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34


Due mesi dopo...

Quanto rumore fa un cuore che si spezza?
Quando lo senti fiaccarsi dal centro esatto e il rumore sordo che provoca rimbomba sulla gabbia toracica. E dal dolore provato impari a convivere con ogni ferita che rimane aperta e continuerà a sanguinare. E dalla sensazione di vuoto e solitudine impari a camminare cautamente tra i resti affilati di ogni ricordo rievocato in un battito di ciglia.
Me ne sto qui, impalata sotto la raffica di flash e sorrisi. Circondata da tante persone eppure sola, in compagnia della mia anima rotta. Del mio ego ferito.
Giro la testa confusa. Continuo a vedere solo estranei.
«Erin, un sorriso», papà agita la mano nel tentativo di immortalarmi con la toga, la pergamena e il cappellino mentre tutti corrono dalle loro famiglie e tra abbracci e congratulazioni si allontanano per festeggiare.
Sospiro accontentandolo. Sto morendo dalla voglia di togliermi tutto di dosso e tornare a casa. Non per l'imbarazzo. Semplicemente ho bisogno di chiudere la porta e abbassare le spalle. Togliermi questa maschera.
Per questa ragione ho deciso di non volere nessuna festa. È solo uno stupido diploma, un pezzo di carta che non valuta lontanamente la persona che sei dentro. Non è il voto o il titolo di studio a definirti.
Papà non ha accettato di buon grado la mia decisione ma sta accettando la mia volontà. In realtà non ha ancora fatto nessuna domanda sul mio disastroso viaggio, tantomeno sul mio aspetto da tossica assassina.
Ogni giorno passato dal mio arrivo non ha mai cercato di tirarmi dalla bocca una sola parola, gliene sono infinitamente grata. Non voglio dargli alcun pensiero o adito di preoccuparsi. Forse per questo mi sono comportata normalmente, con la mia tipica calma e sfacciataggine.
Non credo si sia accorto che gli argini, seppur per qualche ora, si sono rotti facendomi sentire davvero piccola e disperata. Non sa che sto facendo del mio meglio per non scappare da questo posto prima dell'arrivo delle risposte da parte delle università. Non sa che sto soffrendo per amore.
Non essere ricambiati fa schifo. Essere presi in giro invece ti ammazza dentro.
È sempre così che funziona quando ti affezioni troppo a qualcuno. Vedi tutto più chiaro solo quando vai a sbattere forte contro la realtà, diversa da quella in cui avevi sperato. E fa maledettamente male. Ma non si muore mica per questo. Si soffre, ci si tormenta e poi si riparte da capo.
Ormai ho capito che mi ha lasciato andare. Lo ha fatto dapprima lentamente poi tutto d'un colpo. Come quando tiri troppo una corda, la presa inizia a scivolare e alla fine la lasci andare facendo precipitare tutto ciò che avevi sostenuto per mesi o forse anche anni. Le cose, i legami, le persone... tutto si spezza. Tutto si perde.
Io che non ero mai riuscita a dimostrare qualcosa, sono stata in grado di amare per due. L'ho fatto per davvero. L'ho fatto con la paura costante nel cuore. Ma ho amato, anche se non avevo calcolato bene che quando stropicci troppo un foglio sottile di carta ciò che resta è un ammasso di pieghe impossibili da togliere. Io e lui eravamo sottili come carta. In grado di ferire senza fare rumore, in grado di strapparci irrimediabilmente. Due così non è che li aggiusti. Non puoi. Li separi. Li fai diventare due fogli più piccoli.
Adesso non mi tocca che accettarlo. E nonostante la rabbia a lacerarmi il petto con il fuoco della delusione, devo capire che forse era giusto così. Mai sfidare il destino quando ha in serbo per te altre strade da intraprendere e nuove crepe da aprire.
«Facciamone una insieme», propongo.
Sembra rincuorarsi. Infatti mi avvicina chiedendo a Dana, di passaggio, di scattarci una foto. Un nuovo ricordo tra i molteplici che dovrò tenere dentro e alla larga dal questo difficile presente.
Sorrido davanti all'obbiettivo della macchina fotografica e lei ricambia porgendo di nuovo lo strumento a papà quando ha finito. «Ne ho scattata più di una», mi avverte. «Stasera vieni alla festa?», me lo chiede di proposito davanti a papà. Crede sia lui la causa della mia chiusura. Non immagina l'inferno che sto vivendo e la consapevolezza di essermi sempre sbagliata, di avere affidato il mio cuore nelle mani di chi non ha fatto altro che giocarci fino a consumarmi. Ma so che forse un giorno ritornerò a respirare e sarà fantastico. Perché ci si rialza sempre, anche quando pensi di non riuscirci più.
«Ho altri programmi per stasera ma grazie lo stesso.»
Apre e richiude la bocca guardando mio padre, adesso impegnato in una conversazione con i suoi genitori. Non può aiutarla a convincermi.
