho idea. Avevo bisogno di scaricare la rabbia e il senso di frustrazione. Non mi sentivo così da anni. Sapevo di non dovermi interessare più ad una ragazza così tanto. Lo sapevo!»
Stan aumenta la velocità posteggiando in una piazzola segnata dalle strisce bianche. «Togliamoci il pensiero e spera che non ci sia niente di rotto o ti spaccherò l'altra mano. Così ci penserai un paio di volte la prossima volta.»
Esco dall'auto entrando in ospedale. Mi fermo alla reception, davanti alla ragazza che si trova dietro la scrivania. «Buona sera, motivo dell'urgenza?»
Sollevo il braccio. «Penso di essermi rotto il polso, in caso contrario devo farmi medicare le nocche.»
La ragazza evita i miei occhi arrossendo. Succede spesso. Come se io potessi rubare loro l'anima. Ma volevo solo rubare il cuore di una ragazza. Invece ho distrutto il mio. Si può essere tanto stupidi?
«Si accomodi in sala d'attesa dopo avere compilato questo modulo. Qualcuno verrà ad aiutarla a breve. Al momento i dottori sono tutti impegnati.»
«Il mio amico potrebbe sentire dolore e perdere sangue non può dargli qualcosa?», inizia a protestare Stan.
Ha accantonato la parte dell'amico arrabbiato per assumere l'aria apprensiva di un fratello maggiore. La cosa più curiosa è che non ha tentato di flirtare con la ragazza. Samantha gli piace più di quanto non dà a vedere.
La ragazza dietro la scrivania, piccola di statura, occhi a mandorla e capelli scuri raccolti in una coda bassa, appare desolata. «C'è stato un incidente e i dottori sono quasi tutti impegnati. Dubito che il suo amico provi dolore o stia morendo dissanguato, altrimenti sarebbe arrivato in lacrime o svenuto.»
Che cosa significa? Non sono mica di acciaio inossidabile io. Anch'io mi piego. Anch'io sto male. Anch'io se mi ferisco sanguino e provo dolore. Solo che ho una soglia abbastanza alta. Sopporto senza frignare. L'ho sempre fatto, anche da piccolo quando avrei potuto fare i capricci e farmi regalare qualsiasi cosa.
«Bradley non ha mai pianto per un graffio, figuriamoci per un polso rotto. In ogni caso mi ricorderò di lei e della sua indifferenza», minaccia. «È il suo lavoro prestare soccorso. Che sia una gamba rotta, un dito mozzato o una cazzo di mano ferita.»
La ragazza sgrana impercettibilmente gli occhi cercando di capire se chiamare la sicurezza o scappare con una scusa. Stan sa essere inquietante quando si arrabbia.
«Andiamo», gli dico notando che è sul punto di continuare dopo avere firmato malamente il modulo ed essermi scusato con la ragazza che ci segue ad ogni passo.
Lo spingo recandomi in sala d'attesa, un quadrato pieno di sedie con un monitor in alto attualmente sintonizzato sul canale sportivo. Qui mi siedo su una delle sedie imbottite mettendomi comodo.
Ho perso il conto delle volte in cui mi sono trovato in una situazione simile. Ma non è mai stato per me. Sempre per gli altri.
Stan si siede nervoso accanto a me. Guarda la tv poi lo schermo del telefono continuando a muovere la gamba più che nervoso. Mi guarda un paio di volte di sbieco ma non mi muovo dalla mia posizione comoda.
«Non hai protestato. Stai davvero male», borbotta. «Ti sei davvero innamorato.»
Tiro indietro la testa chiudendo gli occhi mentre il polso pulsa dolorosamente. Tengo per me quello che sento. Dubito che la gente possa comprendere come mi vedo riflesso negli occhi di quella piccola stronza. «Vammi a prendere un caffè così ti sgranchisci le gambe e la smetti di dire stronzate. Così continui anche a mandare messaggi alla tua ragazza da un'altra parte per aggiornarla come un ragazzino.»
Evita di replicare acido. Sa quanto divento nervoso quando mi contraddice.
Quando Stan è lontano pesco il telefono dalla tasca. Trovo un messaggio. Premo il dito sull'icona dopo un attimo di esitazione. Il mio cuore prende a battere in maniera scostante.