«Programmi del tipo film e cibo spazzatura? La festa sarà nella radura se ci ripensi. Un bel modo per salutarsi, no?»
Ha capito che non passerò l'estate qui, tantomeno le vacanze di natale o qualsiasi altra festa o evento. Ha capito che non tornerò più a Oakville. Infatti, come se stesse pensando proprio a questo, mi abbraccia. «Grazie, Erin.»
Le do una piccola pacca sulla schiena. «Non hai niente da ringraziarmi. Mi raccomando, prenditi cura di te e si Harper. Sappiamo entrambe che non sa cucinare e dimostrare il suo affetto senza prima avere combinato qualcosa di spiacevole o detto qualcosa di orribile.»
I suoi occhi si fanno lucidi. «Mi mancherai. Mi mancherà la tua forza, la tua testardaggine, il tuo coraggio...», le trema la voce. «E poi i consigli. Ci sentiremo, vero?»
La rassicuro passando la mano sulla sua schiena. Come faccio a dirle che spezzerò ogni legame?
«Non mi stai facendo un elogio funebre prima della mia fine, vero? Sono sicura che te la caverai. Anche tu sei forte e coraggiosa.»
Staccandomi da lei, prima che possa mettermi a frignare, attendo l'arrivo di Harper.
Oggi è bella. Sotto la toga indossa un tubino rosa con dei fiori ricamati sul corpetto. Tacchi alti e trucco impeccabile. Non ostenta, non si atteggia. Non fa più la stronza. Si comporta quasi come se volesse proteggermi. Mi guarda come un'amica e non più come un'avversaria da superare e da battere.
Non so quello che sanno tutti, so solo che dalla mia bocca non è uscito niente di ciò che è successo. È tutto rimasto a Londra, dove spero rimanga per sempre. Anche se "sempre" è troppo tempo.
«So che vale poco ma è stato bello rivederti e averti qui. Mi sarebbe piaciuto dimostrarti che non sono la strega che pensi, ma è stata anche colpa mia.»
Con grande sorpresa sbuffa e mi abbraccia. «Grazie», mi guarda con una dolcezza nuova, i suoi occhi diventano lucidi. «Mi hai fatto capire che non sono sola quando dimostro agli altri che ci tengo. E sappi che mi dispiace davvero tanto per come mi sono comportata. Tu avevi solo bisogno di qualcuno accanto e io non ho fatto altro che tramare alle tue spalle e farti i dispetti come una bambina. Non lo meritavi.»
La guardo stupita. «Harper ammorbidita... mi piace molto di più, sappilo. Non comportarti male all'università e fatti valere come sempre. In più sposa uno ricco sfondato e vattene da qui.»
Sorride stringendomi ancora. «Ricordi ancora i miei sogni da bambina?», emette un verso gutturale. «Prenditi cura di te e ogni tanto fatti vedere. Oakville non è mai stata così movimentata senza di te. Spero di vederti stasera.»
Ricambio il sorriso anche se in modo finto e staccandomi le saluto senza darle alcuna risposta. Non credo di volermi ritrovare circondata da persone curiose e disposte a tutto pur di estorcermi la verità. Rischio di essere presa in giro per il resto dei miei giorni. La lezione mi è bastata.
Mi riscuoto. Non devo più pensare a quel giorno. Non perché voglio eliminarlo dalla mente ma perché ho bisogno di andare avanti.
Papà mi aspetta nel parcheggio. Lo raggiungo e non appena prendo posto sul sedile, tolgo in fretta la toga nera piegandola per bene, posando la pergamena sul cruscotto.
Papà avvia il motore. «Ti dispiace se invio qualche foto a tua nonna? Ha chiamato prima. Ti fa gli auguri, ti chiede scusa se non è riuscita a raggiungerci e mi ha anche chiesto di sviluppargliene un paio.»
Da quanto parla con mia nonna?
Alzo le spalle. «Se vuoi», replico guardando fuori dal finestrino con finta indifferenza. «Scarta quelle brutte.»
«Andrai alla festa?»
«Hai comprato almeno la torta al cioccolato?», cambio discorso. Non voglio parlare con lui dei miei piani.
Guarda dallo specchietto retrovisore poi si volta e infine continua a guidare fino a casa senza dire altro.
Mi apre la porta lasciandomi passare. Improvvisamente sembra nervoso, ansioso e insicuro. Sono poche le volte in cui l'ho visto così.
Mi fermo. Trovo palloncini ovunque e quando avanzo superando il soggiorno vedo il ripiano della cucina apparecchiato e delle teglie dentro il forno. Ci sono anche un secchio con ghiaccio e una bottiglia di champagne. Mi volto incredula.
«Ti piace? Non abbiamo mai avuto la possibilità di festeggiare insieme qualcosa e ho colto l'occasione per farti sentire... amata», inizia impacciato non trovando il termine corretto. «Spero di poterlo fare per questa occasione.»