Erin: "Mi dispiace."
«Per cosa? Per esserti comportata da indifferente o per non avere avuto il coraggio di dirmi che non ti interesso abbastanza o così tanto?»
Rileggo il messaggio più di una volta come se questo potesse cambiare il contenuto. Ma ha scritto solo queste due parole. Non ha aggiunto nient'altro. Un fottuto "mi dispiace" che non ha valore.
Bradley: "Tieni per te il dispiacere e passa una buona serata. La mia è iniziata benissimo grazie a te."
Osservo i tre puntini che prendono vita in chat. Sono stato duro ma non le permetterò di abbindolarmi ancora o trattarmi come uno stupido. Non sono uno zerbino e mai lo sarò. Voleva uno stronzo? Avrà di peggio.
Erin: "Non stai dicendo sul serio. Sei solo arrabbiato e lo capisco."
Bradley: "Sono serissimo invece. E dubito tu possa capire quello che sento attualmente. Passa una buona serata e il resto della tua vita chiusa nella tua bolla. Un consiglio però voglio dartelo: smettila di essere codarda e di amare chi ti ha trattato come se tu non contassi e prenditi cura di chi ci tiene davvero a te e te lo dimostra! Stammi bene."
Rimetto il telefono dentro la tasca. Stan torna con un bicchiere di caffè. Me lo porge rimanendo per un momento in sospeso. «Ti ha mandato un messaggio?»
Sollevo l'angolo del labbro. Inizio a sentirmi nauseato da tutta questa situazione. «Si», rispondo secco.
Tanto lo sa. So che comunica con Samantha e che quelle due sono insieme.
«E lei hai risposto?»
«Di andarsene dritta a quel paese perché non ho intenzione di farmi prendere ancora in giro da lei? Si. Le ho anche dato un consiglio», inizio.
Stan mette la mano sul viso. «No, non l'hai fatto sul serio», sbircia dalle dita.
«Si, le ho detto di smetterla di amare una persona che non ha ricambiato e non ricambierà mai e di svegliarsi!», imbronciato fisso le nocche. «Non ho intenzione di essere di nuovo uno zerbino. Tratti bene le persone ed ecco come finisci», sbuffo.
Un dottore si avvicina leggendo una cartellina. Sembra alquanto spossato. «Chi di voi è Bradley Connor?»
Stan mi indica. «Il bambinone che hai davanti si è fatto male dando un pugno contro un muro perché ha litigato con la ragazza e pensa di avere il polso rotto. Mi faccia un favore, se dovesse essere rotto, mentre glielo aggiusta, non gli faccia alcuna anestesia!», detto ciò, si allontana nervoso dopo avere borbottato un semplice: "stronzo!".
Il dottore mi fa cenno di seguirlo in una stanza piena di macchinari senza commentare la sfuriata del mio amico. Dopo una lastra attendo in un piccolo ambulatorio, da solo. Qui mi concentro sui quadri inutili appesi alle pareti bianche e poi sui flaconi dentro una vetrina chiusa a chiave. Mi distraggo anche guardando le foglie verdi di una pianta. Questo fino a quando non entra una persona che conosco.
Tra tanti medici proprio lui?
Si ferma a metà strada sorridendomi, chiudendo la porta alle spalle. «Il mio collega mi ha detto che aveva un caso particolare di uno che dà pugni contro i muri. Mi ha chiesto di dare un'occhiata. Mi sono incuriosito e alla fine ho scoperto che eri tu. Come non venire a salutarti?», sedendosi sullo sgabello con le ruote si avvicina. Prende la mia mano senza neanche chiedermi il permesso, muovendola per accertarsi di non avere dimenticato niente della procedura che avrà già fatto tantissime volte. Sento dolore ma non mi lamento. Non emetto un fiato. Lui corruga la fronte riflettendo su qualcosa.
«Dalla lastra non risulta niente di rotto, per fortuna oserei dire. Hai solo preso una leggera botta. Dovrai tenere la mano ferma per un paio di giorni per lasciarla guarire», dice concentrato iniziando a fasciarmi e medicarmi la ferita sulle nocche prima di offrirmi un tutore che parte dal polso fino pollice.
Alza gli occhi solo per un breve istante. «Una volta è successo anche a me», inizia. «Erano circa nove anni fa. La notte in cui l'ho salvata. Ero fuori dall'ospedale, in attesa e ho dato un pugno contro un albero perché non riuscivo a togliermi quella scena dalla testa. Continuavo a sentirmi in colpa per non essere arrivato prima. A me però è andata bene visto che riesco a lavorare ancora.»
Lo guardo furente. Mi prende in giro?
«Perché me ne stai parlando?»
Si fa serio. Shannon ha uno sguardo letale. «Perché hai lo stesso sguardo. Quello di uno che non riesce a proteggerla sempre da tutto. Ma non puoi, non quando il suo nemico è proprio se stessa.»
Toglie i guanti gettandoli dentro il cestino vuoto. «Che cosa è successo?»
Mi alzo dal lettino. «Hai già letto la cartella, sai quello che ho fatto. Non siamo amici e non sono affari che ti riguardano. Anzi, voglio essere io il primo a darti la bella notizia. Adesso avrai la strada libera visto che mi sono messo da parte.»
Non nasconde la sorpresa. Corruga subito la fronte. «Le hai fatto del male?», indurisce i lineamenti.
L'aria si riempie di tensione.
Gonfio il petto. Nego. «Dovresti chiedere a lei. Penso sia il contrario. È lei che ne ha fatto a me. E pure tanto.»
Sembra sempre più confuso. «Spiegami.»
Esco dall'ambulatorio dandogli le spalle e lui mi segue a ruota. Chiedo silenziosamente spiegazioni sul suo atteggiamento. «Ho tutto il tempo di parlare adesso», dice togliendosi il camice, tenendolo in spalla dopo avere recuperato una ventiquattrore. «Il mio turno è appena finito. Andiamo, ti offro una birra.»
«Non sono solo», replico brusco.
«Prima ho incontrato il tuo amico alla macchinetta del caffè. Non era contento. Presumo se ne sia andato.»
Alzo gli occhi al cielo. Stan. Che stronzo!
«Certo», dico con una smorfia. «Be', grazie tante per avermi sistemato il polso e medicato le nocche. Arrivederci dottore!»
Mi incammino verso il parcheggio. Poi ripensando di avere lasciato l'auto a casa e di essere venuto con Stan che mi ha abbandonato per tornare dalla sua donna, mi appresto a raggiungere una fermata per prendere un taxi.
Sento dei passi alle mie spalle. «So che vuoi sapere cosa le è successo. Te lo racconto davanti una birra. Andiamo, ho bisogno di svagarmi e qui non ho nessuno con cui parlare a ruota di altro a parte il lavoro.»
Lo guardo male. «Io e te non saremo mai amici, lo sai? Neanche se mi offri una birra.»
Apre le portiere tenendo in alto il telecomando. «Finché ci sarà di mezzo Erin non lo saremo, mi sembra ovvio. Per una sera però possiamo seppellire l'ascia di guerra e goderci un calice di puro alcol. Domani non sono di turno e penso di essermi guadagnato un po' di svago. Sali e non comportarti da bambino!»
Sbuffo entrando in auto. La fasciatura e il tutore mi impediscono di muovere le dita, così uso la mano sinistra.
Non appena entro in auto la prima cosa a colpirmi è la pulizia. Shannon è un tipo ordinato, a differenza di ciò che mi aspettavo da uno come lui. La sua auto odora di ambulatorio e spray al cocco. Non è nauseante. E la sua presenza non è come mi aspettavo. Sembra più uno sbruffone ma è un uomo tranquillo, più o meno.
«Allora, che ha combinato la mia principessa?», sorride.
Sua? Calmati, Brad!
Valuto se parlarne con lui sia una buona idea. Notandolo tranquillo decido di trovare uno sfogo e di ottenere le risposte che in parte lei non mi darà mai.
«Mi ha chiesto di andarci piano e l'ho fatto. Mi ha chiesto di non vederci di continuo e l'ho accontentata. Ho fatto tutto a modo suo, tutto. Poi oggi mi fa una strana scenata di gelosia in piena regola, davanti a tutti, io la provoco per capire e che fa?»