Poso la borsa sul divano e lo abbraccio. Rimane stordito ma alla fine ricambia la stretta. «Sono tanto orgoglioso di te.»
«Grazie, è fantastico!»
Staccandomi vado a sedermi e pranzo insieme a lui. Chiacchieriamo dei progetti e mi dà una delle più belle notizie per la sua carriera. Presto si trasferirà per diventare il direttore di un ospedale.
«Sceglierai tu la sede o saranno loro a scegliere per te?», chiedo leccandomi le labbra, sentendo in bocca il sapore dolce e amaro allo stesso tempo del cioccolato fondente.
Porto i piatti sporchi dentro la lavastoviglie passando il panno sulla superficie per togliere le briciole.
Papà annuisce dandomi una mano. «Mi hanno dato una lista e le offerte arrivano tutte da posti importanti.»
«E che cosa aspetti a decidere quale scegliere?»
«Te», dice semplicemente. «Se ti andrà. Così non staremo più lontani.»
Sorrido. «Sarebbe un buon compromesso», tamburello con le dita sul ripiano. «Ti farò sapere così organizziamo il trasloco.»
Appare un po' in imbarazzo. Per un momento ho paura che non voglia staccarsi da qui. «Qualcosa non va?»
«Ti ho fatto un regalo», dice grattandosi la nuca. «E non so come reagirai.»
Inarco un sopracciglio. «Non dovevi...»
Mi fa cenno di seguirlo. Entriamo in garage e qui trovo tutti i regali di compleanno, uno per ogni anno e poi c'è una bellissima macchina nera con un enorme fiocco sul tettuccio lucido.
Rimango a bocca aperta. «Mi hai comprato una macchina?»
Annuisce con le mani dietro la schiena prima di alzare una mano facendo penzolare il telecomando con un portachiavi.
Emetto uno strillo. Non so spiegare l'emozione che sto provando pur sentendo un peso sul petto che mi impedisce di mostrare completamente come mi sento. «È mia?»
Conferma con un cenno della testa. «Se non ti piace possiamo cambiarla o scegliere qualcos'altro. Questa è una delle più sicu...»
Lo sto già abbracciando. «Grazie», bacio la sua guancia e staccandomi guardo i piccoli pacchetti che non ho mai aperto con una certa diffidenza.
«Ti lascio un po' di privacy», dice avviandosi alla porta per entrare in casa. Penso sia appena scappato. Aveva gli occhi rossi e tristi, di una tristezza antica. So a cosa stava pensando ma attualmente non posso permettermi lo stesso lusso.
Si volta fermandosi sulla soglia. «Erin?»
Alzo gli occhi tenendo stretta nella mano la chiave dell'auto. «Si, papà?»
«Sono felice di averti qui con me. Ti voglio bene», si allontana con un sorriso dolce.
Rimasta sola lascio uscire un sospiro abbassando le spalle e per qualche minuto anche le difese. Guardo tutti i regali dal più piccolo al più grande e sedendomi a gambe incrociate sul pavimento grezzo del garage, a poco a poco li scarto tutti trattenendo a stento l'emozione nel leggere ogni biglietto, ogni lettera o foto della mia infanzia che trovo all'interno.
Quando all'angolo ho ammucchiato tutta la carta colorata, le coccarde e raccolto i regali in una scatola di legno, li carico sul sedile anteriore e mi decido ad entrare in auto.
Sorrido incredula. «Sarà una bella avventura», dico. «Grazie papà. Ti voglio bene anch'io.»
Rientro in casa e lui si sta cambiando per rientrare in ospedale. Negli ultimi tempi ha fatto meno orari stressanti per farmi compagnia. Lo vedo più riposato, in effetti. Soprattutto nel corso dei due mesi appena trascorsi in cui non ho accennato a quello che ho vissuto e provato. Ma so che sospetta il peggio. So anche che è curioso.
«Sicura che ti vada bene? Posso chiamare e...»
«È un giorno come tutti gli altri», faccio un gesto con la mano per fargli capire che non è importante. «Abbiamo mangiato e bevuto. Devi andare.»
Lui risponde con una smorfia. «Va bene. Se esci scrivimi. Sarò qui all'alba. Cornetto o waffle?»
«E me lo chiedi? Cornetto!», esclamo.
Dandomi un bacio sulla tempia esce di casa e abbasso finalmente le spalle.
Metto in ordine la cucina e il soggiorno. Lego tutti i palloncini lasciandone qualcuno volante poi salgo in camera. Qui mi strucco, faccio un lungo bagno caldo con un calice di vino rosso e un buon libro. Rimango fino a quando l'acqua non diventa fredda e poi in pigiama mi infilo sotto le coperte.
So che è ancora giorno ma non riesco più ad essere felice. Forse non lo sono mai stata. In cuor mio spero un giorno di potermi almeno sentire serena.