«Scappa», replica senza aspettare che continui. «Erin non era così. Affrontava tutto e tutti a testa alta, persino le persone più grandi di lei. Era rispettosa, mai ineducata o insensibile ma aveva sempre la risposta giusta, quella che ti spezzava dentro. Sapeva come urtare la tua sensibilità. Faceva paura la sua straordinaria forza. Poi si è spenta, si è chiusa e non è più tornata indietro. Un po' mi manca quell'atteggiamento da arrogante presuntuosa.»
Apro un po' il finestrino per fare entrare l'aria fresca dentro l'abitacolo che inizia a scaldarsi. Vedere e sentire Shannon mi fa capire che non conosco affatto Erin.
«Se ne è andata. È sparita per un paio di ore. Poteva farsi male. È rientrata con un paio di buste, un regalo per la sua amica come se niente fosse e quando le ho messo pressione mi ha persino detto che non ce la fa. Allora non ci sono riuscito io. Sono crollato e le ho detto che poteva prendere in giro qualcun altro.»
Stringe i denti e la presa sul volante. «E lei?»
«La conosci più di me.»
«Non attualmente. Abbiamo vissuto questi anni di amicizia ma non sempre insieme. Ti ricordo che mi sono sposato e la mia ex moglie non mi permetteva spesso di vederla.»
«È rimasta in silenzio. Era come bloccata.»
La sua smorfia mi fa irrigidire. «Che c'è?», chiedo esasperato.
«Hai almeno pensato al fatto che lei possa essersi legata davvero a te e che non si sente ancora pronta a lasciarsi andare del tutto per paura di trovarsi di nuovo in quella situazione? Il suo non è un capriccio. Se ti chiede un po' di distanza è perché ha bisogno del suo spazio, cosa che gli serve per capire se ti vuole attorno, se gli manchi e se può funzionare. Non lo fa per metterti i bastoni tra le ruote. Lo fa per non prenderti in giro.»
Posteggia nel sotterraneo di un palazzo insieme ad una sfilza di auto tenute a lucido e scendiamo dalla sua auto incamminandoci, ritrovandoci al "Room 74".
Per la seconda volta, a distanza di poco tempo, entro in questo locale caotico, sempre pieno. Salgo e mi siedo nella zona privata, quella che si trova sul soppalco. Shannon ordina qualcosa per non avere nessuno intorno ad ascoltarci poi mi fissa attentamente. «Sai che la madre di Erin prima di risposarsi ha avuto tante storie, una più disastrosa dell'altra? Adesso è sposata con Harvey, un brav'uomo. Non le fa mancare niente e Erin sta iniziando ad accettarlo. Lei non ha avuto una solida infanzia e adolescenza come te e me. Suo padre ha sbattuto fuori sua madre non appena l'ha trovata con l'amante e lei si è portata via Erin. Continuavano a viaggiare, a vivere ovunque senza mai fermarsi per più di un anno o due. Non ha mai avuto amici stretti, persone di cui fidarsi a parte se stessa. Per questo è diffidente e ci mette un po' di tempo ad aprirsi o a fidarsi quel tanto che basta. Per questo non permette a nessuno di entrare a far parte della sua vita.»
Mi sento un perfetto estraneo. Erin è talmente chiusa in sé da non lasciare uscire fuori niente del suo passato. Eppure, si è interessata al mio. Ha fatto delle domande, ha avuto una reazione.
«Non dovrei essere io a parlarti di questo ma Erin stava per essere violentata anche da uno di quegli uomini. Sua madre non se ne accorgeva. È intervenuta sua nonna che ha iniziato ad ospitarle per tenere la figlia d'occhio e la nipote al sicuro. Quell'uomo si è infilato nel letto di Erin, poteva farle del male proprio come stava per fare Ephram. Un ragazzo della sua età con cui giocava da bambina e che aveva una fissazione per lei. L'ha seguita mentre si trovava in una clinica psichiatrica dopo avere sfregiato un ragazzo. Ci aveva già provato una volta a tenerla in quello sgabuzzino e lei in quell'occasione gli ha spezzato due dita scappando via con le prove che lo incastravano. Erano disegni di lei... di un certo tipo.»