Ci sono persone che non sono tagliate per il "per sempre". Altre che hanno bisogno di vivere nel presente prendendo tutto ciò che c'è di buono e positivo, accantonando ogni genere di distrazione o veleno. Ci sono persone che hanno bisogno di aggrapparsi a qualcosa, di credere in una svolta. Io sono una di queste.
Mi addormento come un sasso perché quando riapro gli occhi fuori è già buio. Ho un filo di bava asciutto lungo il mento. Lo pulisco con il dorso della mano e una smorfia.
Il mio telefono ronza e nel notare il numero di Dana che compare sullo schermo mi affretto a rispondere. «Pronto?», mugugno assonnata e ad occhi chiusi. Mi piacerebbe tornare in quell'angolo buio e tranquillo. Si stava così bene.
«Erin... finalmente!»
Sento un gran baccano dietro la cornetta. A stento riconosco la sua voce. È ubriaca.
«Dana, che succede?»
«Puoi passare a prendermi? Credo di avere un po' alzato il gomito.»
Sta piangendo? Di colpo scoppia a ridere e alzo gli occhi al cielo per essermi fatta prendere subito dal panico. «Quanto hai bevuto?»
«Davis non c'è ancora ed è lontano per raggiungermi e Harper è con Damon, si stanno baciando davanti a tutti senza il minimo contegno. Credo che a Mason non piacerà», cantilena ridendo. «Per favore puoi raggiungermi?», ripete biascicando.
La immagino pronunciare queste parole con il broncio.
Prendo un lungo respiro alzandomi a metà busto dal letto. In bocca ho il sapore amaro del vino fermentato dentro lo stomaco. Ecco che cosa mi ha fatto addormentare. Per fortuna non ero dentro la vasca quando sono scivolata nel sonno più tranquillo che abbia avuto da quel giorno.
Non è stato facile non piangermi addosso. Ho fatto fatica a non comportarmi da bambina viziata o da ragazzina isterica. Avrei tanto voluto mettermi a piangere ma ho promesso a me stessa di non farlo. Ancora una volta ho ricacciato le lacrime dentro e non usciranno più per nessuno.
«Ok, mi preparo e arrivo. Ma non ho nessuna intenzione di fermarmi, ok?»
«Si, non voglio stare neanche io qua. C'è una strana aria intorno. Gli Scorpions sono persino troppo calmi insieme ai King. Ma... ci sono anche gli altri, i nuovi arrivati.»
Ridacchia dicendo qualcosa a qualcuno poi risponde abbastanza forte di no ripetendolo un paio di volte. «Per favore, vienimi a prendere», riaggancia.
Ringhio e alzo gli occhi al cielo tra me e me. Arranco verso l'armadio spalancando le ante. Indosso una maglietta, un cardigan sopra e jeans attillati. Allaccio le scarpe da ginnastica e prendendo le chiavi dell'auto, la borsa e il telefono scendo in garage.
Digito un messaggio avvisando mio padre e guido per la prima volta la mia auto nuova per raggiungere un posto pieno di ricordi. Non è difficile capire i comandi e la velocità mi regala una scarica di adrenalina che non sentivo da tempo.
«Prendo Dana e torno a casa», dico per concentrarmi, stringendo il volante e posteggiando dietro la lunga fila di auto. «Non starò qui. Prenderò Dana e tornerò indietro senza problemi.»
Chiudo la portiera premendo il tasto del telecomando per mettere le sicure. Infilo la chiave dentro la borsetta e distrattamente accendo il flash del telefono per vedere dove metto i piedi evitando di cadere o di inciampare a causa di qualche radice che esce dal terreno. Nel frattempo avviso ancora mio padre che mi chiede se sono arrivata e di fare attenzione.
Sembra nervoso. In realtà lo sono anch'io adesso che mi trovo qui.
Alzo gli occhi oltre le punte degli alberi più alti. C'è un bel cielo pieno di stelle a coprire il buio e un'atmosfera calda, direi quasi accogliente.
Prendo un lungo respiro fermandomi nel primo luogo in cui l'ho rivisto. Sento la mia anima sgretolarsi ad ogni passo per il peso di ogni ricordo vissuto insieme a lui. Stringo forte i pugni dandomi coraggio, la forza necessaria. Perché si ricomincia così, davanti un luogo pieno di ricordi che rischiano di ucciderti, di farti morire. Ma sai che in fondo non si muore. Che per un amore perso se ne troverà uno più forte, più importante.
Non possiamo chiedere al nostro cuore di non battere per una persona. Non possiamo controllare i sentimenti. Possiamo solo lasciare andare chi non vuole starci accanto, chi non vuole fare parte della nostra vita, chi è tossico per i nostri sensi.