Sento la rabbia impossessarsi di nuono di me. Il bastardo ha un nome. Ma ora so che Erin ha vissuto l'inferno anche da piccola. Come può un genitore permettere una cosa simile? Come è riuscita a sopravvivere a tutte queste cose orribili senza mai abbattersi?
Più i minuti passano più inizio a sentirmi ridicolo.
«Sua madre, quando Erin le ha rovinato la festa di fidanzamento con Harvey, ha deciso di spedirla da suo padre che non vedeva da anni. Quella ragazza si è ritrovata lontano da casa, dalle persone che amava per stare in un ambiente in cui aveva vissuto l'inferno durante l'infanzia. Già, prima che me lo chiedi, Erin veniva presa di mira quando era piccola. La prendevano in giro, le tiravano brutti scherzi come quello della festa di compleanno. Hanno iniziato a chiamarla sirenetta e lei odiava e odia quel nomignolo e la persona che glielo ha attribuito. Nel corso del tempo si è indurita perché non voleva più subire, perché non voleva soffrire. Quei bastardi, non hanno fatto altro che distruggerla lentamente.»
Bevo un generoso sorso dell'alcolico che mi sta offrendo in un bicchiere lungo e alto con due cannucce e ghiaccio per placare la sete. «Non solo lui...»
Annuisce. «Da piccola veniva presa in giro da un bambino. Il mio amico, Kay Mikaelson. Io l'ho conosciuto dopo la partenza di Erin. Avevamo circa dieci anni. È tornato a Oakville prima dell'arrivo di Erin. Abbiamo studiato insieme, sembrava cambiato e la motivazione che aveva dato era più che valida.»
Gli offro il secondo giro. Il primo è finito troppo in fretta. Ho bisogno di alcol se voglio superare questa verità e sopportare la presenza di un ragazzo che conosce Erin nel profondo. Dalle sue parole traspare infatti la sua voglia di proteggerla da un passato doloroso.
«Che cosa è successo?»
«Quando Erin è tornata è come impazzito. In realtà tutto il paese. Lei non era come adesso. Teneva i capelli colorati, i piercing al viso e indossava sempre indumenti scuri. Kay... ha puntato di nuovo gli occhi su di lei. Ricordava della bambina che non piangeva mai, che si piegava ma non si spezzava e che lo affrontava di continuo. Le cose sono tornate in quel modo. Kay ha preso in giro tutti. Ha continuato a tormentarla fino a farla innamorare. Si è divertito con lei e poi da un momento all'altro, quando è riapparso suo nonno ricordandogli il volere della famiglia, ha iniziato a comportarsi in modo strano. Era parecchio geloso e protettivo nei confronti di Erin, su questo non posso negarlo. Ma alla fine è riuscito a vincere la sua scommessa.»
Inarco un sopracciglio tenendo il bicchiere a metà strada. I muscoli si tendono. So che non dovrei ma ormai sono curioso di sapere. «Cioè?»
«A farla piangere, ad umiliarla. Ma non ti dirò altro su questo. Sarà lei a farlo.»
Poso il bicchiere vuoto sul tavolo basso. Sento l'amaro in bocca. «Ma non ci vedremo più io e lei.»
«Ne sei sicuro?»
Annuisco. Mento sentendomi un verme.
Come farò a starle alla larga se ormai occupa gran parte dei miei pensieri?
Shannon termina il suo secondo bicchiere dello stesso alcolico. Ordina subito un altro giro. «Stai mentendo.»
Non riesco a togliermi dalla testa l'immagine di loro due in quel bagno, stretti in un abbraccio mentre si baciano. L'alcol mi aiuta. «Perché l'hai baciata proprio quel giorno?»
Trattiene il fiato. «Ero ubriaco», usa la stessa scusa sfuggendo al mio sguardo.
Non ci credo. «Sai che non sono come i tuoi amici? A me non mi freghi. Dimmi perché!»