Una delle cose che ho imparato da tutto questo è che per ogni persona che sceglie di non fare più parte della tua vita ci sarà sempre qualcuno pronto a prendersi tutto quello che hai da offrire e ad apprezzare il tuo amore. Arriverà la tua persona e saprà tenerti accanto senza misura, senza controllo.
Spengo il flash continuando a camminare addentrandomi verso la radura alla ricerca di Dana.
Mi fermo ad un albero perdendo il segnale del telefono che un attimo prima stava suonando. È strano. Controllo sollevando lo schermo e quando finalmente prende leggo il messaggio in arrivo da parte di Dana in cui mi chiede dove sono finita.
Le sto rispondendo che sono qui quando percepisco una folata di vento e qualcosa placcarmi e tapparmi la bocca. Una puzza di acetone mi offusca la vista facendo bruciare le palpebre come se stessi tagliando delle cipolle da minuti e i miei muscoli si fanno sempre più pesanti. Non ho neanche il tempo di voltarmi per capire quello che sta succedendo. Quello che faccio è lasciare andare a terra il mio telefono dopo avere digitato la parola "aiuto". Tutto questo succede in una frazione di secondi interminabili prima del buio.

C'è qualcosa di confortante nel luogo silenzioso e oscuro in cui mi trovo. Ma non è abbastanza quando penso a quello che mi è successo. Pertanto apro lentamente le palpebre sentendo in bocca il sapore amaro di qualcosa. Mi fa male la testa e mi sollevo a stento guardandomi intorno frastornata.
Rabbrividisco immediatamente scattando troppo in fretta in piedi. Mi gira la testa e rischio di cadere e farmi male. Riesco a reggermi sulle gambe seppur malamente.
No, non è possibile. «No», lascio uscire dalla bocca asciutta salendo subito le scale disperata, provando ad aprire quella maledetta porta.
A niente servono le mie urla, i colpi, le spallate, gli strattoni. È tutto inutile. Per un attimo mi sembra di essere ripiombata in uno dei miei soliti incubi ma è reale. Io lo sono e lo è anche il posto in cui mi trovo.
«Aiuto!», urlo più forte che posso, lasciando uscire una voce acuta e strozzata allo stesso tempo.
Non posso permettermi di vivere qualcos'altro. È già tanto difficile tenere dentro la verità.
«Non urlare, tanto non ti sentirà nessuno.»
Mi irrigidisco girandomi lentamente.
Ephram esce dall'ombra come un animale dagli occhi iniettati di sangue e dalle fauci in bella mostra pronte a dilaniare la preda. Sale i gradini, senza fretta, con una certa sfrontata sicurezza, quella di chi sta per stabilire le regole di un gioco pericoloso, quella di chi ha avuto mesi e il tempo necessario per organizzare un piano diabolico, ma sto già mettendo le mani in avanti per fermarlo. Non ho paura di lui. Mi spaventano le sue intenzioni.
«Non avvicinarti a me e fammi uscire da qui!»
«No, non puoi. Abbiamo qualcosa da chiarire», ghigna afferrandomi per i polsi e con uno strattone mi trascina di nuovo giù rischiando di farmi cadere. Mi spinge sul letto dove stramazzo sbattendo contro il muro. Mi inchioda subito all'angolo come un topo e porto le ginocchia al petto per proteggermi. «Non credo sia il momento giusto per farmi arrabbiare», penso allo stesso tempo ad ogni possibile mossa per metterlo al tappeto quel tanto che basta per trovare la chiave e scappare.
Increspa le labbra come se avesse intuito il mio piano. «Abbiamo tutto il tempo.»
«Il tuo piano è tenermi imprigionata qui? Sul serio?»
Annuisce più che convinto. «Ti sto tenendo qui da tre giorni. Figuriamoci se non ci riesco per mesi o anni», sorride come un clown. «Alla fine come vedi, stiamo bene insieme.»
Il mio stomaco si contorce. Sono rimasta attenta solo alle sue prime parole. «Che cosa significa che sono qui da tre giorni?»
Il mio tono stridulo lo fa sussultare. Mi sollevo allontanandomi da lui, guardandolo con disgusto senza nasconderlo. «Mi tieni qui da tre giorni? Ti sembra normale una cosa del genere, Ephram? Dio, avresti potuto anche fermarmi e parlarmi. Che diavolo ti passa in quella testa? Stai davvero rischiando grosso per... per che cosa esattamente?»
Si alza avvicinandosi. Non indietreggio. Si ferma a pochi centimetri dal mio viso. Mantengo la calma anche quando sento che puzza di alcol. Non posso assolutamente scaricare le energie. Non posso sentirmi così spaventata e mostrarglielo. Non posso neanche permettermi una svista.
Tre giorni, cazzo!
«Ti avevo detto che non era finita», ghigna. «Non hai preso seriamente le mie parole», fa un'espressione vagamente offesa. «Ma è stato eccitante metterti a dormire, tapparti la bocca per qualche giorno.»
Deglutisco a fatica. «Tu sei malato!», provo a salire le scale.
Vengo afferrata per la vita prima ancora che io riesca a posare un piede sul primo gradino e schiacciata sul materasso. Mi oppongo graffiandogli la faccia e quando prova a somministrarmi delle gocce dentro la bocca usando una fiala, gliele sputo in faccia mollandogli un pugno ben caricato e calcolato.
«Se vuoi tenermi qui fallo pure. Ma affrontandomi mentre sono sveglia, lurido stronzo!»
Sento uno scricchiolio di ossa. Ephram cade a terra urlando dal dolore mentre dal naso gli cola copioso il sangue verso le labbra. Tra qualche minuto un bruttissimo livido coprirà e gonfierà la sua pelle.
Provo quasi soddisfazione. Eppure sono terrorizzata quando si rialza e mi guarda.
«Nessuno saprà mai dove sei, stronza!»
Corre verso la porta tenendo una mano sotto le narici e io lo seguo. Ma prima che riesca a mettere piede fuori mi spinge con rabbia e cado lungo le scale rimanendo senza fiato quando atterro sul pavimento di cemento.
Tossisco guardando in alto con gli occhi stretti a fessura. La porta si chiude con un tonfo e a causa dell'impatto dovuto alla caduta: perdo di nuovo i sensi.

Sento il tocco delicato di una mano sulla guancia e mi sveglio di scatto ritraendomi.
Vedo doppio e ci metto un po' a pensare dove mi trovo. Mi accorgo che a toccarmi è proprio Ephram. Se ne sta sdraiato su un fianco accanto a me. Mi sistema la coperta addosso. «Potevi rovinarti questo bellissimo viso, lo sai?», stringe i denti. «Perché devi essere così... ostinata?», digrigna i denti. «So di non essere come lui ma devi per forza rifiutarmi in quel modo?»
Scaccio la sua mano sollevandomi a stento a metà busto. Ho un dolore forte alla schiena. «Mi hai spinta giù dalle scale, te ne sei accorto o eri solo nel panico?», sbuffo trattenendo un urlo di dolore quando provo a drizzare la colonna e non ci riesco del tutto. Sono costretta a starmene ingobbita. «Questo non è interesse. È solo ossessione.»
«Perché sei così irascibile con me?», urla adirato. «Perché continui a trattarmi con accondiscendenza?»
Sussulto. «Perché sei uno psicopatico!»
Le mie parole si abbattono su di lui come uno sparo.
Mi schiaccia sul materasso stringendo la presa sul mio collo. Le sue dita fanno pressione soffocandomi. Lotto ancora e finalmente mi lascia quando intuisce che sto per mollargli un altro pugno in faccia per liberarmi dalla sua presa. Come avevo previsto ha un grosso livido in faccia.
Ma sono troppo atterrita per provare orgoglio o soddisfazione. Soprattutto al pensiero di essere qui da tre, quanti giorni sono passati adesso?
«Non... chiamarmi così!»
«E tu non tenermi qui. Ho bisogno di andare in bagno e ho fame.»
Come se si stesse ricordando adesso del dettaglio, corre a prendere un vassoio dalla scrivania con un ampio sorriso. Quello che tiene in mano è insalata con pezzetti di pollo e mais, un bicchiere, una bottiglia d'acqua e due fette di pane. «Non devi che chiedere. Mi piacerebbe viziarti in tanti modi, Erin. Se solo mi permettessi di farlo.»
Guardo con riluttanza il cibo. «Di sicuro ci hai buttato del narcotico sopra quindi no, grazie. Per quanto io sia affamata non ho intenzione di stordirmi ancora. Credo di averne abbastanza di dormire contro la mia volontà.»
Nega passandosi la mano tra i capelli ricci. «No, no. Ti sbagli.»
Ha uno strano comportamento. Un attimo prima è furioso e quello dopo somiglia a un bambino bisognoso di attenzioni.
Per dimostrarmi che posso fidarmi prende un pezzo di pane, una foglia di lattuga e beve persino un sorso d'acqua. «Visto?»
Mordo il labbro aspettando ancora qualche minuto per vedere se ha effetto su di lui ma il mio stomaco brontola. Bevo un po' d'acqua poi mando giù il pane.
«Posso portarti un gelato? Ti va?»
«Puoi portarmi anche a casa?»
Si alza indurendo i lineamenti e con una mossa sola schianta tutto il cibo all'angolo lanciando un urlo abbastanza forte. Mi scappa un singhiozzo e tappo le orecchie.
«Sei una stronza! Non accetti mai niente! Non ti accontenti e continui a rifiutarmi!»
«Ephram, ho bisogno del bagno. E qui dentro si soffoca. Terrò la porta socchiusa ma non farmi stare qui come un animale o avrò una crisi di panico perché odio gli spazi chiusi e per te sarà uno spettacolo orribile nonché pericoloso.»