Allarga la cravatta deglutendo a fatica. «Mi sono innamorato di Erin sin dal primo istante in cui l'ho vista. Se ne stava alla radura, sembrava a disagio in mezzo a tutti quegli stronzi figli di papà ma era curiosa. Non si è tirata di certo indietro quando siamo arrivati a fare un po' di casino. Mi osservava e io ero... diverso da adesso», tocca sotto la palpebra dove ha una piccola cicatrice. «Ho rimosso un tatuaggio sul viso, i denti d'argento e i piercing, tranne questo all'orecchio.»
Mi faccio attento. Rigiro il ghiaccio dentro il bicchiere con il liquido color Borgogna.
«C'è stata una rissa. In quel periodo mi occupavo di un gruppo, si fanno chiamare gli Scorpions. Esistono da generazioni. Quella notte, tutti sono scappati all'arrivo della polizia e ho chiesto a Kay di tenerla d'occhio. Non immaginavo che la. E non so, c'era qualcosa in lei che mi attirava. Lui le ha dato quel maledetto passaggio mentre io mi occupavo del resto. Non passa giorno in cui non sento il senso colpa per essere stato tanto stupido. Si direbbe che ho giocato con il destino lasciandomi scappare l'occasione giusta, quella che capita una sola volta nella vita.»
Ascolto sentendomi frastornato. Deve essere stato difficile per lui lasciarla ad un altro per tutto il tempo ed essere consapevole del fatto che stesse giocando.
«Quando l'ho vista distrutta sono rimasto accanto a lei a farle da amico, da confidente. Le ho offerto la mia spalla senza mai pensare di approfittare del momento, della sua debolezza per ottenere qualcosa. Mi è anche piaciuto stare con lei senza aspettative. Ecco perché non ho mai cercato di baciarla o altro. Ha sempre saputo quello che provo per lei. Non si è mai comportata in modo sbagliato con me. Forse per questo andiamo d'accordo.»
«E perché l'hai baciata proprio il giorno del tuo matrimonio? Che cosa ti aspettavi?»
Abbassa gli occhi sulle mani che tiene sulle ginocchia. «La verità è che quel giorno, ho perso il controllo. Non so quello che mi aspettavo da lei. Volevo che si opponesse e invece se ne stava lì a fingere di essere felice per me. Ho rivisto la tristezza nei suoi occhi e per un attimo le ho dimostrato che poteva andare avanti anche lei. Che potevo farlo anch'io.»
Sospira. «Non ne vado fiero. Mi sono beccato tanti di quegli insulti e ho rischiato di perderla e di litigare come un pazzo con mia moglie. Ma lei, nonostante la distanza, non mi ha mai dato la colpa. Eravamo in due in quel bagno. Non si è di certo tirata indietro quindi lo voleva tanto quanto me. Almeno mi ha sempre detto questo per tranquillizzarmi.»
Inspira bevendo. «Non ho intenzione di sbagliare ancora. Mi sta bene il mio ruolo e so che potrò sempre contare su di lei. Non rovinerò quello che abbiamo un'altra volta. E so che non lo capisci attualmente perché sei arrabbiato, ma Erin ti vuole davvero nella sua vita.»
Passo la mano sul viso guardando quella fasciata con il tutore. «Ma non lo dimostra.»
Picchia il bicchiere sul tavolo. «Ti ha mandato qualcosa?»
Controllo. Nessun messaggio.
«Hai sbagliato, lo sai? Non dico che hai torto marcio ma avresti dovuto capire che in questi giorni rivive continuamente i momenti in cui ha perso tutto e poi è stata sequestrata e segregata per giorni, si è trovata a contatto con uno psicopatico che voleva approfittarsi di lei.»
Mi sento in colpa. Ho solo voglia di raggiungerla ma per una volta sarà lei a venirmi a cercare. Non posso più scendere a compromessi. Deve accettare le mie regole ogni tanto. Deve imparare a fidarsi.
«Questo non mi farà cambiare idea. Se ci tiene sa dove trovarmi.»
Detto ciò mi alzo. «Adesso me ne ritorno a casa. Sono stanco e ho bisogno di smaltire l'alcol e il tutto lontano da ogni fonte di malumore.»
Shannon si alza a sua volta. «Ti accompagno, amico», picchia il palmo sulla mia spalla.
Lo fermo. «Non siamo amici, ma accetto il tuo passaggio perché inizia a girare tutto.»
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