Mi abbraccio seguendo un copione. A quanto pare sono convincente perché ci pensa su. «Ti darò il tempo di una doccia. Ma niente scherzi.»
Annuisco con un barlume di speranza dentro e quando mi porge la mano, per non rendere vano ogni mio tentativo, lo seguo. Mi tiene ferma e stretta puntandomi una siringa contro il collo fino al piano di sopra in cui mi lancia dentro la sua stanza. «Stai qua e non azzardarti a fare niente di avventato o giuro che ti faccio male.»
Annuisco. «Aspetterò», dico con voce controllata indicando il bordo prima di prendere posto sul letto.
Quando esce dalla stanza, mi rendo conto che la finestra è sbarrata. Mordo il labbro e apro il primo cassetto del comodino trovandoci un telefono. Provo ad accenderlo per vedere se funziona e fortuna vuole che sia anche minuto di scheda sim con il credito utile per mandare un segnale. Lo infilo dentro i jeans prima che lui rientri.
Mi guarda con attenzione, con sospetto. Mi sento spaventata e a disagio ma è la mia unica opportunità, mi dico controllando il respiro, la postura. Evitando ogni gesto avventato o tic nervoso.
«Indossa questi. Farò lavare i tuoi indumenti.»
Annuisco prendendo una felpa e un paio di pantaloncini. «Grazie.»
Decido di adottare un atteggiamento pacato e cordiale nei suoi confronti, pur volendo togliere dalla sua faccia quel ghigno.
«Niente scherzi o ti scaraventerò al piano di sotto», minaccia.
Mi chiudo nel bagno. Anche qui dentro la finestra è stata sigillata. Non ho neanche la possibilità di romperla. Ephram entrerebbe al primo rumore.
Ha pensato proprio a tutto. In fondo, ha avuto il tempo di organizzare ogni cosa.
Sentendomi a disagio mi giro intorno, prendo il telefono e invio due messaggi attendendo qualche minuto prima di spegnerlo e nasconderlo dentro il serbatoio dello sciacquone di ceramica posto in alto del water che riesco ad aprire con una certa facilità sollevando il coperchio senza fare il minimo rumore, trovandovi dentro un bel po' di banconote tenute legate da elastici e impilate dentro una busta. Ci sono anche delle bustine con della polvere ma faccio attenzione a non toccare niente. Tolgo persino le impronte dallo schermo del telefono prima di nasconderlo. Infilandomi poi dentro la vasca tiro bene la tendina e sentendomi a disagio provo a lavarmi continuando a guardare verso la porta per assicurarmi che lui non mi stia spiando.
Quando ho finito indosso gli indumenti che mi ha dato ed esco prima che mi raggiunga fingendomi serena. In cuor mio spero che quei messaggi non sembrino uno scherzo di cattivo gusto.
«Hai già finito?», mi squadra sentendosi soddisfatto nel vedermi addosso i suoi indumenti.
Annuisco reprimendo il disgusto. «Si.»
Corruga la fronte guardando il bagno in ordine. «Ok, torniamo di sotto.»
Lo seguo e guardo la porta fermandomi tra il soggiorno e la cantina. Lui mi strattona e capisco di non avere altra occasione di questa. Gli mollo una pedata mandandolo contro la parete e corro verso la porta. Provo ad aprirla ma scatta subito l'allarme.
«Aiuto!»
Guardo la finestra e la apro lanciandomi fuori. Ma prima ancora che io riesca anche solo a tuffarmi sulla siepe, Ephram mi afferra per i fianchi tirandomi dentro.
«Aiuto!»
Mi tappa la bocca. Gli do un morso alle dita così forte da lasciargli il segno e urla scuotendo subito la mano. Però non demorde trascinandomi con la forza al piano di sotto, nella cella che ha creato appositamente per me.
«Lasciami!»
«Maledetta», ringhia quando lo colpisco correndo ancora verso la finestra aperta.
Urlo a squarciagola per attirare l'attenzione dei vicini e prima di arrivare fuori lancio l'elastico con le perline sul prato lasciandomi afferrare e sedare. In breve in me ripiomba la stanchezza e il mio corpo si appesantisce.

«Perché lo hai fatto?»
Qualcosa mi preme sulla guancia. Gli occhi sono talmente pesanti che a stento riesco a sollevare le palpebre. Questa volta mi ha somministrato qualche sonnifero per cavalli, altrimenti non si spiega la stanchezza.
Ephram ha lo sguardo grave ed è così arrabbiato da spaventarmi.
Per la prima volta comprendo le sue intenzioni e tremo. Non mi nascondo. Lascio persino tremare le labbra.
Appare stupito. «Hai paura di me? Devi averne», ringhia soddisfatto, sorride.
Provo a muovermi ma ho i polsi legati. Allora scalcio e lui mi blocca le gambe sotto il suo peso. «Adesso ci divertiamo, che ne dici? Ti mostro quello che voglio da te...»
«Lasciami!», urlo mollandogli una ginocchiata in mezzo alle gambe e una testata quando si fa vicino. «Non starò mai con te. Mi fai schifo!»
Ricambia con uno schiaffo. Sento il labbro aprirsi e gli sputo in faccia il sangue quando prova ad avventarmisi addosso. La guancia inizia a pulsarmi. Urlo forte dimenandomi, rifiutandolo con tutte le mie forze. Strattono i lacci ma è inutile. Lui sa già cosa vuole e non posso impedirlo.
Mi abbassa i pantaloncini. Giro la testa quando affonda il viso sul mio collo baciandolo con le sue luride labbra.
Emetto un verso stridulo mentre le sue dita sfiorano l'elastico delle mutandine. Le lacrime iniziano a salire e a bruciarmi gli occhi.
Suona il campanello e lui alza di scatto la testa poi si allontana svelto da me. Una ruga gli si forma sulla fronte. «Tempismo perfetto», ringhia picchiando il pugno sul materasso.
Sussulto riprendendo fiato, ringraziando il cielo o chiunque sia ad averlo interrotto.
«Torno tra un attimo. Deve essere la cena. Ho organizzato una bellissima serata romantica per noi due. Dopo il dolce mangeremo qualcosa di salato.»
Non mi ero accorta che fosse già così tardi. I giorni passano senza neanche viverli chiusa qui dentro.
Quando chiude la porta, strattono le corde fino a solcarmi i polsi e alla fine riesco a slegarmi spezzandone una. Allora liberandomi del tutto, mi sollevo sulla piccola finestrella picchiando il pugno abbastanza forte sul vetro da spaccarmi le nocche lasciando macchie rosse sulla superficie, urlando a squarcia gola come una pazza.
Un cane si avvicina annusando la finestra e mi viene da piangere quando scappa con un guaito e ogni mia speranza viene vanificata dall'arrivo di Ephram.
Sbatte la porta alle sue spalle. Non tiene niente in mano e ha un'espressione minacciosa. Questa si intensifica quando mi vede slegata e in piedi sul letto. Posa una siringa sulla scrivania e si avvicina stringendo i pugni in vita.
Scappo al suo attacco ma sono debole e non riesco a sfuggirgli.
«Dove eravamo rimasti?»
Ride e io urlo picchiando i palmi sul suo petto quando mi blocca sul letto con una forza tale da spezzarmi le ossa e spaventarmi.
«Pagherai per questo!»
«Non ti troverà nessuno. Nessuno ti cerca più. Neanche l'amichetto che hai lasciato a Londra. Si è dimenticato di te in fretta. Questo perché è destino. Tu sei solo mia!»
Gli mollo un calcio in faccia stordendolo. Tiro la chiave dai suoi pantaloni e corro al piano di sopra. Esco dalla porta sbattendola alle mie spalle raggiungendo il centro tra la scala e l'entrata in poche falcate. Sento un colpo secco. Mi ritrovo a terra. Un dolore forte alla schiena risucchia via dai miei polmoni l'aria. Boccheggio girando la testa.
Ephram mi blocca con un ginocchio e preme la siringa sul collo ma non inietta la sostanza. Mi manca sempre più il fiato e mi agito mentre mi allarga le gambe. «Posso prenderti anche qua se ti piace di più. Vedrai ti farò dimenticate di lui.»
«NO!», urlo.
Insieme al mio urlo si sente un frastuono e vengo liberata dalla sua pressione. Mi rannicchio in posizione fetale preparandomi a qualcos'altro ma non succede niente.
Sento Ephram urlare di dolore poi dei lampeggianti illuminare il tetto.
«Ha il diritto di rimanere in silenzio...»
Le orecchie iniziano a fischiarmi. Mi sfioro il collo sentendo l'ago piantato per fortuna non in profondità. Lo estraggo lasciandolo cadere sul pavimento singhiozzando come una bambina. Le mie gambe tremano e il mio corpo si fa pesante.
«Erin...»
«Ha capito i suoi diritti?»
«Si.»
«Erin...»
«Che cazzo le hai fatto?»
«Signore, si allontani da lui!»
«Che cazzo le hai fatto?»
I minuti passano. Qualcosa mi sfiora il collo. Mi ritraggo urlando pur rimanendo a occhi chiusi. Poi vengo presa in braccio nonostante le proteste. «Lasciami. NO!»
«Sssh, va tutto bene.»
Riconosco la presa salda, la voce che arriva storpiata alle mie orecchie. È Shannon. Ne ho la conferma quando alle narici mi arriva il suo odore, un misto di nicotina e colonia al sandalo e cedro.
Mi stringe al petto. «Sei al sicuro, principessa. Andrà tutto bene.»
Io ci credo, smetto di dimenarmi e mi abbandono.

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